giovedì 6 gennaio 2022

Purché se ne parli !!?!!

A quanto pare, "criticare la critica" sta diventando di moda, per così dire. E, inseguendo il famoso motto wildiano (nel senso di Oscar Wilde, il quale lo rese immortale scrivendolo ne "Il ritratto di Dorian Gray"), si potrebbe anche aggiungere che era ora! Pertanto ben venga qualsiasi critica che sia in grado di far circolare le idee e suscitare la discussione. Cosa che sostanzialmente riescono a fare in maniera abbastanza egregia - in questo testo che ho ritenuto meritevole di essere tradotto e reso disponibile per la lettura -  sia il seminale Jaime Semprun che Renaud Garcia, i quali rimproverano alla “critica del valore” più che altro il fatto di non aver rimesso in causa lo sviluppo industriale; e quindi, praticamente, di non aver compreso il carattere catastrofico della situazione attuale.  Tuttavia, quel che appare fondamentale in questo susseguirsi di critiche (le quali, curiosamente, non fanno mai riferimento a Robert Kurz, tranne quando ci si limita a citarne un breve passaggio tratto da "Vita e morte del capitalismo", nel quale viene fatta una precisazione sulla cosiddetta «rilevanza della lotta di classe») è solo il voler sottolineare maniacalmente quella che sarebbe l'inutilità (!) della critica categoriale, la quale - udite udite - dovrebbe rinunciare a sé stessa, e quindi abbandonare il concetto di Valore (la cui colpa sarebbe quella di essere sostanzialmente astratto) per concentrarsi piuttosto su altri concetti, più abbordabili, che riescano a meglio andare incontro alle limitate facoltà mentali degli eventuali interlocutori, tranquillizzandoli proponendo loro obiettivi più praticabili e concreti, del tipo del«la proprietà privata dei mezzi di produzione». Non importa se, per sostenere una simile posizione, si arrivi financo a giocarsi uno sfondone come quello che - nel discutibilissimo testo di Bertrand Louart - argomenta affermando che a creare il valore sarebbe il capitale !! E non il lavoro !!! Niente male davvero per chi vorrebbe essere un critico della critica del valore, e che dovrebbe convincere «i teorici» a smettere di continuare inutilmente a teorizzare, dal momento che in questa situazione di crisi irreversibile tutti loro, insieme, farebbero meglio a dedicarsi al giardinaggio, come propongono i Semprun e i comunizzatori anti-industriali della Encyclopédie des Nuisances. Né, ai fini di una discussione intelligente, credo possa servire mischiare le carte, fornendo un lessico della Wertkritik come quello poveramente proposto nel testo che segue, evitando accuratamente di riferirsi per esempio al lessico ben più completo fornito da Palim Psao (che si può leggere tradotto qui), in modo da poter così confondere meglio le acque proferendo l'accusa di «marxismo» proprio nei confronti di chi rifiuta quel Marx essoterico su cui il marxismo si fonda. Lo fa rincarando la dose, per cui l'accusa più infamante che viene rivolta a Norbert Trenkle è quella di "finto materialista" - anziché quel «pensatore marxista» che invece dovrebbe essere (secondo chi ?!?). E per farlo, si arriva perfino a prendere per i fondelli Marx (e i suoi spettri "metafisici"), dileggiando il concetto di "valore"(che a differenza di quello di "materialismo", invece il caso vuole che si trovi ne Il Capitale). Insomma, facciamola finita - ci dicono - con il concetto di valore, con la critica del valore, e torniamo alla critica dello sfruttamento. Perché è quello il problema. E così. alla fine, nella critica della Wertkritik quello che sembra tornare ad aleggiare è il vecchio spettro di Proudhon . Viene agitato il fantasma dello spossessamento della proprietà, che sarebbe un iniquo "furto" e che avrebbe aperto la strada all'accumulazione capitalista. Così quella che qui viene ancora una volta invocata - e che invece alla WertKritik ahi loro mancherebbe - è sempre la sfera della circolazione, dello scambio, che considerata autonomamente, come viene fatto qui, diventa (questa sì!)  una pura astrazione. Ma se non si abbandona questa sfera, se non ci si addentra nel «segreto laboratorio della produzione» non si potrà mai riuscire a vedere come il valore di scambio si sviluppa in capitale e come il lavoro che produce valore di scambio si sviluppa poi in lavoro salariato, e quindi non si vedrà mai neanche in che modo il sistema del denaro – che poi è effettivamente il sistema della uguaglianza, della libertà, della volontà, del diritto - si converta poi in disuguaglianza, illibertà, moderno privilegio.

Radice di meno 1
- Une émission de critique des sciences, des technologies et de la société industrielle - Émission Racine de Moins Un n°71, diffusée sur Radio Zinzine en décembre 2021.

