Introduzione
- di Robert Kurz -
Se scorriamo la letteratura marxista e antimarxista del XIX e del XX secolo, troviamo in ogni dove, con stancante regolarità, la stessa semplificazione: sia che si parli di capitalismo in modo positivo oppure in modo negativo, lo si fa quasi esclusivamente secondo le categorie sociologiche delle "classi" o degli "strati" sociali, mentre le forme sociali su cui esse sono basate rimangono in qualche modo neutre ( o altrimenti ci si limita a discutere del loro raggruppamento e della loro riconfigurazione, ad esempio nel quadro della relazione tra il mercato e lo Stato). Si tratta pertanto di una questione di relazione tra le classi sociali all'interno del quadro capitalistico. Sostenendo che il capitalismo è una società di classe, i marxisti - invocando sempre e solo il Marx essoterico - hanno ritenuto di avere già detto l'essenziale. Mentre gli apologeti del capitalismo hanno cercato di relativizzare questa constatazione affermando che il capitalismo aveva già ampiamente ampiamente superato la società di classe mediante lo stato sociale e il miglioramento delle condizioni di lavoro. In questo dibattito non ci si è interrogati, almeno non seriamente e con una qualche pretesa di riflessione teorica, su come le classi sociali siano effettivamente nate, sul modo in cui la loro costituzione sociale sia diventata una realtà e si sia riprodotta quotidianamente. La ragione di un simile disinteresse è semplice: in una prospettiva sociologicamente riduttiva, i rapporti sociali si riducono in ultima analisi a puri rapporti di volontà. Il capitalismo esiste perché i suoi attori lo "vogliono". In questo modo, il capitalismo si confonde con i capitalisti (proprietari privati di capitale in denaro, e anche dirigenti), oppure con il collettivo sociale della classe capitalista, che si autonomina in quanto tale. È proprio questa volontà dei soggetti capitalisti ad aver assoggettato la maggioranza della società sotto forma di lavoratori salariati. Di conseguenza, la proprietà privata dei mezzi di produzione appare come l'istituzione centrale della volontà capitalistica. Secondo la formula ormai stabilita, questa monopolizzazione sociale del potenziale produttivo conferisce di per sé ai capitalisti il diritto di deciderne l'uso. La forma di assoggettamento o, come la chiama Marx, "lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo" sembra pertanto realizzarsi in una relazione di dominio tramite la proprietà privata, nella relazione di dominio sociale tra capitalisti e lavoratori salariati. Dal momento che si tratta di un relazione sociale, essa non può che essere una relazione di classe. Secondo questa versione, l'unica differenza nei confronti di una società in cui vi erano rapporti personali di dipendenza tra signori e servi della gleba è che ora la dipendenza ha assunto un carattere collettivo, cosicché ogni singolo lavoratore non dipende più da un singolo signore (come nel feudalesimo e nella schiavitù), bensì dalla classe capitalista in toto.
Riducendo in questo modo il concetto, non solo di moderno, ma di qualsiasi modo di produzione e formazione sociale, a relazioni tra classi sociali, codificate e istituzionalizzate in una forma giuridica (la proprietà dei mezzi di produzione sociale), l'aspetto negativo e distruttivo del capitalismo sembra in qualche modo risiedere nel carattere dei soggetti capitalisti in quanto classe dirigente. Il concetto di capitale in sé all'improvviso può coincidere semplicemente con il concetto di mezzi di produzione materiali (macchine, edifici, ecc.), tanto nella formulazione marxista quanto nell'economia politica borghese. Il capitale come tale non è più una relazione sociale, ma diventa un oggetto reificato, mentre la relazione sociale imposta dal capitale si manifesta sociologicamente come contrapposizione di classi, in maniera completamente esterna. Proseguendo in questa prospettiva secondo cui la classe dominante dei proprietari di capitale impiega e "usa" la classe dipendente dei lavoratori salariati per i propri fini privati, ne deriva che essa persegue un particolare interesse personale, il proprio interesse soggettivo di classe. A questo si oppone un altro interesse di classe contrario, quello dei lavoratori salariati. E il risultato di questo conflitto di interessi è, ovviamente, una lotta di interessi, precisamente la buona vecchia lotta di classe. Implicitamente (e spesso anche esplicitamente) nell'ottica di questa quinta essenza del marxismo nel movimento operaio, l'estrema conseguenza della critica del capitalismo è ovviamente quella di sbarazzarsi dei soggetti-capitalisti in qualsiasi modo, possibilmente imprigionandoli o tagliando loro la testa - per usare l'idea e la pratica della rivoluzione francese borghese. In ogni caso, togliere loro il giocattolo, vale a dire espropriarli, in modo che la gloriosa classe operaia possa gestire il capitale materiale sotto la propria direzione e nel proprio interesse. E questo è persino semplicemente logico: se il capitalismo equivale al potere giuridico di disposizione di una classe dominante, allora esso cessa di esistere mediante l'atto formale del passaggio di proprietà da una classe a un'altra. Testimoniano l'ingenuità quasi commovente e davvero comica di questo pensiero marxista, ad esempio, i solenni "certificati di espropriazione" che, all'atto della fondazione della DDR, proclamavano il passaggio delle aziende nelle mani del popolo, che sarebbero diventate "aziende di proprietà popolare" ("Volkseigene Betriebe" o VEB). Qui appare chiaramente il campo concettuale di quel marxismo utilizzato dal movimento operaio storico quale ideologia per legittimare la propria lotta di classe, che in realtà si riduceva all'obiettivo del riconoscimento sotto il capitalismo. Ed è innegabile che questa lettura si riscontri ripetutamente anche nello stesso Marx. È proprio nel contesto di questo campo concettuale che egli si rivela essere il Marx essoterico, un puro teorico della modernizzazione. Nel marxismo volgare, sono soprattutto due i problemi che si pongono, di fronte a questa nozione riduttiva di capitalismo, e dove si verifica il passaggio dall'argomentazione e dalla critica esoterica a quella esoterica all'interno della teoria di Marx.
Da un lato, ridurre il concetto di capitalismo a relazioni di volontà tra classi sociali è estremamente poco compatibile con la "ferrea" oggettività (ripresa da Hegel) del processo storico, che comporta livelli di sviluppo da raggiungere e configurazioni sociali necessarie. È ovvio che non è solo la mera volontà soggettiva, calibrata sulla classe e guidata dall'interesse, che costituisce il capitalismo; al contrario, tale volontà sociale si trova incorporata in qualcos'altro - per esempio, in un’oggettivitá che la travalica. Ciò diventa ancora più chiaro quando in Marx e nel marxismo si parla continuamente con la massima chiarezza delle "leggi" del modo di produzione capitalistico, se non addirittura con decisione delle sue "leggi naturali". A una lettura positivista, anche questo si rivela - come nel caso della nozione di capitale reificato - come un avvicinamento al pensiero dell'economia politica borghese, secondo la quale, come sappiamo, le leggi del capitalismo sono identiche alle presunte leggi naturali della riproduzione sociale in generale. Ma anche se si accetta che queste "leggi economiche naturali" siano solo delle limitate leggi storiche del modo di produzione specificamente capitalistico, si pone un problema: il carattere oggettivato e di "legge naturale" delle strutture riproduttive e delle forme di movimento e sviluppo capitalistiche si trova in profonda contraddizione con la loro concezione che si riduce a rapporti di volontà di classe sociologici e giuridici. Il marxismo ha semplicemente rinunciato a mediare e risolvere questa contraddizione, anzi non l'ha nemmeno riconosciuta. In questo modo, l'elaborazione teorica marxista, da un lato, ha sempre dovuto necessariamente scomporsi in una teoria "oggettivista" ed "economicista" (parascientifica) della società, e dall'altro lato in una teoria "soggettivista" (politica e giuridica) dell'azione. Questa schizofrenia riproduce di fatto la scissione del pensiero borghese moderno in generale, la quale, dall'epoca della filosofia in poi, si è sempre continuamente sdoppiata, proclamando a più riprese, e con molteplici varianti, da un lato, una società umana che funziona in modo quasi automatico, quasi fosse un meccanismo a orologeria, secondo le leggi del sistema (la "mano invisibile" del mercato e i meccanismi di regolazione cibernetica che pongono l'uomo al livello di insetto o di parte funzionale di una macchina) e, dall'altro, il "libero arbitrio", l'"autonomia dell'individuo", la "responsabilità personale" e la "libertà politica" (democrazia).
