lunedì 11 marzo 2024

Gli “Ostinati” nella Nazione !!

Razzismo e modernità politica
Alcune riflessioni su un libro pubblicato di recente
- di Cyril Lemieux -

Questo testo è stato scritto in un contesto diverso da quello che si è formato dopo il 7 ottobre. Tuttavia, ha anticipato un doppio problema che questo evento ha fatto precipitare: la specificità dell'antisemitismo all'interno della logica razzista e ciò che, nelle società contemporanee, fa sì che le potenziali vittime del razzismo diventino talvolta portatrici, paradossalmente, di argomenti antisemiti. "Race et histoire dans les sociétés occidentales (XVe-XVIIIe siècle)" rientra tra quelle opere che segnano un'epoca. Lo fa principalmente - come evidenziato nella recente intervista rilasciata dai suoi autori, Jean-Frédéric Schaub e Silvia Sebastiani, a K Magazine - perché questo libro stabilisce una cronologia assai diversa da quella a cui eravamo abituati per quel che riguarda l'emergere del fenomeno designato con il termine "razzismo", il quale non è nato nell'Ottocento, bensì, come dimostrano gli autori, quattro secoli prima. L'applicazione del concetto di "razza" agli esseri umani, osservata fin dal Rinascimento, non aveva altro uso se non quello politico. Pertanto, esso implica, fin dall'inizio, non solo la razzializzazione, ma anche il razzismo. A partire da questo, l'opera assume perciò un respiro generale: stabilendo che i primi pensieri sulla razza sono stati pensieri politici, ci porta a ridefinire che cos'è il fenomeno razzista in sé, fin dalle sue origini nella storia europea, e il modo in cui si estende oggi fino a noi. Veniamo pertanto istigati a prestare attenzione allo sviluppo che questo fenomeno ha subito, oltre e al di là del periodo studiato dagli autori, e a considerare il modo in cui le manifestazioni del razzismo si siano evolute, fino a diventare quelle che conosciamo oggi. Quello che è qui il nostro commento, parte da questa intenzione. Leggendo il libro, vorremmo innanzitutto proporre una definizione di razzismo, la quale non è certo quella formulata dagli autori, ma che ci sembra possa essere dedotta a partire dalle loro analisi. Questa definizione generale, ci porta a una distinzione fondamentale tra quelli che sono i due schemi a partire dai quali si genera il razzismo e che l'opera espone, facendolo però, a nostro avviso, senza distinguerli sufficientemente l'uno dall'altro: se è il razzismo aristocratico, la matrice del primo, a costituire il modello del secondo è l'antigiudaismo. Dopo di che, in continuità con l'opera, vorremmo provare a ricostruire le sorti dei due schemi, così come li abbiamo distinti, dopo il momento in cui il libro ci lascia; vale a dire, la fine del Settecento, che vide l'avvento della modernità politica. Prendere in considerazione l'evoluzione che c'è stata negli ultimi due secoli, è fondamentale se si vuole colmare il vuoto che separa dal presente, il pensiero di Schaub e Sebastiani: poiché un salto diretto richiederebbe di portarci a formulare una diagnosi errata del presente, mentre invece la ricostruzione dell'anello mancante ci consente di sfruttare al meglio i contributi dell'opera, in modo da poter così comprendere – come ci sforzeremo di fare nella parte finale del nostro discorso – i meccanismi contemporanei del razzismo e dell'antisemitismo; e riflettere su come combatterli in una maniera che sia adeguata alle sfide del nostro tempo.