Anti-industrialismo o anti-capitalismo?
- di Renaud Garcia - Ottobre 2020

A molti, il titolo di questo intervento sembrerà intrigante. Ozioso, persino. Forse che l'alternativa non era stata superata, da "Écran Total", nel testo “L’indispensable alliage”, qui è apparso sulla rivista "L’Inventaire n°3" (inverno 2015)? Sembrava che le cose fossero chiare, che fosse necessario allargare la critica sociale, la quale poi si sarebbe aggiunta a una critica culturale dell'organizzazione, del macchinismo e della rappresentazione scientifica del mondo. Senza tutto questo, si potrebbe continuare infinitamente a fare mostra di «anticapitalismo» pur senza mai arrivare al cuore dello spossessamento universale che va avanti da oltre due secoli. A quanto pare, non è tutto così semplice. A partire dalla lettura delle cosiddette critiche «radicali» del capitalismo, alcuni si chiedono quali siano i veri fini di "Écran Total". Su cosa "Écran Total" sostiene. Cosa vogliamo. Da un lato, ci si chiede come si possa perseguire, individualmente, un impegno regolare se poi si ha l'impressione che il «collettivo» si aggrappi all'esistenza di chimere, come quelle del lavoro fatto bene o del posto di lavoro dotato di senso, e che viene restituito alla sua pienezza una volta che viene sottratto alla digitalizzazione? (Dal momento che è questa la principale obiezione sollevata); mentre dall'altro lato, per l'entità "Écran Total", non è affatto necessario - e questo una volta per tutte - ritornare sul problema, per non "imbrogliare sul prodotto"? Le spiegazioni che seguono, hanno lo scopo di presentare a chi esita alcune idee, definizioni e problemi, in modo che possano così decidere con cognizione di causa. Anche se a me sembra che le cose siano chiare.

- I -
Il tema centrale è il lavoro. Ci torneremo, ma adesso prendiamo due esempi (che sono caricaturali di proposito): chi è intervenuto parlando delle stazioni ferroviarie, avrebbe nostalgia dei giorni in cui ci sarebbero state reti ferroviarie efficienti, con dei bigliettai devoti agli utenti, dei venditori ambulanti che facevano parte della piccola ristorazione; gli insegnanti, spaventati dalla informatizzazione delle scuole, dalla gestione a progetto, dalla valutazione permanente, dalla ricerca e dall'innovazione, avrebbero nostalgia dei buoni vecchi maestri della Terza Repubblica, dei dettati, dell'ortografia, della standardizzazione della lingua e degli accenti. Il primo esempio tace sul ruolo delle ferrovie nell'accelerare la circolazione delle merci e nell'unificare l'ambiente in quanto superficie per l'espansione del capitale; i secondi evitano di chiedersi cosa rappresenta la scuola in sé stessa in quanto istituzione coercitiva deputata a produrre conformismo nei futuri lavoratori.
Questo modo di porre il problema ci riporta all'opposizione tra neo-liberalismo e liberalismo regolato. Evocare in alcuni membri di Écran Total una "nostalgia" per un'epoca più clemente nei confronti del lavoro (quella dei nostri genitori, o addirittura dei nostri nonni), significa attribuire loro una critica alla svolta neoliberale degli anni '80 (deregolamentazione, finanziarizzazione), in contraddizione con la stabilità keynesiana del dopoguerra. È un po' come se non vedessimo che il problema riguarda l'economia reale, e non solo l'economia fittizia o finanziarizzata, sostenuta dalle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Ciò non ci impedisce di dare prova di un minimo di senso storico, e di comprendere in che modo l'equilibrio di potere si sposti a seconda del contesto. A tal proposito, per esempio, sarà difficile sostenere che nelle scuole «gli standard stanno migliorando». E vista da questa prospettiva, la scuola - soprattutto quella elementare - in cui ci siamo formati (1970-1980) potrebbe essere considerata un'epoca d'oro. A conti fatti, il keynesismo è meglio del neoliberismo. Se rimaniamo alla superfice delle cose, mi sembra, sia qualcosa di cui la maggior parte di noi è ben consapevole. Di fatto, un anti-industrialismo conseguente la fa finita con la distinzione tra l'economia reale da preservare e l'economia fittizia da sradicare. Questo perché risale alla causa: l'astrazione industriale. In altre parole: produrre di più a minor costo, dopo aver quantificato tutta la realtà sensibile, massificato la società e distrutto le forme tradizionali di sussistenza. Ciò implica che lo sviluppo - non dell'economia ma dell'economico (una realtà ridotta alle coordinate della produzione illimitata) - è consustanziale allo sviluppo della scienza moderna (galileiana). Una scienza per la quale il libro dell'universo è scritto in caratteri matematici, dove il movimento non influisce sui corpi in traslazione: una scienza che oggettivizza la realtà spogliandola di tutte le qualità sensibili. Ora, tutto questo è iniziato assai prima dello sviluppo di Internet e dello smartphone, sebbene la situazione attuale presenti un'impennata delle logiche che sono all'opera. Marx ha percepito tutto questo allorché ha caratterizzato il movimento del capitale come un movimento che non ha fine e non ha misura. Ed è pertanto costretto a  tagliare le cime che lo tengono ormeggiato alla realtà sensibile. (Nota bene: nel Capitale, non troveremo il termine "capitalismo"; Marx parla di "capitalisti", ritenuti come gli ufficiali e i sottufficiali dell'accumulazione del capitale. Avviso cruciale per tutti coloro che si dichiarano "anticapitalisti"). Lo percepisce nuovamente nel momento in cui mostra che la vita senziente si trova alla base di tutta la produzione economica, ma che quest'ultima finisce per occultarla e per soffocarla. In altre parole, il lavoro astratto, il dispendio di energia misurato in unità di tempo omogenee, il quale determina il valore di scambio, schiaccia il lavoro concreto, soffoca l'attività vitale che produce valore d'uso. Il processo di valorizzazione (il denaro cresce e si espande senza che gli si possa assegnare alcun limite; il capitale investito nella produzione diventa sempre più grande)significa: «La perversione della vita immediata insieme al rovesciamento di tutti i suoi valori. Per Marx, l'economico non è il luogo della realtà, ma piuttosto è il luogo dove tale realtà si perde: il luogo della sua alienazione. Per Marx, l'economico è innanzitutto il male» [*1].