Il marxismo del movimento operaio non ha mai rotto con questo dilemma del pensiero borghese, anzi ha convissuto con esso e (nel caso della modernizzazione tardiva del XX secolo) lo ha integrato nel suo socialismo. Si supponeva che anche quest'ultimo funzionasse secondo delle leggi economiche oggettivate e naturali (compresa la produzione di merci non soppressa), ma che allo stesso tempo incarnasse anche la volontà di classe del proletariato e del suo partito trasformato in Stato. Il ragionamento marxista, dall'altro lato, si confonde nel momento in cui viene sollevata la questione del senso del sistema. Di sicuro, la saggia riflessione sulla lotta di classe non poteva che trovare una risposta a questa domanda: il fine del capitalismo, ovviamente, consiste nel far sì che gli operai salariati vengano sfruttati dai soggetti-capitalisti. Infatti, se questi ultimi desiderano così tanto ardentemente il capitalismo, lo fanno perché esso fornisce loro il famoso "plusvalore", che essi estorcono ai più bisognosi dell'umanità. Naturalmente, possiamo interpretare intere pagine del Marx essoterico proprio in questo senso, quando parla del "lavoro non pagato" attraverso il quale i lavoratori salariati producono quella quantità aggiuntiva di valore - in aggiunta al controvalore dei loro stessi costi di riproduzione ( percepiti come salario) - del quale i proprietari capitalisti si appropriano per arricchirsi. La soluzione sembra consistere nel fatto che, in seguito all'estromissione degli sfruttatori, la valorosa classe operaia riceva tutto il reddito del proprio lavoro e che gli venga pagata anche la parte non retribuita del suo lavoro. Inoltre, il marxismo si è visto obbligato a riconoscere il fatto che ogni società richieda un reinvestimento finalizzato a rinnovare i mezzi materiali di produzione, come anche un'accumulazione di riserve. Queste necessarie deduzioni che vengono prelevate dal prodotto del lavoro, tuttavia, verrebbero poi utilizzate a beneficio della comunità grazie alle istituzioni proprie della classe operaia (nel dubbio, naturalmente si tratta del suo partito che diventa Stato). Questa risposta in apparenza così tanto semplice e chiara, che arriva senza indugio, presenta tuttavia diversi suoi problemi. Sembra infatti dare l'impressione che i proprietari capitalisti si approprino del profitto soprattutto in quanto ricchezza personale. La relazione di capitale sembra perciò essere solo una variante di quella che è una relazione, in qualche modo intramontabile, tra povertà e ricchezza. Le idee di Marx relative al plusvalore (nella forma di denaro) e alla produzione in eccedenza (nella forma di beni materiali) vengono qui utilizzate praticamente come sinonimi. A questo punto, ecco che le forme di appropriazione feudali e capitalistiche sembrano differenziarsi solo a livello del tipo di proprietà (proprietà della terra in un caso e proprietà privata dei mezzi di produzione nell'altro). Gli è che il classico signore feudale ingurgitava il prodotto materiale in eccesso sotto forma di tasse in natura; ma persino questo immoralità rimaneva comunque legata alle diverse modalità di distribuzione, che consentivano comunque ai servi della gleba, agli abitanti dei villaggi, e ad altri, di ricevere le briciole, in un modo o nell'altro. Poiché infatti, anche per la ricchezza precapitalistica, i signori non avevano uno stomaco abbastanza grande. Nella sua forma capitalistica, la produzione di ricchezza diventata esorbitante, sfugge completamente all'appropriazione soggettiva e consapevole da parte dei proprietari dei mezzi di produzione. Infatti, imprenditori e manager non possono, neppure loro, consumare personalmente tutta quell'enorme eccedenza, superiore al controvalore del salario da lavoro, vale a dire, sotto forma di ciò che esce dalle loro fabbriche come burro, bombe a mano, polli arrosto o libri in brossura; né possono, neppure con grandi sforzi, trasformare i loro guadagni in prodotti di lusso per uso personale, per il cui godimento, peraltro, hanno smesso da tempo di avere il tempo per farlo. Al contrario, per non soccombere, sono costretti a reinvestire nuovamente gran parte del surplus convertito in denaro (cioè il plusvalore) nel processo di riproduzione capitalistica, e su una scala ancora più ampia. Di conseguenza, perciò, nessuno beneficia realmente di gran parte del "lavoro non retribuito", se con ciò intendiamo riferirci all'effettivo godimento della ricchezza prodotta. Perciò, si tratta di una grande massa di prodotti che non appare essere granché destinata a un suo godimento. Si tratta invece di aumentare la produzione per la produzione; un fine in sé irrazionale. È esattamente questo che il Marx esoterico definiva il feticismo di questo modo di produzione, che funziona esattamente allo stesso modo in cui i feticci funzionavano nelle società pre-moderne. Marx dà un nome anche a quello che è il meccanismo specifico di questa divinità feticcio del capitalismo: lo chiama "soggetto automatico". Benché questo termine compaia proprio all'inizio del Capitale, i marxisti, che lo conoscono bene, sono stupefatti da questo singolare "non-concetto" e lo ritengono piuttosto strano. Ma in realtà Marx usa questo termine proprio per designare il cuore della paradossale relazione sociale capitalistica, la quale non si limita affatto al rapporto di classe e di sfruttamento tra operai salariati e capitalisti.