Sul contenuto del libro
Il razzismo degli aristocratici di antica stirpe nei confronti delle persone appena nobilitate, vale a dire, il razzismo dei cristiani verso gli ebrei convertiti o, nelle società americane, il razzismo dei coloni bianchi nei confronti dei mulatti. Nel sottolineare il rifiuto suscitato dalle figure "ibride" e, ancor più, mostrando la loro centralità nella genesi dei sentimenti razzisti, il libro ci introduce a una nuova visione. L'opposizione binaria tra un gruppo che produce razzismo e un altro che lo subisce, dove l'esistenza di un'ibridazione già in atto tra i due gruppi, e la prospettiva - da quel momento in poi - che essi vengano visti come se fossero ancora più mescolati, si lega spontaneamente, e si complica, in una struttura ternaria, che motiva la volontà del gruppo dominante di mantenere le posizioni precedenti, “razzializzandole”. Pertanto, il razzismo non nasce dal divario tra un gruppo dominante e un gruppo dominato. Al contrario, viene piuttosto determinato dal ridursi di questo divario, laddove il gruppo dominante percepisce questa riduzione come una minaccia per sé stesso e, più in generale, per la società. È questa è la tesi centrale, e per molti versi rivoluzionaria del libro. Seguendo la prospettiva aperta, sembra possibile proporre una definizione generale del fenomeno razzista: consiste nel naturalizzare l'incapacità, da parte di un determinato gruppo, di adottare norme ritenute superiori alle proprie. In questo senso, la nozione di razza non si riferisce principalmente a considerazioni biologiche, quanto piuttosto a un'operazione sociale di naturalizzazione di quella che viene ritenuta una "disabilità", un’incapacità, manifestatasi ripetutamente nella pratica, ossia, una certa difficoltà ad agire e a giudicare secondo le norme ritenute superiori. Tale incapacità può essere intesa, dai contemporanei, come l'effetto di un'impossibilità fisica e intellettuale che si trasmette in maniera ereditaria; come ad esempio avveniva nel caso di un nobile di origine plebea, o del meticcio, che a causa del suo sangue veniva considerato incapace di agire e giudicare come un vero nobile, o un vero bianco. A volte, l'incapacità viene vista come il risultato di una maledizione, che però è impossibile da evocare, dal momento che viene trasmessa anche attraverso il sangue; come avviene nel caso - torniamo a questo - degli ebrei convertiti, i quali non possono accettare sinceramente la salvezza cristiana. Adottare questa definizione, ci porta a distinguere due schemi, a partire dai quali vengono generati atteggiamenti razzisti, e che però la cui specificità non viene rilevata da Schaub e Sebastiani, ma che il loro libro ci porta tuttavia a constatare.
Nel primo di questi schemi, la naturalizzazione della disabilità viene messa in atto da parte dei gruppi socialmente dominanti che sono interessati a impedire l'accesso alla posizione superiore della quale potrebbero godere i gruppi inferiori. Formulata in questo modo, l'analisi rimane solo a livello di azione strategica. Per poter adottare un punto di vista sociologico più completo – quello che Max Weber chiamava "globale" – è necessario aggiungere che i membri dei gruppi dominanti si sentono moralmente scandalizzati dall'incapacità, da parte dei membri dei gruppi socialmente inferiori, di rispettare quelle norme di comportamento che, secondo loro, caratterizzano una posizione superiore. Ciò che essi naturalizzano, pertanto, è, in primo luogo, la loro propria stessa capacità, che essi sperimentano come spontanea, di rispettare tali norme che associano alla posizione superiore. Inoltre, in secondo luogo, si tratta anche dell'incapacità, regolarmente dimostrata da parte dei membri di quei gruppi socialmente inferiori, a rispettare tali norme, o quanto meno rispettarle con la stessa naturalezza e spontaneità con cui lo fanno i gruppi superiori. Troviamo così, che al centro di questa naturalizzazione delle capacità del "noi" e delle incapacità del "loro", viene collocato un certo tipo di osservazioni che si basano sull'esperienza. La distinzione nobiliare rispetto alle persone recentemente nobilitate - così come viene esaminata nel primo capitolo del libro -  rappresenta la prima e fondamentale manifestazione di questo tipo di razzismo, suscitato da una certa uguaglianza e parità di condizioni. Ma tutto questo, potrebbe essere associato anche, ad esempio, al razzismo contro i neri; così come esso si sviluppò alla fine dell'Ottocento nel sud degli Stati Uniti, dopo l'abolizione della schiavitù. In un certo qual modo, potrebbe essere associato anche a quello che Pierre Bourdieu, ne "La Distinzione", definiva come «razzismo di classe». E questo perché, in effetti, tale schema corrisponde a un razzismo che, per quanto biologizzato, in ultima analisi può essere interpretato sulla base delle relazioni di dominio che prevalgono tra gli strati sociali o le classi. Più precisamente - ripetiamolo - viene inteso come una reazione dei gruppi dominanti alla continua diminuzione dei divari sociali tra questi strati o classi.
Nel secondo schema, la naturalizzazione dell'incapacità trae la sua origine dall'ambizione che hanno gli adepti a una religione, vale a dire al cristianesimo, di convertire universalmente tutti coloro che ancora non si riconoscono in essa. Secondo questo secondo schema - a differenza del primo - non si tratta più di limitare l'accesso a una posizione ritenuta desiderabile: si tratta, al contrario, di generalizzarla a tutti e di accelerarla. Pertanto, in questo caso, il fenomeno centrale da considerare è la "Ostinazione" - da parte dei non cristiani - nel rimanere come sono, e persistere - all'interno di società dominate da cristianesimo - dentro gruppi religiosi che si pongono decisamente «al di sotto» delle norme cristiane. Ed è questa Ostinazione, a generare nei cristiani, non solo una delusione, ma anche e soprattutto - nei più impazienti – Ostilità, e questo nel mentre che, ostinandosi a rifiutare le rivelazioni della religione cristiana, i non cristiani - che rimangono un gruppo religioso - diventano in tal modo un ostacolo alla salvezza di tutta l'umanità. Secondo questo schema, si ha Razzismo ogni qual volta che i cristiani, desistendo da quella che è la loro volontà di convertire universalmente, intraprendono invece la naturalizzazione di quella che sarebbe l'incapacità di alcuni gruppi non cristiani. e dei loro futuri discendenti, di convertirsi alla fede cristiana. Va precisato che, anche qui, la naturalizzazione razzista rimanda a una forma di esperienza, e perciò, in questo senso, non sembra essere priva di un fondamento pratico. Infatti, alcuni gruppi religiosi non cristiani possono effettivamente dimostrare la loro volontà di persistere nel loro essere - e quindi dare così regolarmente segnali della loro indifferenza al messaggio cristiano che viene loro rivolto; se non addirittura rifiutarsi nettamente di riconoscere la superiorità logica e morale dei cristiani. Tuttavia, questa naturalizzazione, dal momento che essa  porta a rinunciare all'ambizione di un'evangelizzazione universale, la quale è parte del fondamento della religione cristiana, rischia sempre di venire contestata nel nome della stessa dottrina cristiana, e quindi di innescare un dibattito interno al cristianesimo. La razzializzazione degli ebrei convertiti, costituisce la matrice di questo razzismo nato dai limiti che l'evangelizzazione cristiana ha incontrato. Ma può anche essere associata, ad esempio, a certi aspetti di quello che è il razzismo nei confronti dei popoli amerindi, i quali sono stati convertiti con la forza, e continuano a praticare segretamente le loro credenze pagane. Se questo secondo schema merita di essere distinto dal primo, lo è a partire dal fatto che, essenzialmente, il razzismo che gli corrisponde non si basa su dei rapporti di dominio sociale, sebbene possa coniugarli. Piuttosto, il suo fondamento risiede assai più in un desiderio religioso di uguaglianza delle condizioni, che sul piano spirituale - va sottolineato - è stato perseguito solo nelle società cristiane dell'Ancien Régime. Più precisamente, questo secondo tipo di razzismo può essere interpretato come una reazione all'Ostinazione, da parte di alcuni non cristiani - a rimanere come sono, e a persistere in quanto gruppo religioso non cristiano; Ostinazione e persistenza che, sul piano spirituale, vengono percepite come degli ostacoli alla realizzazione del desiderio religioso di uguaglianza universale sul piano spirituale. In entrambi gli schemi, il razzismo procede attraverso la naturalizzazione di un'incapacità, e in ogni caso assume un carattere e un atteggiamento fondamentalmente reazionario. Ma mentre nel primo schema, quello del razzismo di classe, si tratta di un atteggiamento reazionario provocato da una certa oggettiva parificazione delle condizioni; nel secondo, quello del razzismo cristiano, l'atteggiamento reazionario è provocato dal fatto che una certa aspettativa di equiparazione delle condizioni viene frustrata. Nelle analisi del razzismo contemporaneo, ci si concentra soprattutto sul primo schema, e ci sono delle buone ragioni per farlo. Ma il razzismo dei cristiani, non è meno importante, perché ci ricorda che il comportamento razzista, in quanto atteggiamento reazionario, può prodursi anche all'interno di movimenti che inizialmente sono favorevoli a una maggiore parità di condizioni. Anticipando quello che svilupperemo nelle righe successive, possiamo pensarlo come in relazione a quei movimenti politici di estrema destra dal momento in cui, alla fine del XIX secolo, hanno aderito all'idea nazionale. Ma dobbiamo pensarlo anche in relazione ai movimenti socialisti. E anche persino ad alcuni pensatori liberali, visto che essi miravano a una maggiore parità di condizioni, per quanto solo a livello di diritto formale.

Che succede nel libro?
Il libro di Schaub e Sebastiani si conclude quando arriva sul bordo della modernità politica. Pertanto, ci lascia chiedendosi come - a partire dalla fine del XVIII secolo in poi - l'emergere della forma "nazione", e lo sviluppo degli apparati statali al suo servizio, abbia influito sui due schemi che abbiamo appena identificato. Tuttavia, se si vuol fare una diagnosi accurata delle diverse forme di razzismo, così come esse si manifestano nel nostro presente, è fondamentale rispondere a questa domanda. Per quel che riguarda il razzismo di classe, in primo luogo, bisogna ammettere che è stato l'emergere della modernità politica ad aver ampliato e generalizzato una simile pratica. Anziché lasciare all'aristocrazia il suo monopolio sulle famiglie borghesi, con l'aumentare della divisione del lavoro e della mobilità sociale, la tendenza a naturalizzare le incapacità si diffuse nei confronti dei diversi strati della società. Cosicché, alla fine dell'Ottocento, ci furono alcuni settori della grande borghesia che, a loro volta, adottarono questo razzismo in quelle che erano le loro relazioni con i "nuovi ricchi" e con gli imprenditori provenienti da paesi economicamente meno sviluppati, la cui incapacità di padroneggiare i codici "buoni" poteva ora essere attribuita alla loro ereditarietà. E anche la piccola borghesia e l'élite operaia, nei loro rapporti con i nuovi membri provenienti dai paesi poveri, dal mondo degli immigrati e dal sottoproletariato, venne riprodotto lo stesso meccanismo. In alcune delle sue componenti, la borghesia, e più tardi la piccola borghesia, originariamente largamente incline al liberalismo - e così anche una parte del mondo del lavoro, a volte fino ad allora incline al socialismo - man mano che le classi immediatamente inferiori si avvicinavano a loro socialmente e si mescolavano con loro, svilupparono un modo di pensare reazionario e razzista. Esattamente come avviene nella descrizione - fatta da Schaub e Sebastiani - delle dinamiche di questo schema nei secoli precedenti, a sua volta, anche l'espansione del razzismo di classe viene sollecitata dall'aumento della mobilità sociale e dalla riduzione del divario tra le classi sociali. Due grandi pressioni egualitarie, sembrano aver alimentato questo processo: in primo luogo, nel XIX secolo, l'abolizione della schiavitù nelle nazioni europee e nordamericane; in secondo luogo, nel XX secolo, in queste stesse nazioni, lo sviluppo del Welfare State e dell'assistenza sociale. In questo senso, il fatto che l'intera società - e non più solo gli strati aristocratici - sia soggetta al razzismo di classe, merita di essere considerato come un segnale di progresso, nell'oggettiva uguaglianza delle condizioni sociali, per quanto si tratti di un effetto propriamente reazionario, e quindi di una volontà politica retrograda, proprio di fronte a questo progresso. In secondo luogo, per quanto riguarda il razzismo egualitario dei cristiani, è importante tener conto degli effetti che l'emergere delle nazioni moderne ha avuto sull'universalismo e sull'individualismo cristiano, vale a dire che sono state secolarizzate e nazionalizzate, senza che tuttavia sia stata annullata – al contrario – la matrice teologico-politica che esse fornivano. È stato nel corso di questo processo che siamo passati definitivamente dall'antigiudaismo tradizionale, basato su motivi apertamente religiosi, all'antisemitismo moderno, basato su motivazioni nazionaliste. A partire dall'Ottocento, in tutta Europa, sarà infatti il nazionalismo in sé - senza alcun bisogno di avere un esplicito legame con la religione cristiana - a diventare il principale sostegno per la condanna della "Ostinazione" ebraica. Ne sarebbe risultata una Etnicizzazione, se non addirittura una biologizzazione, degli ebrei, che avrebbe relegato in secondo piano la religione ebraica, vista come mero epifenomeno della "razza". Certo, per il tradizionalismo cattolico, così come nella "santa" Russia, l'ebraismo rimaneva sempre quello che era agli occhi dell'antigiudaismo medievale: un ostacolo religioso al trionfo del cristianesimo. Ma la cosa smette di essere centrale; il motivo nazionalista sta prendendo il sopravvento ovunque. Questa secolarizzazione appare particolarmente evidente nel fascismo e nel nazismo, per i quali la religione ebraica non rappresenta più di per sé un problema: piuttosto, ciò che viene considerato come un'ostacolo da abbattere, è la persistenza, all'interno della nazione di una "razza" ebraica, o addirittura di una "mentalità" ebraica; detto in altri termini, si tratta della "Ostinazione" degli ebrei, che anche quando - come individui - erano diventati cittadini della nazione, continuano a sentirsi solidali con un gruppo diverso dalla nazione. Va sottolineato che, questa solidarietà degli ebrei, gli uni con gli altri, essendo allo stesso tempo presupposta e naturalizzata dall'antisemitismo, acquista un carattere indiscutibile. Non può esserci nessuna prova della loro appartenenza alla nazione e del loro sacrificio per essa, in grado di esonerare i cittadini ebrei dalla loro "prima" appartenenza al gruppo formato dagli ebrei. In questo modo, il razzismo egualitario viene profondamente rimodellato dalla modernità politica. Le norme considerate superiori, che il gruppo stigmatizzato viene considerato "naturalmente" e "definitivamente" incapace di adottare, ora non sono più quelle dell'universalismo e dell'individualismo cristiano, ma sono le norme dell'appartenenza nazionale. Qui sembra importante sottolineare come queste norme - considerate superiori - di appartenenza nazionale, non siano, nonostante le apparenze, intese come se fossero i resti delle norme olistiche e gerarchiche dell'Ancien Régime. Al contrario, esse sono l'espressione di una forma di individualismo e di egualitarismo di origine cristiana che qui trova la propria espressione nella nazione moderna, sia secolarizzata che "temporalizzata"; termine quest'ultimo da intendersi nel senso che l'eguaglianza nelle condizioni della nazione non è più finalizzata solo all piano spirituale, ma viene anche, e soprattutto, vista come realizzazione reale e temporale. Ciò rimane vero anche nel caso dei regimi totalitari, dove questo individualismo egualitario viene reinterpretato nelle modalità reazionarie e razziste; vale a dire, nella loro forma "mostruosa", per dirla con Dumont [*1]. Pertanto, anche e soprattutto nel caso di tali regimi totalitari, è lecito evocare un razzismo egualitario-nazionalista che, nella modernità politica, succede al razzismo egualitario-cristiano delle società dell'Ancien Régime.

La trasformazione del tradizionale antigiudaismo cristiano in antisemitismo moderno ci fornisce la chiave per comprenderlo. Infatti, è stato proprio questo particolare tipo di razzismo che, nel XX secolo, ha portato alla persecuzione degli ebrei da parte dei regimi fascisti, e ha rafforzato il tentativo nazista della loro distruzione sistematica. Ed è stato questo ad aver portato a un destino simile, da parte di questi stessi regimi, anche per gli zingari e per gli "apolidi". La cosa si è manifestata anche in Unione Sovietica, attraverso la tendenza del potere politico a naturalizzare l'incapacità dei kulaki e dei "nemici di classe" - così come quella dei loro discendenti - a convertirsi alla causa bolscevica, e successivamente, in base a una mentalità nazionalista - diventata sempre più assertiva a partire dagli anni '30 in poi -, a sospettare gli ebrei, insieme ad alcune altre nazionalità all'interno dell'Unione Sovietica, della loro “Incapacità” di essere "pienamente" sovietici. Ed è sempre questo ciò che si può vedere, all'inizio del Novecento, nel genocidio degli Armeni organizzato dai "Giovani Turchi" così come, alla fine dello stesso secolo, nei genocidi perpetrati dai Khmer Rossi in Cambogia e dagli Hutu in Ruanda. I casi che qui potremmo citare sono molti. Tuttavia, questa estensione del razzismo egualitario, per mezzo di motivazioni nazionaliste, all'intero pianeta, non è sorprendente. La sua generalizzazione è un effetto della crescente integrazione dei gruppi umani in un quadro di Stato-nazione e di ciò che ne deriva: la crescente interiorizzazione, da parte delle persone, di norme individualistiche ed egualitarie. Quindi, quanto più una società è soggetta al razzismo egualitario-nazionalista, tanto più dovremmo vederlo come un segno di progresso nella costruzione della Nazione. Ma, ancora una volta, si tratta di un atteggiamento reazionario nei confronti di questa costruzione nella quale l'abbandono di certi legami comunitari, o quanto meno la loro subordinazione alle norme dell'appartenenza nazionale - da parte di alcuni individui - , si trasforma in un giudizio negativo nei confronti di altri individui che, secondo loro, non l'avrebbero fatto. A nostro avviso, è solamente sulla base di queste precisazioni che è possibile affrontare la questione del colonialismo moderno, visto nel suo rapporto con il razzismo.

Chiariamo: per "colonialismo moderno" non intendiamo ciò che viene analizzato da Schaub e Sebastiani, e che riguarda le società coloniali e schiaviste delle Americhe dal XVI al XVIII secolo, delle quali descrivono perfettamente quali fossero i legami con il razzismo. Per colonialismo, intendiamo ciò che  si è sviluppato, dal XIX secolo in poi, con l'emergere in Europa degli Stati-nazione e della modernità politica. A partire da quanto abbiamo visto, comprendiamo in che modo questo colonialismo possa obbedire a due logiche diverse. Per cui, in alcuni casi è apertamente razzista, visto che i suoi sostenitori concepiscono le popolazioni colonizzate e i loro discendenti come se fossero permanentemente incapaci di acquisire le norme superiori dei colonizzatori. Oltre tutto, viene considerato indesiderabile che queste popolazioni cerchino di acquisire tali standard. Si tratta dell'atteggiamento dei colonizzatori osservato, ad esempio, nelle colonie che sono state mantenute in Africa dalla Germania (prima della prima guerra mondiale), dal Belgio o dall'Italia fascista, o in Estremo Oriente, dal Giappone, o ancora nei territori ucraini e russi occupati nel 1941 dalla Germania nazista. Questo, è anche l'atteggiamento che il potere bianco ha adottato in Sudafrica fino alla fine dell'apartheid. In altri casi - soprattutto negli imperi britannico e francese - il colonialismo si proclama "civilizzatore", se non addirittura "emancipatore". Ufficialmente, gli viene affidato il compito di far sì che le popolazioni colonizzate acquisiscano le norme ritenute superiori dai colonizzatori, le quali consentono così loro, almeno in teoria, di appartenere pienamente alla nazione colonizzatrice, o a una comunità di nazioni (Commonwealth) uguali in diritti e in dignità. Questo secondo tipo di colonialismo non ha meno intenzione del primo di affermare quella che è la superiorità - incontestabile ai suoi occhi - delle norme della nazione colonizzatrice su quelle dei popoli colonizzati. Tuttavia, la sua peculiarità distintiva è quella di denaturalizzare l'incapacità che questi ultimi hanno di appropriarsi di tali norme, ritenute superiori, e di interiorizzarle. Lo sappiamo assai bene: di per sé, una dottrina "civilizzatrice" come questa non impedisce ai colonizzatori di manifestare razzismo nei confronti dei colonizzati. Ma almeno questo razzismo può essere oggetto - all'interno della stessa nazione colonizzatrice e da parte degli intellettuali provenienti dai popoli da essa colonizzati - di una critica che ricordi qual è l'orizzonte "emancipatorio" che l'impresa coloniale ha proposto, e che si basi quindi sulle norme egualitarie e individualistiche della nazione. Ecco che allora la critica del razzismo coloniale - se non la denuncia dell'impresa coloniale stessa - diventa elemento centrale in quella riflessione che la nazione colonizzatrice può fare sul proprio ideale, e sulla sua capacità di onorarlo.

Razzismo e antisemitismo nella Francia contemporanea
A partire dallo schema appena delineato, ci sembra che la situazione attuale possa essere illuminata in modo nuovo. Per concludere, vorremmo avventurarci ora in questa illuminazione, concentrandoci, per farlo, sul caso francese. L'attuale razzismo nei confronti delle popolazioni immigrate di confessione musulmana in Europa (e in Francia in particolare), può essere visto come una combinazione dei due razzismi di cui abbiamo seguito l'evoluzione. In primo luogo, c'è un razzismo di classe, da parte di una parte degli strati sociali medio-alti, nei confronti delle componenti più povere e meno istruite di queste popolazioni. Ma c'è anche - e forse soprattutto - un razzismo egualitario, motivato dal nazionalismo, esercitato da parte di alcune componenti di tutte le classi sociali nei confronti di quella che loro vedono come una "Ostinazione" dei musulmani, anche quando, come individui, sono tuttavia diventati cittadini della nazione, sentendosi però solidali con un gruppo diverso dalla nazione. Nella forma di quel razzismo di classe che li prende di mira, gli immigrati - o le popolazioni immigrate dei paesi poveri (la maggior parte di quelle popolazioni che vengono chiamate "razzializzate") -  vengono confinati a causa della loro mancanza di padronanza dei codici di comportamento propri delle classi alte e medie; soprattutto nel momento in cui i loro membri riescono a salire socialmente. Si registra pertanto la tendenza a riconoscere alcune "incapacità" che sono legate alle loro origini. Ma va tuttavia notato come questa attribuzione non costituisca ancora razzismo, nel senso in cui definiamo il termine; il razzismo avviene solo quando tali disabilità sono state naturalizzate, cioè considerate inevitabili a causa di quella che a quel punto viene vista come un'irresistibile riproduzione della "cultura d'origine" trasmessa loro in famiglia o – sebbene oggi se ne parli assai meno spesso – per ereditarietà. Da questo punto di vista, è la questione educativa quella che occupa, politicamente, il posto centrale. Infatti, se l'educazione nazionale non riesce a impedire la riproduzione delle discrepanze tra le classi sociali, essa limita quanto meno quella che è la fede nel loro carattere naturale ed eterno. Così, la sua semplice esistenza – se non i risultati che a volte raggiunge – tende ad aumentare la riflessione collettiva su quale sia l'origine sociale delle incapacità attribuite ai membri delle classi subalterne. In tal modo, la posizione socio-economica inferiore che occupano diventa un po' meno facile da pensare come se essa fosse un giusto riflesso delle loro capacità oggettive inferiori. Pertanto, queste abilità inferiori - soprattutto dal momento che è stato dimostrato che l'istruzione può avere un'influenza su di esse - sono più difficili da naturalizzare. Ma, ovviamente, da sé solo, il razzismo di classe non è in grado di descrivere la situazione in cui versano oggi in Francia le popolazioni immigrate, o di origine immigrata. Infatti, quando sono di confessione musulmana e desiderano esserlo, facilmente vengono considerati come far parte di gruppi attivi "contro" la nazione. Ecco che così, la solidarietà che unisce i musulmani può allora venire allo stesso tempo, presupposta e naturalizzata.

Ciò è particolarmente vero agli occhi delle componenti più radicali dell'estrema destra, per cui questa solidarietà acquista una posizione non falsificabile, laddove nessuna prova della loro appartenenza alla nazione - e del loro sacrificio per essa - può assolvere i cittadini di confessione musulmana dalla loro appartenenza "primaria" al gruppo formato dai musulmani. Pertanto, le popolazioni musulmane diventano il bersaglio di un razzismo di tipo egualitario-nazionalista: vengono considerate un ostacolo "naturale" alla realizzazione della Nazione. Questo, tra l'altro, è ciò che per la sinistra rappresenta a sua volta un problema fondamentale: se il razzismo della società francese nei confronti dei musulmani si riducesse solo al razzismo di classe - se potesse ridursi così facilmente e completamente a questo - quanto sarebbero più semplici e comode le cose per i partiti di sinistra! E invece no: ecco che si ricade anche, e in alcuni casi soprattutto, in un razzismo egualitario-nazionalista, il quale non può fare altro che spingere la sinistra a riflettere sulle proprie aspirazioni a essere un movimento politico volto alla costruzione di nazioni dove per tutti predomina l'uguaglianza e l'autonomia individuale. Ecco che allora al pensiero di sinistra si presentano tre possibilità:
1) La prima consiste nel negare l'esistenza di una particolare solidarietà tra (alcuni) musulmani: ciò consisterebbe in un orientamento liberale, allineandosi ad una definizione astratta di individuo, che subordina la comprensione sociologica delle loro relazioni a quella giuridica dei loro diritti. L'interesse è di certo quello di evitare il rischio di manifestare un razzismo di tipo egualitario-nazionalista. Ma questa posizione porta anche, a livello di diagnosi, a interpretare ogni razzismo di questo tipo come espressione di razzismo di classe e, quindi, a nascondere le questioni legate alla costruzione della nazione a favore esclusivamente di quelle legate al dominio sociale. Pertanto, la sinistra, adottando inavvertitamente una visione liberale, finisce per rifiutarsi di pensare alla nazione e al suo potenziale di emancipazione. 2) La seconda consiste nel naturalizzare la solidarietà tra i musulmani, o almeno tra alcuni di essi, per criticarla in quanto pericolo per la nazione e per i suoi ideali egualitari e individualistici. Ciò rischia – se la solidarietà non solo viene osservata ma anche naturalizzata – di aderire al pensiero reazionario e di partecipare alla produzione collettiva di un razzismo egualitario-nazionalista. 3) La terza, infine, corrisponde alla posizione autenticamente socialista. Essa consiste (o consisterebbe) nell'accettare una distinzione tra forme di solidarietà comunitaria che non opprimono né l'autonomia né l'uguaglianza degli individui, e anzi ne favoriscono lo sviluppo, e altre che li opprimono e che, per questo e solo per questo, meritano di essere criticate dal punto di vista dell'ideale individualistico ed egualitario della nazione. Adottare questa posizione ci obbligherebbe quindi a non nascondere la questione della costruzione della nazione, ma a pensarla in modo più sociologico. Questo ci costringerebbe anche a pensare all'ideale della nazione in maniera più socialista, cioè non solo come un ideale "repubblicano", ma come un ideale di emancipazione collettiva. Abbiamo appena accennato al destino delle popolazioni musulmane. Ma – e concludiamo qui – che dire dell'antisemitismo nella sua configurazione attuale? Come è accaduto a partire dalla fine del XIX secolo, nei momenti peggiori dell'affare Dreyfus e del petainismo [*2], o come oggi in Francia, dove gli ebrei rimangono il bersaglio del razzismo egualitario-nazionalista di chi vede nella loro "Ostinazione" ad esistere come gruppo, un ostacolo alla pretesa che debbano essere "pienamente" francesi. Ma oggi, all'inizio del XXI secolo, non è questa la novità: la sensazione di tutti, è che piuttosto si tratti del fatto che, tra coloro che subiscono quotidianamente il razzismo di classe o - allorché praticano la fede musulmana - il razzismo egualitario-nazionalista, a volte quelli che si affermano con forza sono dei sentimenti antisemiti. A cosa attribuiamo questo? Lasciamo da parte i motivi psicologici, così spesso invocati per spiegarlo: essi non consentono mai una comprensione propriamente sociologica dei fenomeni. Chiediamoci invece, a partire dalla definizione di razzismo che abbiamo dato, quali sono gli standard più elevati - secondo gli antisemiti che si trovano in Francia nelle popolazioni immigrate o in quelle di origine immigrata di confessione musulmana - rispetto ai quali gli ebrei vengono considerati "incapaci" di raggiungere. Potremmo pensare, dapprima, che si tratti delle norme della religione musulmana. Ma questa sarebbe una falsa pista, perché gli antisemiti musulmani, in generale, non hanno alcuna ambizione di convertire gli ebrei all'Islam. Ragion per cui non provano delusione alcuna, e tanto meno impazienza, di fronte all'ostinazione che gli ebrei hanno nel non abbracciare la "vera" religione. Ecco perché, nonostante le apparenze, il razzismo, che viene praticato oggi nei confronti degli ebrei da alcuni musulmani in Francia, non è di natura religiosa. In questo senso, non può essere confuso con il razzismo egualitario dei cristiani nelle società dell'Ancien Régime.

