Poetici, enigmatici, oracolari, i pensatori più antichi sono dominati da una drammatica complessità che da sempre mette in crisi i lettori. Eppure è alla portata eterna dei loro versi vertiginosi e sconcertanti che si affida Matteo Nucci per ricordarci quale sfida dobbiamo accettare per non dimenticare la nostra vera natura. Furono, infatti, questi sapienti – Eraclito, Parmenide, Empedocle – a dare la risposta piú esatta e oscura. Ed è proprio con la loro oscurità che dobbiamo confrontarci, se vogliamo vivere fino in fondo il potere e la debolezza di ciò che ci allontana dal regno animale, il logos, per fare esperienza della nostra umanità, e soprattutto della nostra animalità. Rileggendo miti in cui umano e animale s’intrecciano in creature fantastiche – dal Minotauro alla Sfinge -, attraversando i secoli per trovarci di fronte a scrittori come Dürrenmatt e Hemingway, o poeti come Kavafis e García Lorca, scopriamo quanto potenti e irresistibili siano certe riflessioni antiche, quanto storie famosissime come quelle di Edipo e di Arianna possano farci guardare con altri occhi a temi che di solito giudichiamo con il pregiudizio della superficialità. Corredato dalle illustrazioni di Giovanni Battista Porzio, Il grido di Pan ci mette di fronte alla verità decisiva: «Cosa siamo noi se non animali mortali? Esseri che nascono e muoiono, immersi in un ciclo continuo di nascite e morti, noi come quegli animali che invece il nostro logos non lo condividono. Ecco ciò che siamo e che dimentichiamo».
(dal risvolto di copertina di: Matteo Nucci, "Il grido di Pan". Einaudi, pagg. 180, € 14,50)
Rintracciare la nostra natura di animali mortali
- di Piero Boitani -
Il nuovo libro di Matteo Nucci è ricco, densissimo, molto bello: e lievemente esasperante, perché quasi a ogni pagina l’autore riapre l’argomentazione con un contropiede, un “sed contra”, come avrebbero detto gli Scolastici, insomma con il contrario di quanto detto sino a quel punto. Naturalmente, questo continuo stop-and-go serve anche a tener desta l’attenzione, a stimolare la fascinazione, a irretire il lettore. E di fascino ce n’è tanto, perché Il grido di Pan vuole rintracciare niente di meno che il «pensiero delle origini» alla ricerca della nostra animalità. Sin dall’inizio l’uomo è per Nucci «animale mortale»: definizione quasi tautologica, che ispirò a Bertolt Brecht uno dei suoi distici più belli: «ihr sterbt mit allen Tieren / und es kommnt nichts nachher»; morite come tutti gli altri animali, e dopo non viene nulla. La definizione filosofica classica, proveniente da Aristotele, e poi canonizzata dal Medioevo, è invece «l’uomo è un animale razionale», con la variante di Boezio: «l’uomo è un bipede implume e razionale», che mescola Platone e Aristotele. Ma la frase di Aristotele è assai più ambigua nell’originale, perché dichiara l’uomo animale logon echon, che ha il logos. Il problema però è che non è proprio facile capire cosa sia il logos, parola che usano sia Eraclito che l’evangelista Giovanni, evidentemente in due accezioni diverse. E infatti Nucci intitola la prima sezione del suo libro «Il labirinto del logos». Labirinto: cioè per definizione il luogo dove ci si perde e dal quale non si riesce a uscire.
Il Labirinto per eccellenza fu costruito dall’ateniese Dedalo a Creta per tenervi rinchiuso il Minotauro, l’animale-uomo frutto dell’unione tra Pasifae moglie di Minosse e un toro. Pasifae, dentro una vacca di bronzo costruita sempre da Dedalo, si unì all’animale e partorì il Minotauro. Al principio dell’amore di sapienza – della filo-sofia– sta la meraviglia, come tutti i pensatori, da Platone e Aristotele fino a Heidegger, hanno sostenuto. Ma all’inizio il logos, la sapienza, è soprattutto una sfida, sostiene Nucci: la sfida di un altro essere «dotato di caratteri umani femminili e di artigli rapaci»: la Sfinge. Quella che, alle porte di Tebe, poneva il famoso interrogativo sulla creatura «che ha due piedi, e quattro e tre, e possiede una sola voce». Chi non indovinava la risposta moriva. Finché un giorno non si presentò davanti ad essa Edipo, che dette senza esitare la soluzione: quella creatura è l’uomo, che da bambino avanza su mani e piedi, da adulto su due gambe, da vecchio su tre, cioè con un bastone. La Sfinge, battuta, precipitò nell’orrido abisso sul cui orlo si trovava. Edipo, come Dedalo, certamente possedeva il logos, anche se non gli portò fortuna.
