Come ha scritto l'Agamben "beniaminiano" nella sua "Signatura rerum" (Bollati Boringhieri): la teoria può essere legittimamente esposta solo sotto forma di interpretazione.
La morte di Benjamin, avvenuta in un oscuro valico di frontiera, dimostra - come scrive Beatriz Sarlo rovesciando la sua famosa "Tesi sulla Filosofia della Storia" - in che modo ogni atto di barbarie possa anche essere un atto di cultura. Prima dell'episodio finale, relativo alla chiusura temporanea della frontiera tra Spagna e Francia, che lo ha portato al suicidio, ce ne fu un altro, in cui la sua biblioteca venne perquisita, e parte dei suoi manoscritti vennero confiscati. «Come avrebbe potuto continuare a vivere senza di essi?» - si chiese allora Hannah Arendt. Proprio Benjamin, che dell'arte di citare aveva fatto una delle più alte forme di scrittura (la passione della citazione abitava tutto ciò che scriveva) e per il quale la biblioteca, oltre al fatto che gli serviva come una valigetta degli attrezzi, era non solo uno spazio fisico e intellettuale, ma anche un luogo di vagabondaggio e di ozio [si veda "Tolgo la mia biblioteca dalle casse"; 1931]. Gli è che la biblioteca (e lo sanno bene il i perseguitati di tutti i regime) è la prima cosa che si perde. Tuttavia, bisogna resistere alla tentazione di credere che tutto avrebbe potuto finire in maniera diversa. Nelle fatali coincidenze, si trovano come le tracce di un destino che egli non ha mai evitato: Benjamin non ha mai saputo gestire né la sua vita né il suo lavoro. Il suo interesse principale era riservato soprattutto alla riproduzione estetica e, fondamentalmente alla città. Ossia, l'oggetto inafferrabile della sua opera incompiuta; “Il Libro dei Passaggi", nel quale un complesso manufatto urbano viene esaminato nelle sue dimensioni materiali e simboliche. Non una città, quanto piuttosto la spazializzazione del capitalismo e dell'arte moderna. Nel suo resistere a normalizzare la propria scrittura - adattandola alle regole della cultura accademica, o del mercato editoriale - è racchiusa la chiave formale di lettura di tutta la sua opera. Se guardati da un punto di vista professionale, i comportamenti di Benjamin appaiono goffi, e tutte le difficoltà che incontrava a pubblicare i suoi scritti vengono in qualche modo anticipate da delle strategie che sembrano allontanare proprio i fini che invece pretendeva di perseguire. Quel che Benjamin ha effettivamente detto, è assai meno importante di quello che Benjamin sta dicendo oggi; sostiene Beatriz Sarlo. E questa lettura lo colloca in una prospettiva del presente, e trova in lui tutta una serie di stimoli a pensare, che non sono solo i temi a cui pensava Benjamin, ma sono tutti i temi e le questioni di oggi. A partire da Benjamin, si definisce un campo di pensiero nel quale tutti i suoi temi si intersecano con le ossessioni dei suoi lettori. E in questo modo, Benjamin viene riattualizzato e, al limite, come funzionalizzato. L'attualità di Walter Benjamin, in quanto pensatore della crisi, unifica le letture "di parte" della sua opera. E tale lettura colloca Benjamin in una topografia contemporanea. Tuttavia, va ricordato come questo pensiero della crisi sia anche un pensiero di diffidenza per quel che riguarda l'eccesso di coincidenze. Benjamin basa la possibilità della traduzione, proprio a partire dal riconoscimento del fatto che la traduzione «intrattiene una relazione sproporzionata, violenta e strana nei confronti del proprio contenuto». La traduzione permette che si possa sfuggire a quella incomprensione che Babele ha installato nelle società umane, e nelle loro lingue, però questa via d'uscita non è stata aperta sulla strada dell'uguaglianza, ma su quella dalla differenza. Ed è in questo senso, che l'atteggiamento più risoluto, fermo e deciso di Benjamin, consisteva nel diffidare delle sue stesse proprie certezze, una diffidenza e una mancanza di fiducia ancora più necessaria di quanto lo fosse la critica delle altrui certezze.