- II -
Lo è anche per noi. Così questa parte di Marx si rivela fruttuosa proprio per poter andare oltre il semplice anticapitalismo. Per riuscire a farlo, faccio riferimento alla lettura del filosofo Michel Henry. Un filosofo cristiano e fenomenologo che ha pubblicato due tomi monumentali su Marx nel 1976. Il suo saggio più noto, La barbarie (1987), per la sua critica alla visione del mondo tecno-scientifica e alla distruzione culturale che ne deriva (tutta la cultura prende forma solo a partire dal radicamento sensibile dell'essere umano), è un testo vicino a un'ispirazione anti-industriale. Nella sua analisi di Marx, egli suggerisce di ripartire dal «laboratorio segreto della produzione», il luogo dove si producono i valori: è la soggettività della vita, che dispiega la sua forza e crea il lavoro "vivente". Alla base dell'astrazione economica, si trova comunque una vita sensibile che viene alienata in un processo automatizzato (estrazione del plusvalore). Più precisamente, è una grande macchina che ingurgita denaro per poi sputarlo fuori sotto forma di materie prime. Infatti, del resto è così che Marx si riferisce all'accumulazione del capitale: «Il valore trapassa costantemente da una forma all’altra, senza perdersi in questo movimento, e così si trasforma in un soggetto automatico». (Capitale, I, IV). Ma per far sì che questo movimento venga mantenuto, esteso e poi "globalizzato", esso dev'essere guidato. In questo modo, l'allargamento del mercato e l'apertura virtualmente illimitata della concorrenza vanno necessariamente di pari passo con la produzione industriale; che è una produzione di massa. Come ci mostra il sociologo quebecchese Michel Freitag ("L'impasse de la globalisation"), rispetto a quella che era una fase in cui il produttore, sia esso un artigiano o un negoziante, rimaneva legato a delle norme sociali e a delle forme personali di scambio con i suoi clienti, la produzione capitalista per un mercato anonimo implica invece un costante miglioramento del processo produttivo. Sotto l'effetto della concorrenza, è necessario distribuire in massa le merci e organizzare il lavoro a monte, in maniera anch'essa massificata e quantificata. È quindi fin dall'inizio che l'accumulazione di capitale è industriale, soggetta all'espansione della meccanizzazione in quanto vincolo sistemico. È lo stesso Freitag che si spinge ancora più lontano e che, sulla scia della Arendt, sostiene che l'imposizione della logica industriale si dimostra come un tentativo della borghesia mercantile di legittimare i propri interessi privati (la sua concezione imprenditoriale della libertà), svuotando così in definitiva del suo contenuto, la libertà politica e l'istituzione autonoma della società. In tal senso, a partire dall'epoca borghese, l'industria sostituisce alla deliberazione collettiva circa l'interesse generale, dei processi neutri che culmineranno unicamente nel solo interesse meccanico del Capitale (Freitag, qui propone la seguente etimologia: «endo-struere», che significa «costruire, o fare senza essere visti, fuori dalla piazza pubblica, nel segreto privato dell'officina» [*2]).