Dedalo, più creativo, fornì anche ad Arianna il filo che permise a Teseo, dopo aver ucciso il Minotauro, di uscire dal Labirinto di Creta. Dedalo aveva costruito l’enigma, e lo risolse distruggendolo. Ma Teseo abbandonò Arianna sull’isola di Nasso, dove fu soccorsa da Dioniso, che incarna una sapienza ben diversa. Di esseri umani e animaleschi a un tempo è piena l’antichità, e pieno il libro di Nucci. Sileni, satiri – come quello, sconvolgente e sublime nella sua danza, di Mazara del Vallo – e appunto Pan, l’uomo-capro: colui che insegue e ingravida le ninfe che genereranno satiri e sileni; che ispira i canti da cui nasce la tragedia; che, figlio di Ermes, sarà oggetto dell’amore folle di Dioniso; il dio che grida seminando il terror panico. All’estremo opposto, i cavalli di Achille, Balio e Xanto: immortali, parlanti, piangenti, e dotati di logos. In mezzo, Socrate, il «sileno ironico».
In questo modo, ho però sfiorato appena profondità e ampiezza del libro di Nucci. Perché se la prima sezione è introdotta dalla meraviglia, la seconda, intitolata «Morire prima di morire», reca una intestazione all’aporia, che sempre accompagna lo stupirsi. Se la prima parte si apre con il Minotauro, la seconda si schiude sul magnifico Minotauro di Dürrenmatt. La tattica impiegata da Nucci è ispirata a prenderci in contropiede. E di questa tattica fanno parte i pezzi di bravura dedicati a racconti moderni, come Zorba il greco di Kazantzakis e Il vecchio e il mare di Hemingway, uno dei libri più belli del Novecento per il quale nutro una vera passione: la storia del vecchio pescatore Santiago che dopo 84 giorni di sfortuna finalmente pesca un marlin enorme, che lo trascina per miglia nell’oceano prima di morire e finire, issato sul fianco della barca, completamente divorato dagli squali. Santiago, solo sul mare, parla continuamente al suo pesce e, rientrato nella sua capanna dopo tre giorni, sogna i leoni (ecco l’uomo, in veste di eroe, legato all’animale).
Ma i protagonisti del Grido di Pan sono, con Empedocle, Eraclito e Parmenide. Opposti l’uno all’altro da Platone quali esponenti del divenire l’uno, e dell’essere l’altro, figurano insieme agli altri cosiddetti Presocratici nella sistemazione aristotelica del pensiero arcaico all’inizio della Metafisica. Nucci dedica a questa triade più di cento pagine davvero memorabili, esplorando a fondo i “poemi” di Empedocle e Parmenide e i frammenti di Eraclito. Li rende vivi, scavando nelle parole e nella musica di questi sapienti all’origine del nostro pensare. Impossibile riassumere questi capitoli, che vanno letti pagina per pagina insieme ai brani dei “filosofi” – e al paragrafo sul kouros, l’uomo dal sorriso enigmatico, i pugni chiusi, che irrompe nello spazio: colui che «possiede in sé la fanciullezza che annichilisce il disincanto» e «si sta aprendo all’ignoto». Poi arriva la morte di Pan narrata da Plutarco nel Tramonto degli oracoli: una misteriosa voce dalla terraferma l’annuncia a Tamo, il pilota egizio di una nave che fa vela verso l’Italia. Da Prudenzio a Milton fino a Conrad “significa” la fine della civiltà antica sulla soglia dell’era cristiana.
- Piero Boitani - Pubblicato su Domenica del 15/10/2023 -
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