Dei libri che più ci interessano, raramente andiamo a cercare, per leggerle, le bozze, e quasi mai ne esaminiamo le fonti. L'esistenza di un libro finito annulla - tranne che per gli specialisti - tutte le tappe attraverso cui è passato. Anche qualora vengono alla luce dei nuovi frammenti relativi a un'opera che è già stata canonizzata dalla lettura, ecco che questi frammenti diventano difficili da inserire nel proprio preconcetto; e questo anche nel caso che si sapesse che l'opera era rimasta incompiuta. Oggi, invece, con Benjamin non abbiamo un libro definitivo, quanto piuttosto una massa di materiale ancora più vivo, per mezzo del quale possiamo spiare Benjamin, contraddicendo la vocazione alla segretezza e all'occultamento di cui parlavano i suoi amici. La sua opera è come un enigma che, non essendo stato risolto nel libro, lascia aperte molte di quelle strade che un libro finito avrebbe chiuso per sempre. Così, invece abbiamo "L'officina di Walter Benjamin", qualcosa che è come se si riferisse all'archeologia. Ma è un'archeologia a rovescio: anziché ricostruire una totalità perduta di quei resti, ci troviamo a lavorare sulle rovine di un edificio mai costruito. Le citazioni, trasportate da un luogo all'altro e strappate dalla loro origine testuale, riproducono un movimento. Con le citazioni - sostiene Sarlo - Benjamin intrattiene un rapporto originale, poetico o, per meglio dire, che corrisponde a un metodo di composizione, che oggi descriveremmo facendo ricorso alla nozione di intertestualità, incorporandole nel suo sistema di scrittura, tagliandole e ripetendole, guardandole da più parti, copiandole più volte, parafrasandole e commentandole, adattandosi ad esse, seguendole come si segue la verità di un testo letterario; le dimentica e le ricopia. Ne trae un significato, esigendolo. Benjamin mette insieme le citazioni, e le modella come se fossero suoi scritti personali, disponendole sulla pagina seguendo il senso di un composizione. A volte le ripete, le citazioni, facendole precedere da un suo breve commento; invece a volte le incorpora in un testo più lungo all'interno del quale hanno già acquisito l'aria della prosa benjaminiana, dal momento che le ha trasformate fino a ché non sembra che le abbia scritte, e non copiate. Lo stesso fa con i propri testi, trattandoli come fossero citazioni, spostando interi paragrafi da un'opera precedente all'altra, ricomponendo frasi e cambiando un aggettivo. Una volta faticosamente copiati, i paragrafi altrui e la ripetizione dei propri, riempivano quaderni e taccuini e restano in attesa di un posto nel quale finiranno per apparire come se fossero stati indispensabili. Beatriz Sarlo afferma che Benjamin sia stato un affascinante conversatore. Come scrittore, questa qualità dialogica lo spingeva verso la citazione, come una sorta di amicizia con la scrittura degli altri, la quale è allo stesso tempo un riconoscimento, una competizione e un combattimento. La citazione non è soltanto la presentazione di una prova di ciò che deve essere dimostrato (come avviene nella scrittura convenzionale), ma rappresenta una strategia di conoscenza. La citazione, da parte sua, condivide con l'aforisma la brevità e l'isolamento rispetto a un testo corrente. In realtà, ogni citazione scelta in maniera significativa funziona come se fosse un aforisma.
Sostiene Benjamin, che il collezionista spoglia la merce del suo valore d'uso, sottraendole la sua funzione pratica, sospende la sua circolazione, e la incorpora in uno spazio ordinato e artificiale, spinto da un impossibile e mai rassegnato desiderio di totalità. Un intento utopico, dal momento che, per definizione e per sua stessa logica, non può esistere una collezione completa. La verità, pertanto, vive nei dettagli, senza mai però stabilizzarsi in essi, e così passa da uno all'altro e, soprattutto, emerge nel contrasto. Benjamin conosceva questa passione per il dettaglio, e la praticava con l'acutezza di quello che Adorno definiva "sguardo microscopico", ovvero lo sguardo di Medusa, il modo in cui Benjamin chiamava lo sguardo dei Surrealisti. Nelle collezioni, aveva scoperto lo spirito di un'epoca che tuttavia non può essere colto nei suoi grandi movimenti, ma piuttosto nell'apparente insignificanza dei dettagli. Secondo Sarlo, egli illumina l'insolito e il particolare, e lo fa con la certezza che - astratto, ritagliato e ancorato a partire da un tale sguardo - possa così essere posseduto. Lo sguardo della Medusa cattura il fuggiasco, e lo fissa allo stesso modo in cui uno spillo fissa la farfalla alla collezione. D'altra parte, nei suoi viaggi che inventa nelle città (Berlino, Mosca, Parigi), Benjamin ottiene una sorta di illuminazione profana, come un modo laico e materiale di rivelare la verità a sé stesso. L'arte (Benjamin lo ha notato più volte a proposito dei Surrealisti) ha un'intensa capacità di produrre questi incontri inaspettati tra i diversi sensi. Né relativista né scettico, Benjamin lavorava con determinazione all'impresa di conoscere il significato dell'arte in relazione a quello che era il suo contenuto di verità. E come nel, e con il, ricordo, questo contenuto di verità rimane nascosto nelle pieghe e nei dettagli di una materialità che Benjamin sa essere infinita, ma che può manifestarsi e solo così arrivare a essere conosciuta in una piegatura della storia. Benjamin è senza dubbio sovversivo a causa della corrosione a cui sottopone i suoi materiali artistici. Ma lo è ancora di più a causa di questa idea che non scompare mai dalla sua impresa teorica e critica; quella dell'esistenza, segreta e sfuggente, di un contenuto di verità che produce conoscenza, e che tende ad assumere una dimensione pratica. L'arte, in quanto luogo privilegiato di questa conoscenza, reca in sé i segni del passato, i segni dello sfruttamento e del dolore, e allo stesso tempo annuncia anche il futuro. Ma non c'è sintesi, bensì conflitto, e così la forma della sua verità è la contraddizione.
Benjamin non ha mai esposto la sua estetica in modo sistematico; le sue osservazioni si possono trovare tipicamente sparse nei suoi testi. E tuttavia, le sue idee estetiche sono singolarmente tutte concentrate sul tema della produzione poetica di un contenuto di verità che sprigiona energie rivoluzionarie. Come racconta Beatriz Sarlo, nel suo famoso saggio: "Surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei", del 1929 - dove compare la formula delle "illuminazioni profane", che (in opposizione alle illuminazioni della religione) mostrano, nel lavoro poetico dell'immagine, l'unione di elementi apparentemente lontani tra di loro il cui incontro produce una rivelazione e un impulso alla riconversione del tempo storico. L'illuminazione profana, coglie l'esistenza di qualcosa di inedito, come la potenzialità di conoscenza dell'estetica. La condensazione formale e semantica dell'immagine, produce una conoscenza che è sociale, ma che lo è solo attraverso l'arte. E questa conoscenza mette in moto un impulso rivoluzionario di redenzione, dal passato verso il presente. La dimensione filosofica della critica letteraria di Benjamin poggia su una rete di tesi che appartengono a due filoni; uno materialista, l'altro messianico. Come scrive Sarlo, nessuno di questi due filoni prevale completamente. Benjamin ha sempre mantenuto la tensione tra una prospettiva materialista e una dimensione utopica, morale, che deve cogliere nel passato la traccia dello sfruttamento (o della barbarie, per dirla con le sue parole) per riscattarla. L'articolazione di queste due prospettive rende densa, convulsa e spesso enigmatica, l'ininterrotta vocazione interpretativa di Benjamin. Dal suo rapporto con il surrealismo, egli ha mantenuto il voler leggere il passato come se fosse un sogno, dove il vecchio resiste in quanto rovina e il nuovo emerge come frammento. Pensare il passato nel modo in cui emerge, spesso violentemente, nel presente. Scoprire di quale preistoria è costituito il presente, che nell'arcaico mostra le lacerazioni e i debiti con il passato. Tutto ciò, non è estraneo alla sua teoria della memoria, dove l'oblio è più vasto e più strutturale del ricordo, e dove il ricordo è solo un'avventura. Il presente (il capitalismo) ha sempre un carattere enigmatico e critico. Non è la storia l'unico enigma, ma la sua configurazione attuale che si manifesta disarticolata come un incubo. La sua forma di conoscenza è l'immagine dialettica. Benjamin lavorava tra questi due estremi: quello della manifestazione della storia come paesaggio in rovina e quello della sua conoscenza attraverso una scrittura capace di costruire un'immagine in tensione. Adorno e Benjamin discutevano su come costruire una mediazione dialettica tra i fatti materiali e i discorsi. Adorno riteneva che Benjamin non fosse dialettico, ma che costruisse le sue illuminazioni critiche collegando estremi de quali non esplorava sufficientemente l'articolazione. In "Poesia e capitalismo", la scelta degli oggetti che compie Benjamin rivela una radicale originalità. Nessuno fino ad allora aveva pensato alla cultura vedendola come profondamente immersa nel suo ambiente materiale e urbano. Questi saggi scoprono degli indizi inediti, come quello relativo alla comprensione della dimensione culturale delle trasformazioni materiali e urbane, o la scoperta (non esiste parola più precisa) che la città e La poesia moderna sono implicite come produzioni simboliche e presupposte come esperienza. La cosa si condensava praticamente in una figura, quella del flâneur, il passeggiatore urbano, consumatore, nevrastenico e un po' dandy, che per Benjamin sintetizzava l'idea di anonimato nella città moderna e nel mercato; tutti spazi questi, in cui si impongono nuove condizioni di esperienza. Con Simmel, Benjamin condivideva la sensibilità moderna per lo shock prodotto nella metropoli. Con Simmel percepiva anche quel movimento di fuga in cui tutto diventa transitorio. Bisogna ricordare che le somiglianze lo preoccupavano sempre, tanto in letteratura quanto nella teoria del linguaggio. Per Benjamin, la somiglianza non è identità, perché se lo fosse perderebbe il carattere inquietante della somiglianza e si stabilizzerebbe nel momento riconciliato dell'uguale. Trovare somiglianze significa costruire un'immagine critica (in quelli che sono i due sensi della parola "critica"). C'è anche un testo citato ad nauseam, "L'autore come produttore", in cui Benjamin stabilisce un'ipotesi moderna e modernista relativa al rapporto esistente tra letteratura e società, secondo cui la tecnica letteraria, in quanto concetto che va oltre l'idea di forma e oltre la tendenza ideologica dei testi, rende possibile un'analisi materialista della letteratura.
Ciò che chiamiamo l'Accademia (quest'apparato che assegna legittimità e prestigio al sapere, e ci dice anche che cos'è) è parificante poiché, per appartenervi, quasi tutti fanno le stesse cose, e seguono le medesime tendenze di un mercato simbolico specializzato. Oggi è diventato evidente - sottolinea Beatriz Sarlo - che il sapere universitario è stato standardizzato secondo le regole dell'accademia. Questo ha diverse conseguenze, come l'espansione diffusa ma ampia di alcune ondate teoriche. Un esempio è la diffusione esplosiva dell'etichetta "studi culturali". Un altro è l'ostinazione con cui, dalla critica letteraria così come dalla semiotica e dall'analisi culturale, viene evocata la città come soggetto. La moda di Benjamin - che ha preso piede negli anni Ottanta - fa parte di questo fenomeno. Si tratta di un mormorio nel quale la parola viene usata come sinonimo inaspettato di praticamente qualsiasi movimento si svolga negli spazi pubblici. Si parla di flânerie in città anche dove, per definizione, l'esistenza del flâneur sarebbe impossibile. Il semplice passeggiatore serale è diventato un personaggio di un romanzo filosofico urbano, tratteggiato a partire dalla teoria della modernità di Benjamin nel XIX secolo, o con le rovine del capitalismo catturate nella vetrina delle sue merci. La cosa non è nuova, visto che questa trasmutazione è avvenuta con Foucault (improvvisamente ci si è trovati ad affermare che il sapere produce potere o viceversa). La lettura di Benjamin ha prodotto una sorta di erosione teorica che corrode l'originalità benjaminiana, facendolo fino ai limiti della completa banalizzazione, citandolo come se citarlo garantisse la produzione di un nuovo significato sui diversi palcoscenici. Diviene pertanto necessario, allora, richiamare alcune questioni già note. Benjamin, sottolinea Sarlo, non ha studiato le città perché erano un argomento alla moda. Cercava un significato e, naturalmente, ha trovato le città come palcoscenico. E così Parigi incontra Benjamin perché essa è uno scenario culturale indispensabile per riuscire a comprendere qualcosa che non è Parigi, o almeno non è solo Parigi. Più che altro, si tratterebbe di seguire l'itinerario attraverso il quale Benjamin arriva in città, partendo innanzitutto da quell surrealismo da cui poi cerca di separarsi. Tuttavia, appare oltremodo chiaro che egli sia arrivato a Parigi in quanto la città è una delle chiavi culturali per comprendere il movimento dell'arte e il movimento delle merci. Sono i temi legati a «lavoro in corso» a indicare ciò che Benjamin stava cercando: le immagini del sogno che la città materializza, l'illusione della novità riguardo la merce e la moda, tutte cose che mostrano la preistoria del XX secolo nelle forme merceologiche del XIX secolo. Nella città, riconosceva oggetti costruiti, disposizioni e utilizzi dello spazio, tipi, sistemi di movimento e di comunicazione, icone tecnologiche che circondavano l'impulso teorico e critico della sua impresa. Come avviene nel momento in cui Benjamin propone Parigi vedendola come costruzione dell'immaginaria storica critica. Ma c'è anche una svista, in Benjamin: riguardo Parigi, lascia incompiuto un lavoro nel quale seguiva «il problema della metropoli focalizzata in termini di esperienza»; e la perdita di ogni esperienza nella metropoli. Benjamin lavorò a materializzare le immagini provenienti dalla letteratura, che lo avevano portato a costruire Parigi sotto forma di un problema. «La predilezione di Haussmann per la prospettiva costituisce il tentativo di imporre forme artistiche alla tecnica (in questo caso l'urbanistica). Questo tentativo porta sempre al kitsch». Queste frasi mostrano chiaramente il modo di procedere di Benjamin: l'idea che lo spinge a occuparsi delle forme simboliche e materiali della circolazione delle merci nella vita sociale. Propone il rapporto tra il divenire tecnico e la forma estetica, il rapporto tra arte e società. La teoria della conoscenza e la teoria del progresso, coincidono con il sogno e con la città sognata, dando forma al modo in cui Benjamin legge la città servendosi di frammenti e di citazioni. Nel frammentarismo di Benjamin, nel suo recupero estetico ed epistemologico del collage e della citazione, non c'è semplicemente una rottura con la totalità, quanto piuttosto una crisi della totalità che, simultaneamente, rimane l'orizzonte delle creazioni storiche e critiche. In Benjamin, c'è nostalgia della totalità, nello stesso momento in cui la consapevolezza di essa viene erosa nella dimensione estetica e nel mondo dell'esperienza. Benjamin è uno scrittore della crisi, ma non il suo apologeta.
Beatriz Sarlo conclude affermando che - per gli appassionati della città moderna - l'utilizzo di Benjamin, visto come teorico degli studi culturali e come teorico di un catechismo per dilettanti, ha raggiunto i suoi limiti. Egli non ha mai avuto piena fiducia filosofica nelle nozioni che proponeva. Ma piuttosto si trattava solo di scoperte rappresentate nella forma dell'immagine, della costruzione narrativa o poetica della storia. Per quanto fossero, d'altra parte, nozioni fortemente storiche. La complessità di Benjamin (quel tratto d'avanguardia, il quale fa sì che non lo si trovi mai laddove lo si cerca, quel flusso di significati e contraddizioni che i suoi testi costituiscono) rende ancora più ammirevole l'operazione di canonizzazione semplificatrice cui è stato sottoposto in ambito accademico; soprattutto da quelle letture che oggi chiamiamo studi culturali, le quali ora tendono a diventare un capitolo della critica letteraria che li utilizza per chiudere (malamente) la discussione teorica sulla letteratura e sulla dimensione simbolica, o materiale delle società. Ed è in una simile Repubblica che la città diventa, per l'appunto, Capitale. La riproduzione tecnica, in sede accademica, pone la città come se si trattasse di una sorta di imperativo dell'analisi, come un'unità indispensabile. Quanto meno, non viene studiata allo stesso modo in cui Benjamin studiava la Parigi del XIX secolo. Pertanto, ciò che viene proposto dalla moda dei temi urbani, fondamentalmente, è un lessico. Queste fiches vengono giocate sul tavolo di qualsiasi città, dove (come avviene nelle merci del capitalismo, la cui fantasmagoria Benjamin interrogava) ci sono sempre delle persone che si spostano da un luogo all'altro, c'è sempre una storia che si perde, e una memoria che si cerca di costruire, ci sono sempre soggetti scissi che finiscono per non riconoscersi in nessun luogo, e questi soggetti riescono sempre a utilizzare lo spazio per costruire un senso.
L'uso dello spazio costruisce sempre dei significati, c'è sempre qualcosa che va come alla deriva, c'è sempre qualcosa che, attraverso dei nuovi utilizzi, diventa privato, e qualcosa che passa a esser parte del pubblico. Un andirivieni di linguaggi sulla città. La banale banalizzazione di Benjamin insegna ben poco, è solo quasi un glossario. Allora, perché non dimenticare Benjamin senza ulteriori indugi? Forse perché i conflitti teorici continuano a essere ancora la parte più interessante di un'impresa critica che colloca le cose laddove esse possono essere produttive. Per questo Benjamin ha scritto: «Marx espone il nesso causale tra economia e cultura. Non si tratta di esporre l'origine economica della cultura, quanto piuttosto dell'espressione dell'economia nella cultura. Detto in altri termini, si tratta di cogliere un processo economico in quanto proto-fenomeno ben visibile».
fonte: Materia Costruida
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