Al contrario, a quanto pare, nel capitalismo tutte le classi e le categorie sociali in generale siano, ugualmente e comunemente, solo delle semplici categorie funzionali di quel soggetto automatico a cui sono subordinate, che deve quindi essere il vero oggetto della critica del capitalismo. I proprietari e i manager capitalisti, così come gli operai alla base della gerarchia funzionale capitalistica, non sono affatto soggetti del tutto autocratici dell'organizzazione capitalistica, ma semplici funzionari dell'accumulazione di capitale fine a sé stessa. A coronamento del paradosso, il vero soggetto del dominio si rivela essere un oggetto morto, il denaro, che, riaccoppiato a sé stesso, diventa così il fantasmatico motore della riproduzione sociale. Il risultato è di un'assurdità senza precedenti: le persone sono diventate delle semplici appendici di un'economia autonomizzata, nel cui movimento sono tutti prigionieri, come dei lemuri nel loro "lugubre istinto". La loro attività sociale li mette di fronte a un potere alienato ed esterno in un cieco contesto sistemico; quella che è lo loro socievolezza viene incorporata in dei prodotti morti, e nel denaro che li rappresenta, nel mentre che loro invece si comportano come esseri asociali, in quella che assume la forma di una concorrenza anonima. E questa concorrenza non è altro che la forma di relazione comune a tutte le classi e a tutte le categorie funzionali capitalistiche: non si tratta solo dei lavoratori salariati che competono con i proprietari di capitale, ma i proprietari di capitale e i lavoratori salariati sono in competizione anche tra di loro. E dal momento che gli interessi di tutti, in quanto produttori sono in conflitto con gli interessi contrapposti di tutti in quanto consumatori, ecco che tutti, in qualche modo si trovano a essere sempre in competizione con sé stessi! Questo dominio del tutto folle, esercitato da un soggetto automatico reificato, risulta così tanto difficile da comprendere perché sembra quasi che il "denaro" e il "mercato" esistano da sempre, mentre il senso comune capitalista percepisce il sistema che gli è presupposto, sempre e solo nella sfera della circolazione e dello scambio, sviluppando a partire da questo interessi di mercato o di distribuzione che gli sembrano indiscutibili. Anche il marxismo del movimento operaio non è mai riuscito a pensare al di là di tutto questo. Ma, in realtà, secondo il Marx esoterico nel suo riferirsi al soggetto automatico irrazionale, in tutte le società precapitalistiche il denaro e il mercato erano solo dei fenomeni marginali o di nicchia, quando invece la maggior parte della riproduzione veniva realizzata sotto altre forme, sulla base di quella che era una "economia naturale". L'economia monetaria e di mercato generalizzata comincia a emergere solo a partire dal riaccoppiamento capitalista del denaro con sé stesso. E in tal caso, qui, il fine ultimo non è ancora quello della produzione di merci, ma serve solo ad avviare il processo di valorizzazione del denaro, nel quale si dà inizio al fine in sé dell'accumulazione infinita di capitale monetario. In queste condizioni, i produttori indipendenti non possono più trovarsi su un mercato; la massa dei lavoratori salariati finisce per essere solo "soggetto del denaro e soggetto del mercato" dal momento che si auto-consegna da sé sola sui mercati del lavoro, mentre invece i proprietari del capitale appaiono come se dei semplici rappresentanti del soggetto automatico. Secondo Marx, tutti gli individui coinvolti sono ridotti a essere delle «maschere caratteriali» di categorie economiche, e il mercato non è più una sfera di libero scambio, ma solo e semplicemente la sfera di realizzazione del plusvalore, vale a dire che nel palpitante processo vitale, nell'incessante metamorfosi del soggetto automatico, è solo una stazione. In maniera melliflua, gli apologeti del capitalismo hanno continuato a cercare di giustificare la natura paranoica di questa costruzione sociale, sostenendo che la crescita delle forze produttive, imposto dalla concorrenza anonima, porta automaticamente a un aumento del benessere. L'esperienza pratica della stragrande maggioranza dell'umanità nella storia del capitalismo dimostra esattamente il contrario. Dal momento che il fine non è la produzione di beni, ma che essa costituisce solo un semplice mezzo per la valorizzazione del denaro, il benessere non può essere un obiettivo, ma tutt'al più un sottoprodotto temporaneo del capitale.