- III -
Sembra che tutti gli anti-industriali (da Weil a Semprun, passando per Phil Dick, Zamiatine, Giono, Landauer o Bernanos) ammettano questo punto: il problema principale della "modernità", a partire dall'emergere della scienza galileiana, consiste nel sostituire delle astrazioni morte alla vita sensibile. Questo problema trascende i regimi politici e i rapporti di proprietà; pertanto, al di là dell'opposizione comunismo/capitalismo. E soprattutto, oggi, la tecnologia digitale costituisce l'ultima fase di un movimento di espropriazione senza il quale l'industria non avrebbe potuto svilupparsi. È qui che si trova l'origine dell'ascesa del potere industriale (non intendo certo la fonte "pura" o "fondamentale", la quale probabilmente era già in fieri nel Medioevo [*3]), vale a dire, il sansimonismo. Cosa dicono i Saint-Simoniani nel giornale "Le producteur"? Che la finalità della specie umana sul globo (la globalizzazione, quindi), è quella di sfruttare e modificare a proprio vantaggio la natura esterna; e che per fare questo, ha bisogno di "mezzi" fisici, intellettuali e morali; e deve lavorare a questo obiettivo con una «progressione sempre più in crescendo». Infine - sostiene per esempio Prosper Enfantin - occorre che «le masse seguano la direzione di uomini che sappiano esplorare, in tutte le sue direzioni, la strada che la specie umana deve percorrere».
Questo è quanto: produzione crescente; connettere in una rete tutta la Terra; uniformazione delle masse; coordinamento dei mezzi; regno degli esperti. Questa è la civiltà della macchina che abbraccia l'individuo, in nome del progresso. E che distrugge necessariamente, attraverso la produzione che viene garantita dai metodi scientifici, quelle attività di sussistenza che le comunità umane avevano pazientemente realizzato in quello che era stato il loro singolare rapporto con la natura. Nel 1947, Karl Polanyi, il teorico della tesi - trita e ritrita - dello sradicamento dell'economia, aveva detto chiaramente in che cosa consisteva la posta in gioco, tra anticapitalismo e anti-industrialismo: «Quello che alla nostra generazione appare come il problema del capitalismo, è in realtà il problema assai più ampio della civiltà industriale: è questo ciò che il sostenitore del liberalismo economico si rifiuta di vedere. Nel difendere il capitalismo come sistema economico, ignora la sfida dell'era delle macchine, nel momento in cui i pericoli che fanno tremare i più temerari vanno ben oltre l'economia. Le idilliache preoccupazioni riguardo lo smantellamento dei trust, sono state soppiantate da Hiroshima. La barbarie scientifica è alle nostre porte» [*4]. Si potrebbe aggiungere: è questo ciò che ai nostri giorni, l'antiliberale e che l'anticapitalista rifiutano entrambi di vedere. Così caratterizzato, l'anti-industrialismo si differenzia dall'anticapitalismo così come si presenta oggi. Ed è un bene che lo faccia. Poiché in realtà, quasi chiunque può presentarsi sotto la bandiera anticapitalista. Guardate il maoista francese Alain Badiou, per cui il capitalismo sarebbe la forma contemporanea assunta dal "neolitico", un periodo nel quale il balzo in avanti tecnologico dell'umanità è stato dirottato dalla triade formata dalla proprietà privata, dalla famiglia con le sue regole di eredità e dallo Stato con le sue forze armate. Il problema fondamentale risiederebbe quindi nella proprietà privata e nelle disuguaglianze che essa impone. Secondo tale postulato, l'interruzione dello sfruttamento distruttivo della natura sarà possibile solamente attraverso l'equa distribuzione dei prodotti dell'industria umana, presupposta come neutra, e che sotto gestione collettiva diverrebbe ora benefica. Insomma, «tecniche inaudite per tutti, lavoro distribuito equamente a tutti, condivisione di tutto» (Le capitalisme, seul responsable de l’exploitation destructrice de la nature”, Le Monde, 28 juillet 2018). Oppure si veda l'ingegnere belga Daniel Tanuro e l'eco-socialismo, per il quale la critica del tecno-sistema alla Ellul assume dei toni fatalisti (non possiamo più prendere il timone del progresso tecno-scientifico) e dove è l'ecologia che dovrebbe dare il primato al sensibile delle tendenze regressive arcaiche (confuse, per amore della causa, con la collassologia superficiale). O ancora François Ruffin, oppure France Insoumise, a proposito del 5G: «Mentre così tanti francesi non hanno accesso alla fibra, al 4G o anche al 3G, lo sforzo dovrebbe essere concentrato sull'accesso a una nuova rete?» [*5]. Le origini e le basi della disuguaglianza tra gli uomini: l'accesso negato alle meraviglie del progresso. Attualmente, la linea di demarcazione si sta spostando verso l'opposizione tra "tecnologici" ed "ecologisti" (penso che dovremmo proporre qualcosa come "naturisti" o "naturisti radicali" - senza la connotazione di "nudismo", naturalmente. Cfr. PMO, "La nostra biblioteca verde"). Quasi tutti quelli che si definiscono anticapitalisti sono dei "tecnologici" che sostengono solo un trasferimento di proprietà, vale a dire, una gestione collettiva delle infrastrutture tecnologiche. In un certo senso, l'anticapitalismo di oggi sta prendendo il posto di ciò che l'ecologismo significava per Jaime Semprun: la gestione statale dei fastidi, l'accettazione di una maggiore organizzazione, che vada a beneficio, ovviamente, dell'«interesse generale». Di conseguenza, o Écran Total combatte senza tregua questo anticapitalismo, o perde la sua ragion d'essere.

- IV -
Esiste, tuttavia, una critica a questo anticapitalismo che abbiamo appena menzionato, e che potrebbe riecheggiare le riserve sugli obiettivi di Écran Total. Si tratta della critica del valore (WertKritik). Basandosi su una rilettura dei primi capitoli del Capitale, che presentano le categorie fondamentali dell'accumulazione capitalista (denaro, merce, lavoro, capitale) - capitoli che, secondo la Wertkritik, formano il "nucleo" della teoria marxiana, in opposizione al suo storicismo, al modello della lotta di classe e al conflitto tra capitale e lavoro - questa scuola critica eccelle nello scovare ovunque un anticapitalismo a metà, «tronco». In altre parole, un anticapitalismo sindacale, abbarbicato al conflitto tra salariati e datori di lavoro, senza mai arrivare a pensare che sia possibile svincolarsi dalle categorie stesse del Capitale. Categorie che hanno la particolarità di essere diventate astrazioni reali: vale a dire, di modellare concretamente le nostre relazioni con il mondo, con gli altri e con noi stessi. In altre parole, per i teorici della critica del valore, il capitalismo è qualcosa che tutti portiamo dentro di noi, che ci attraversa, disciplina i nostri corpi, rimodella i nostri impulsi, influenza le nostre relazioni con l'altro sesso. Ci ha riprodotto come soggettività performanti e competitive, e lo ha fatto a causa della centralità che il lavoro ricopre nelle relazioni sociali. Ma si tratta di un lavoro astratto, per l'appunto. Quantificato, misurato, oggettivato. Secondo Robert Kurz, interrogato sulla rilevanza contemporanea della lotta di classe, si tratterebbe di un antagonismo «puramente relativo tra il principio del "lavoro", presunto come trans-storico e antropologico, e la forma della proprietà privata intesa in senso giuridico, mentre in realtà il lavoro astratto e la proprietà privata legale dei mezzi di produzione rappresentano solo delle diverse determinazioni di forma all'interno dello stesso sistema di riferimento onnicomprensivo: il sistema di valorizzazione del valore» (Cfr. Kurz, "Vita e morte del capitalismo"). In breve: la grande macchina del «soggetto-automatico». Quindi, ciò che alcuni lettori della critica del valore rimprovererebbero a Écran Total è che valorizza il lavoro ben fatto e i mestieri, sottraendoli alla loro insignificanza sotto l'assalto della digitalizzazione e della burocratizzazione, e così facendo Écran Total continuerebbe a girare nella gabbia di ferro della "valorizzazione". Tenere lezioni usando i gessetti, senza tablet, senza libri di testo digitali, senza sorveglianza permanente e valutazioni a distanza, rimane ancora operare in un'istituzione che prepara gli studenti per la loro futura occupabilità. Indirettamente, rafforza comunque il sistema di valorizzazione, a partire da una buona coscienza visto che sta riprendendo in mano la sua professione. Fare il proprio lavoro di cura in presenza di pazienti, senza alcuna valutazione dell'atto, continua a essere ancora parte di un'istituzione che, ripristinando la capacità lavorativa delle persone, rimane una valvola di sicurezza per la valorizzazione. Facendo in modo che così, sotto il capitalismo (in realtà, nel contesto di quello che veniva definito come il livello economico più alto), diverrebbe impossibile estrarre un qualsiasi lavoro concreto dotato di senso dalla sua sostanza gelatinosa astratta e quantificabile.
Accogliamo questa obiezione. Credo che su questo punto l'anti-industrialismo non possa essere criticato e possa rispondere a questo. A condizione, ancora una volta, di essere chiari sulle definizioni e le conseguenze. Prima di tutto, bisogna ricordare che la critica del valore non ha il monopolio di questo approccio radicale alla questione della lotta di classe del marxismo, e al suo porre l'accento soprattutto sul conflitto lavoro/capitale. Lo troviamo già, come abbiamo sottolineato, in Michel Henry. E prima di lui, quasi per caso, nel socialista anarchico Gustav Landauer. Ricordiamo che nel suo "Appel au socialisme" (1911, ed. La Lenteur, 2019), Landauer - senza per questo escludere il vocabolario della coscienza di classe, della povertà e della lotta organizzata contro lo sfruttamento - la subordina al declino culturale dei popoli, dell'infelicità e della noia e della stanchezza sul lavoro. Sarà pertanto puntando all'ideale di un modo di vivere radicalmente diverso da quello che invece ogni giorno sostiene il capitalismo, che si manterrà la possibilità di una trasformazione sociale. Per quel che rimane, le azioni sindacali, per quanto legittime, «non portano mai a nient'altro se non a girare in tondo nei cerchi obbligati del capitalismo; non si può fare altro che intensificare il funzionamento della produzione capitalista, mai uscirne». Così, nel loro testo, affermano Kurz o Anselm Jappe. Da qui, in Landauer, la necessità della secessione, della diserzione che passa per la costruzione di cooperative di consumo e per il ritorno alla terra, lavorata con gioia, al posto della produzione forzata. Landauer, pensatore anti-industriale, coniuga l'uscita dal capitalismo in quanto feticcio (un potere esterno dotato di una sua propria volontà, alla quale ci si può solo sottomettere) con la liberazione del lavoro. Quindi sì, nella sua visione della trasformazione sociale, si lavora per i propri bisogni. Questo vuol dire qualcosa? Dal punto di vista della critica del valore, non molto, tranne il fatto che si proietta su un piano naturale (sempre esistito) ciò che in realtà è solo una specificità storica di un dato sistema sociale, economico e culturale: il capitalismo industriale. Da qui la tendenza, nella critica del valore, a diffidare di qualsiasi difesa del lavoro ben fatto, diligente, attento. È il "Manifesto contro il lavoro", è ancora una volta l'ingiunzione «Non lavorare mai», a meno che quello che ci ostiniamo a chiamare "lavoro" non si sia confuso con il gioco (Fourier, Marcuse in "Eros e civiltà", i Situazionisti). Il problema, ovviamente è quello che che la danza dei concetti fa prevalere l'oblio della nostra condizione materiale e corporale. Se ci si vuole sottrarre, da ribelli radicali, al fatto stesso del lavoro, allora dovrà essere una macchina complessa ad assicurare la nostra sussistenza. E l'incubo industriale - che si pensava archiviato, una volta che la lotta di classe fosse stata consegnata al museo delle antichità (una volta superato l'anticapitalismo) - riaffiora qui, sotto varie forme.
Prendiamo per esempio la contraddizione centrale del capitalismo, il suo «limite interno», proposto da Moishe Postone (un autore canadese vicino alle tesi della critica del valore). Quanto più l'inventiva tecnologica viene utilizzata per dare al capitalista un vantaggio sui suoi concorrenti nella corsa alla valorizzazione, tanto più il lavoro vivo abbandona il processo di produzione. Alla fine, via via che tutti si saranno aggiornati, il tecno-capitalismo sarà arrivato a una produzione automatizzata che esclude totalmente il lavoro vivo. La soggettività alla base di ogni produzione diventa superflua, e non è più meritevole di credito. In breve, è questa la situazione di crisi. Ma eco cosa dice Postone: fino a quando la crescita del valore continuerà a rimanere la finalità cieca della società, le potenze sociali generali sviluppate dall'inventiva tecnica rimarranno alienate e sottoposte all'auto-valorizzazione del capitale, contribuendo così a frammentare e a ridurre il lavoro vivo a un limite accettabile che serva per estrarre plusvalore. Bisogna uscire dal valore, dal feticismo della crescita e dal dominio del lavoro astratto, per poter orientare in modo diverso le forze scientifiche e tecniche già presenti. Pertanto sarebbe: «teoricamente possibile che una forma di vita secolare basata sulla produzione tecnologica avanzata, esista senza che essa venga plasmata dalla ragione strumentale». Una forma di vita, aggiunge, che avrebbe «per gli uomini, un significato più sostanziale della forma di vita strutturata dal capitale». Citazione: «Il potenziale della dimensione del valore d'uso, se esso non fosse più vincolato e modellato dalla dimensione del valore, potrebbe venire usato in modo riflessivo per trasformare la forma materiale della produzione. Di conseguenza, gran parte del lavoro, che - come fonte di valore - è diventato sempre più vuoto e frammentato, potrebbe essere abolito; tutti gli altri compiti rimasti potrebbero essere sottoposti al principio sociale della rotazione. In altre parole, l'analisi di Marx implica che l'abolizione del valore consentirebbe una trasformazione socialmente generale della produzione la quale porterebbe all'abolizione del lavoro proletario - sia attraverso la trasformazione della natura della maggior parte del lavoro esistente sotto il capitalismo industriale, sia attraverso l'abolizione di un sistema in cui gli uomini rimangono intrappolati in tale lavoro per la maggior parte della loro vita adulta - pur mantenendo un alto livello di produttività». (Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale").
Su questa base, dove stiamo andando? Crescita "qualitativa"? Utopia tecnologica decentralizzata nello stile dei Fablab? Un alter-digitale hacker del tipo "Partito Pirata"? Una qualche forma di Decrescita? Però aumentata per mezzo di qualche manna universale, in modo da permettere agli individui liberati dal «lavoro proletario» di fiorire nella loro libera creatività? Ed ecco che si ricade nel marxismo classico: progressista e produttivista. Quasi come se, ignorando la critica del macchinismo, avessimo innanzitutto paura di essere visti come "reazionari" o "romantici"!

- V -
Pertanto, all'interno della critica del valore, ci sono quindi almeno due tendenze (tecnofili, anti-industrialisti). Anche solo per questo, non dovremmo lasciarci impressionare dalla critica all'ingrosso del "lavoro". Dal momento che nessun anti-industrialista coerente può rifiutare il «lavorare»; quello che ciascuno fa delle proprie mani, la «corpspropriation» (Michel Henry) dell'uomo e del mondo, e più in generale il senso dello sforzo (vissuto come resistenza alla realtà). Poiché sono in gioco le nostre forze vitali e la nostra sensibilità di esseri umani. Ed è precisamente questo ciò che viene negato dalla digitalizzazione dilagante. Perciò, anche se il lavoro nel suo senso economico di astrazione quantificata che produce valore di scambio non è sempre esistito, quella che ho chiamato «prassi vitale», al contrario, costituisce ciò a cui veniamo sempre ricondotto. È questa invariante, questa «pratica dell'uomo vista come il suo modo di stare al mondo», che Marcuse ha descritto in un suo scritto giovanile, “Fondements philosophiques du concept économique de travail”, 1933 [*6]. Le sue caratteristiche principali sono tre: un compito continuo, allo stesso modo in cui viene detto di un suono di basso che è continuo: per quanto ci sono variazioni, pause, l'essere umano ci torna necessariamente sopra, poiché è la sua vita organica ad essere semplicemente in gioco. In secondo luogo, un compito che crea qualcosa di permanente, qualcosa che durerà più a lungo di quell'attività particolare che l'ha prodotto, e che testimonia il bello e il buono. Infine, un compito oneroso, nel senso fondamentale che si tratta in qualche modo di riconoscere una priorità e una resistenza da parte dell'oggetto della prassi vitale, o delle relazioni nelle quali esso si sviluppa. Presso vari popoli, il termine "lavoro" designa delle attività che vengono integrate in relazioni rituali di dono e di debito. Lavoro come tributo; lavoro in quanto tributo agli antenati che hanno reso possibile il raccolto. Nell'economia contadina russa all'inizio del XX secolo (quindi prima della collettivizzazione, che in realtà è stata una distruzione dei contadini da parte della macchina dell'accumulazione industriale) si trattava del lavoro necessario per piccola azienda familiare (che funzionava senza lavoro salariato) e che viene sistematicamente adeguato secondo l'equilibrio interno tra il consumo previsto e l'aumento della fatica del lavoro supplementare (cfr. Chayanov). In queste situazioni "precapitaliste", il lavoro astratto non è ciò che collega gli individui nella società o nella comunità. Tuttavia, tutto quello che fanno corrisponde ai tre caratteri individuati da Marcuse. Tutto ciò può certamente essere rifiutato. Volersi esonerare dal contribuire al mantenimento della nostra vita organica; creare l'effimero, il tempo di un gioco; essere assistiti da macchine che ci facilitano la vita. Ancora una volta, lo sviluppo digitale svolge perfettamente questo ruolo. Le macchine lavorano per noi, ma non da sole: devono trarre la loro energia da qualche parte, che si tratti di schiavi o di servitori, a un certo punto della catena, devono pur fare il lavoro di manutenzione. A questo punto, bisogna scegliere: essere anti-industriali e accettare che lo sforzo sia una caratteristica essenziale dell'arte di vivere (perché è attraverso questo che si sperimenta una vita come viva), o pretendere di emanciparsi dal "lavoro" alienante e faticoso per sbocciare nella creatività. La posta in gioco, ancora e sempre, è la sostituzione di un sogno meccanico ai limiti della nostra condizione incarnata. Anche laddove meno ce lo saremmo aspettato. Si veda questo articolo del 1995, "Les Coopératives de Longo maï", del giornalista lionese Michel Bernard, cofondatore di Silence! (1982); di Verts (1984); della mostra Primevère (1986); di Sortir du Nucléaire (1997). Lo cito: «Longo maï, si definisce pacifista, alternativo, antiautoritario, rivoluzionario, libertario. [...] Al contrario, a differenza di altri ambiti critici, Longo maï non rifiuta il progresso tecnico. L'invenzione di macchine, per sostituire il lavoro umano è qualcosa di desiderato a partire dal fatto che, in assoluto, cosa potrebbe mai essere meglio di un mondo senza sforzo». [*7] Io non sono d'accordo, e spero che tutti noi di Écran Total non siamo d'accordo con il finale di questa citazione [*8]. Rispetto a questo sogno, rimarrò sempre al fianco di Simone Weil. Lei pensava alla fallibilità, all'indigenza di fronte alla civiltà dei mezzi (burocrazia sovietica, tecnocrazia americana, fascismo italiano e tedesco), in un'epoca in cui non solo la tecnologia delle macchine ma, secondo lei, l'algebra, attaccava all'anima dei lavoratori, a prescindere dagli aumenti salariali che avrebbero potuto ottenere (rispetto a cui, anche lei aveva stabilito lo spegnersi dello schema della lotta di classe). È proprio questa civiltà, ormai perfezionata fino all'estremo, che ci priva del gusto stesso dello sforzo, e quindi dell'aspirazione a vivere. Resistere alla digitalizzazione delle nostre vite e difendere i "mestieri" non significa quindi glorificare una fase accettabile del capitalismo, bensì preservare le possibilità di vivere una vita un po' umana: « Basta tener conto della debolezza umana, per capire che una vita da cui sarebbe più o meno scomparsa la nozione stessa di lavoro, finirebbe per venire consegnata alle passioni, e forse alla follia; senza disciplina non c'è dominio di sé, e non c'è altra fonte di disciplina per l'uomo se non lo sforzo richiesto dagli ostacoli esterni ». [*9]

- Renaud Garcia, journées Écran Total, vendredi 23 octobre 2020. -

Lessico marxiano progressivo

Questo piccolo lessico vuole aiutare a familiarizzare con il complesso pensiero della critica del valore (scuola marxiana tedesca: WertKritik), e a permettere una migliore comprensione delle opere in cui tale pensiero viene espresso. Talvolta si è optato per una semplificazione, cercando soprattutto un'introduzione non troppo scoraggiante, pur cercando di sfiorarne la profondità.

«Tale duplice natura del lavoro contenuto nella merce è stata dimostrata criticamente da me per la prima volta. E poiché questo è il perno intorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica, occorre esaminarlo più in dettaglio.» (Karl Marx, Il capitale. Critica dell'economia politica [1873], vol.I, Napoli, 2017, p. 73.)

Marx essoterico/Marx esoterico:
Con queste due denominazioni, intendiamo due diverse interpretazioni dell'opera del vecchio barbuto, delle quali una è quella che viene tradizionalmente accettata (essoterica), basata principalmente su un punto di vista costituito a partire dal lavoro e il cui oggetto di studio è soprattutto la lotta di classe. Questa interpretazione tradizionale si focalizza sul modo di distribuzione. L'altro, ed è quello che ci interessa qui, è molto meno noto (esoterico). Stavolta non si tratta più del punto di vista del lavoro, ma della possibilità della sua abolizione. Il Marx esoterico è quello che critica tanto il modo di distribuzione quanto il modo di produzione capitalista, e lo fa a partire dall'analisi delle categorie storicamente determinate di valore, merce, denaro, lavoro e capitale.

Lavoro:
Qui il lavoro non è da intendersi come l'attività - valevole in qualsiasi epoca - di interazione tra uomo e natura, vista come attività in genere. Il lavoro viene qui inteso in quanto attività specificamente capitalista che media sé stessa,vale a dire che il lavoro ha come fine lavorare, e non più per uno scopo esterno come ad esempio la soddisfazione di un bisogno. Nel capitalismo il lavoro è allo stesso tempo sia concreto che astratto.
«Il lavoro che crea valore è pertanto solo puro dispendio di tempo di lavoro, e non tiene in nessun conto la forma specifica in cui esso viene speso.» (Anselm Jappe, "Les aventures de la marchandise", La Découverte, 2003.)

Lavoro concreto/lavoro astratto:
per poter definire la merce, Marx introduce questi due concetti che sono in opposizione tra di loro. In questo modo, per esempio, possiamo immaginare le due facce di una stessa moneta, che si trovano opposte l'una all'altra, ma che sono allo stesso tempo inseparabili. Per capire la dualità del lavoro, esso va compreso come storicamente determinato nelle sue due dimensioni.
Lavoro concreto: si riferisce alla "lavoro di fatica", all'utilizzo di materie prime, di strumenti e di forza lavoro che conferiscono alla merce il suo valore d'uso.
Lavoro astratto: è il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di merci. È questo che dà valore della merce. Nel lavoro astratto, il contenuto del lavoro viene ignorato, così come non conta l'uso che si trova associato al prodotto. Nota: un corso di francese o di computer, in quanto immateriali, non sono pertanto lavoro astratto.

Valore d'uso: L'utilità di una cosa (o di un servizio) ne costituisce il valore d'uso. Si tratta di uno dei due "lati" della merce, ed è come se fosse il supporto del valore. Un bicchiere, per esempio, ha un valore d'uso in quanto contiene un liquido che può essere bevuto. Questo valore d'uso, a differenza del valore, non può essere comparato quantitativamente con nessun altro valore d'uso, è una qualità incommensurabile e pertanto entra in "conflitto" con l'altra faccia della merce - il valore - il quale è per sua stessa essenza quantificabile. «I valori d'uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, quale che sia la sua forma sociale (in ogni società)» (Michael Heinrich, Comment lire le Capital de Marx, éd. Smolny, 2015.)

Valore: è determinato dal tempo che - in una data società, e a un certo grado di sviluppo delle forze produttive - è mediamente necessario per produrre la merce in questione. Il valore va distinto dal valore di scambio. Il valore di scambio si determina a partire da una relazione tra due merci. Consiste in una quantità astratta che permette di scambiare l'oggetto (merce). Affinché lo scambio di beni avvenga, deve necessariamente esserci un denominatore comune. Nel quadro della società della merce, questo denominatore comune è il tempo di lavoro.

Merce: è il prodotto della produzione capitalista. Essa ha senso per il capitale solo in quanto portatore del valore, la sua utilità reale non viene mai presa in considerazione. Un computer, un pomodoro o una casa - nel modo di produzione capitalista - non sono prodotti per il loro uso, ma solo in quanto permettono la creazione di valore, e successivamente la ripartenza di nuovi cicli produttivi. Si noti che una merce contiene allo stesso tempo sia valore d'uso (derivante dal lavoro concreto) che valore (derivante dal lavoro astratto).

Feticismo: Marx equipara la relazione tra gli individui e le merci, nella società capitalista, a quella con totem o con altri feticci delle società primitive; nel senso che queste società veneravano i totem che esse stesse avevano costruito. Attribuendo un potere esterno alla sua stessa produzione, l'essere umano si sottomette a una forma di mancanza di coscienza. Il carattere di feticcio della merce implica un'inversione della relazione soggetto/oggetto, facendo sì che gli individui si trovino a essere dominati dagli oggetti che producono. La logica dell'accumulazione astratta del valore (cfr. la valorizzazione del valore) genera un duplice movimento: da un lato, una cosificazione delle persone e delle loro relazioni (reificazione), e dall'altro, una personificazione delle cose. Il feticismo capitalista si trova di fatto ad attribuire un carattere naturale a quelle che sono solo delle categorie capitaliste, come il lavoro, la merce, il mercato o lo Stato. In un mondo realmente rovesciato, le relazioni tra le persone assumono la forma di relazioni tra le cose.

Il soggetto automatico: Secondo Marx, il vero soggetto del capitalismo non è né la classe operaia né la classe borghese, ma piuttosto la merce. Nella società della merce, l'essere umano è solo l'esecutore della sua logica. La relazione tra le classi non si esprime affatto a partire dai malvagi capitalisti, da una parte, e dai poveri lavoratori dall'altra. In realtà, i capitalisti non sono altro che dei fanatici della valorizzazione, mentre i proletari non hanno altra scelta che quella di  dover valorizzare l'unico capitale che è in loro possesso: la propria forza lavoro.

Alcuni argomenti per una critica della WertKritik
- di Bertrand Louart, novembre 2021 -

La WertKritik è già stata oggetto di critiche, in particolare da parte di Jaime Semprun nel suo testo "Il fantasma della teoria" [*10] al quale un membro del gruppo Krisis ha successivamente risposto [*11]. