Hemingway, Orwell, Malraux, Koestler, Spender, Kol’cov, Saint Exupéry, Dos Passos, Klaus Mann, Max Aub, Federico García Lorca, Antonio Machado e tanti altri scrittori e artisti parteciparono, da combattenti, da inviati o da accorati testimoni, alla guerra di Spagna che dal 1936 al 1939 oppose la legittima repubblica popolare all’esercito golpista di Franco e ai suoi alleati nazifascisti, e ne scrissero in romanzi, liriche, memoriali. C’erano anche donne straordinarie come Simone Weil, Maria Zambrano, Mercè Rodoreda e meno note come Mika Etchebéhère o Constancia de la Mora, a vivere e scrivere di quegli eventi. Altri, contemporanei o delle generazioni successive, da Bernanos a Sartre e a Camus, da Vittorini a Sciascia, da Picasso a Buñuel, impararono da quel conflitto una lezione civile che influenzò la loro vita e le loro scelte, e anche per questo evocarono fasti e nefasti di quel triennio, mentre una nutrita schiera di autori spagnoli oggi fa finalmente i conti con quei traumi a lungo rimossi. Dal popolato e combattivo mondo dei no pasarán della letteratura e delle arti questo libro ricava profili, idee, scritture e visioni da animare come in un teatro della memoria.
(dal risvolto di copertina di: Antonio Di Grado, "La brigata delle ombre. Scrittori e artisti nella guerra di Spagna". La nave di Teseo, pagg. 303, € 22)
Così il racconto dei vinti diventò leggenda
- di Giuseppe Lupo -
Possono essere davvero tanti i motivi per cui un avvenimento del passato assume un’aria epica e uno di essi - il più influente di tutti forse - riguarda non tanto il peso di chi l’ha raccontato quanto, assai più caparbiamente, la capacità di catalizzare sguardi e parole, di far riverberare passioni e sentimenti, di porsi a mo’ di specchio in cui rifrangere i caratteri dell’umano, dai più esaltanti ai più abietti, in un determinato momento della Storia. Prendiamo l’esempio della guerra civile spagnola, vero e proprio crocevia del Novecento, esperienza sanguinosa, consumatasi sul finire degli anni 30 e additata da tutti come prova generale della tragedia che si sarebbe celebrata da lì a pochissimi anni, nel cuore dell’Europa. Non si fece leggenda perché si contrapponevano le fazioni di chi si dichiarava a favore o contro la dittatura franchista. Lo diventò in virtù del fatto che in essa il grande secolo della modernità edificava il mito dell’engagement: militanza contro disimpegno, passaggio dell’intellettuale da chierico a soldato. Lo diventò anche perché rappresenta uno dei rarissimi episodi consegnato alla posterità dal racconto dei vinti e non, come di consueto, da quello dei vincitori.
Furono gli sconfitti, insomma, ad attribuire a un punto geografico relativamente contenuto il valore di un destino generale e non si trattava certo di voci minori se osserviamo il panorama di nomi e titoli che Antonio Di Grado chiama a raccolta in questa sua ricostruzione calibrata ma passionale, un saggio che si legge come un romanzo, frutto di una sofisticata masticazione di materiali entrati nell’immaginario di un’epoca: libri, dipinti, pellicole cinematografiche, suggestioni sceniche non necessariamente ascrivibili nel novero delle semplici documentazioni, ma figlie di ardite commistioni creative. I personaggi che tornano più spesso sono Malraux, SaintExupery, Bernanos, Camus, Weil, Hemingway, Orwell, solo per rimanere nell’orizzonte degli scrittori, quasi fossimo al cospetto di una sconfinata fiesta mobile che aveva scelto le campagne o alcuni edifici di Madrid come cuore pulsante di quella rovinosa avventura. «L’hotel Florida dove alloggio è, come il Gran Via, una specie di torre di Babele», racconta Pietro Nenni, non propriamente un letterato, ma un testimone assai curioso degli incontri tra Hemingway e Martha Gellhorn, tra Robert Capa e Gerda Taro, tra Arturo Barea e Ilse Kulcsar. «Siamo come degli archi tesi da un arciere invisibile eppur presente: la rivoluzione». Si ha la sensazione (ma è ben più di una sensazione) che metà della sorte fosse affidata al piombo delle pallottole e l’altra metà all’inchiostro delle parole, sicché risulta convincente la chiave di lettura proposta da questo saggio, secondo cui l’intera letteratura sorta intorno alla guerra componga una specie di “conversazione in Spagna”, elaborata né più né meno sul modello vittoriniano di Conversazione in Sicilia, il romanzo che non a caso prendeva le mosse delle notizie diffuse per radio sugli eccidi avvenuti per mano delle falangi franchiste.
«Belli e dannati, come nella mitografia di un Francis Scott Fitzgerald» annota Di Grado fissando il ritratto di chi vi partecipò. «Degni comprimari di un’avventura collettiva dove amore e morte, miraggio e disdetta, impegno civile e voglia di perdersi recitarono per l’ennesima volta quel polveroso ma sempre avvincente copione che suggella ogni anelito di libertà e di riscatto con un finale di doloroso scacco e di commovente sacrificio». La Spagna insanguinata, che elesse a simboli sia l’icona emaciata e triste di García Lorca, sia le figure deformi del quadro di Guernica, convocò la migliore intelligenza d’Europa – romanzieri, cineasti, pittori, filosofi, politici – e consegnò loro un mandato speciale: capire se veramente le istituzioni democratiche avessero la forza di reggere l’urto irrazionale dei totalitarismi, verificare fino a che punto il processo di evoluzione democratica, che rientrava tra le prerogative illuministiche del secolo, confermasse l’acquisizione di una definitiva maturità. Da come si svolsero i fatti, la risposta è scontata, eppure non tutto andò perduto nel labirinto spagnolo, a cominciare da un dato inequivocabile: mentre si contendevano la vittoria due contrapposti modelli di società, le cui pulsioni riflettevano i caratteri razionali e irrazionali del loro tempo, nelle strade di città o per i tratturi di campagna combatterono anche le donne, quella fu la loro prima guerra che le vide tra le protagoniste.
Il fuoco del dramma annientò quasi tutte le energie creative, una generazione uscì consumata da quell’esperienza, ma la brace che rimase a covare sotto la cenere significò una chiamata alle armi per il partito degli intellettuali in nome di quel mas hombre, più uomo, che da Hemingway rimbombò fino al Vittorini di «Politecnico». L’invito sarebbe stato utile per il tempo di dopo, quello degli olocausti, ma non è detto che non sia valido tuttora.
- Giuseppe Lupo - Pubblicato su Domenica del 15/10/2023 -
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