Mentre nelle società agrarie premoderne basate sull'economia naturale l'indigenza e la povertà erano determinate principalmente dal fatto che gli uomini venivano abbandonati alla loro "prima natura" e al basso livello delle forze produttive, il capitalismo genera invece una povertà secondaria di origine puramente sociale. Dal momento che lo scopo della produzione è unicamente quello di massimizzare il profitto astratto sotto forma di unità di denaro, avviene che, per la prima volta nella storia gli uomini, non si produce più per soddisfare i bisogni. Così quando non è possibile raggiungere almeno il tasso medio di profitto, i mezzi di produzione vengono allora immobilizzati, oppure ridotti, per quanto ancora intatti, mentre le persone vengono private dei beni di prima necessità. E quando la legge del movimento del soggetto automatico lo richiede, l'aumento esorbitante delle forze produttive si riversa nelle automobili, nei raccordi autostradali o nei razzi, mentre ci sono moltitudini di persone che rimangono senza casa e i bambini muoiono di fame, anche nei paesi più ricchi. Tuttavia, la separazione sistematica tra lo scopo della produzione e il soddisfacimento dei bisogni, che viene richiesto da questo grottesco sviamento delle risorse, non può essere superata per mezzo di un semplice cambiamento di potere, oppure dalla forma di produzione che viene assunta all'interno delle categorie capitalistiche, e neppure con un semplice cambiamento della proprietà giuridica, trasferendola da una classe sociale all'altra, nel contesto delle classi sociali, o tra i diversi soggetti funzionali del sistema, quanto piuttosto solo attraverso l'abolizione dell'irrazionale automatismo del soggetto stesso, e delle sue leggi di movimento che sono diventate una seconda natura. All'inizio del XXI secolo, ora che il marxismo essoterico del vecchio movimento operaio si è ormai esaurito, insieme alla modernizzazione ritardata della periferia capitalista, anche il concetto sociologicamente riduttivo di capitalismo ha fatto il suo tempo. Ora, per la teoria critica, solo l'altro concetto di capitale, che è completamente diverso, propugnato dal Marx esoterico, che si concentra sul dominio materiale del soggetto automatico, in quanto figura teorica di un movimento sociale pratico, a partire dal quale a venire contestata non sarà più quella che non è altro che forma comune di una concorrenza anonima, ma anch'essa verrà criticata e superata.
La selezione di testi di Marx, che qui segue, si concentra sul concetto di capitale che va oltre la comprensione del marxismo del movimento operaio e dei suoi paradossi. In esso troviamo un'analisi, anche se limitata allo stretto necessario, dei meccanismi funzionali del capitalismo. Solo sulla base di una comprensione del capitale in quanto "soggetto automatico" si può giungere anche a una comprensione dei suoi meccanismi funzionali, che non confonda l'analisi di Marx con un'esposizione positivista della mera oggettività, ma la comprenda per quello che significa,vale a dire una critica radicale dell'oggettivazione erronea e distruttiva delle relazioni sociali.
- Robert Kurz - Introduzione a: I Testi più importanti di Karl Marx per il XXI secolo -
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