Ammettiamolo: il razzismo praticato da alcuni musulmani francesi nei confronti degli ebrei, è una forma moderna di antisemitismo che si lega alla questione nazionale. In altre parole, gli standard più elevati - che alcuni musulmani ritengono non siano rispettati dagli ebrei - non sono altro che quelli dell'appartenenza alla nazione francese. Questo può sorprendere! Tanto è vero che, in Francia, per questi musulmani antisemiti, l'odio per gli ebrei va spesso di pari passo con l'odio per i "francesi". Tuttavia, non vediamo però che, in questo odio per i "francesi", a essere in gioco è il fatto che questi ultimi non rispettano le norme egualitarie associate al loro ideale nazionale. Insomma, ciò che viene loro rimproverato non è tanto di essere "francesi", quanto piuttosto di non essere abbastanza francesi. Quanto agli ebrei, i musulmani antisemiti di Francia li vedono, in modo assai classico, come se fossero naturalmente e sistematicamente solidali gli uni con gli altri e, inoltre, come incapaci di subordinare la loro solidarietà comunitaria alle norme dell'appartenenza nazionale. Da questo punto di vista, il loro antisemitismo non si differenzia in alcun modo da quello dell'estrema destra francese, tranne - e questa è la grande differenza - per la riluttanza a rivendicare l'ideale della nazione francese. Infatti, è questa la novità di questo antisemitismo franco-musulmano, insieme al problema specifico che esso solleva: non potendosi permettere di appartenere alla nazione, gli antisemiti musulmani di Francia agiscono come se il loro odio per gli ebrei avesse una base religiosa, quando in realtà non esprime altro che la loro delusione per la mancata realizzazione dell'ideale nazionale. A loro sembra che la società francese e lo Stato tollerino, negli ebrei di Francia, una solidarietà comunitaria che riesce a prevalere sulla loro appartenenza alla nazione, quando invece, secondo loro, questa stessa società e questo Stato non ammettono che tra i musulmani ci sia lo stesso genere di solidarietà. Il biasimo, pertanto, non viene solo riservato agli ebrei, ma anche alla società nazionale e allo Stato dei "francesi", che vengono sospettati di condiscendenza verso gli ebrei e di razzismo sistematico verso i musulmani. Ed ecco che in questo modo, si arriva alla situazione nella quale un razzismo egualitario non può più essere apertamente formulato, a partire da quelle norme nazionali che lo rendono possibile; dato che la nazione che ha prodotto quelle norme viene vista come esterna e ostile, e dato che le norme nazionali vengono rifiutate.

Per gli interessati, la via d'uscita da questa impasse consisterebbe nell'autorizzare finalmente, al posto della loro fede musulmana, la loro appartenenza alla nazione francese, e la loro adesione alle sue norme egualitarie e individualistiche, e non nel prestare un giuramento pubblico di fedeltà a queste norme, bensì nel chiedere, sulla base di esse, un trattamento diverso da parte della società e dello Stato verso le popolazioni immigrate, o a quelle di origine immigrata di confessione musulmana. Questo atteggiamento - è importante sottolinearlo - avrebbe due conseguenze immediate di grande importanza. La prima sarebbe che i musulmani in Francia, nel loro complesso, avrebbero molte meno probabilità di essere visti come un ostacolo al rispetto delle norme di appartenenza nazionale. La seconda sarebbe che contribuirebbero notevolmente a una tale realizzazione, costringendo la società e lo Stato a riflettere maggiormente sul razzismo che infliggono, e a verificare se la naturalizzazione delle incapacità che tale razzismo induce, sia compatibile con l'egualitarismo normativo e con l'individualismo professato dall'ideale nazionale. Questo orizzonte di integrazione politica - realizzato sfidando, in nome degli ideali della nazione, il razzismo che esso genera - è così lontano? È così fuori portata? Per certi versi sembra proprio di sì. Visto che l'eredità del periodo coloniale sembra rendere difficile, per i discendenti degli ex colonizzati, venire riconosciuti dai discendenti degli ex colonizzatori; e ancor di più, forse, riuscire a riconoscersi come pienamente e giustamente appartenenti alla nazione. Ma visto sotto altri aspetti, questo orizzonte sembra essere assai vicino. Forse sta addirittura per realizzarsi sotto i nostri occhi. Infatti, che alcuni discendenti degli ex colonizzati credano di potersi concedere un razzismo egualitario nei confronti degli ebrei di Francia rivela, sebbene contro la loro volontà, la loro adesione di fatto al progetto della nazione francese. E se è chiaro che questa adesione rimane per lo più inconsapevole, e anche se viene categoricamente negata, proprio per questo motivo si traduce in un atteggiamento la cui volontà reazionaria e la cui dimensione razzista sono indubbiamente e particolarmente preoccupanti. Tuttavia, ciò nondimeno  rende possibile che, da parte loro, o in loro assenza per le generazioni future, una corretta comprensione di se stessi in quanto partecipanti alla vita politica nazionale.

- Cyril Lemieux - Pubblicato il 6/3/2024 su História e Desamparo - 

[*1] Louis Dumont, "La malattia totalitaria. Individualismo e razzismo in Adolf Hitler" In "Saggi sull'individualismo", 1983. Adelphi, 1993.

[*2] Riferito al generale Philippe Pétain, capo di stato francese durante l'occupazione tedesca.

fonte: História e Desamparo

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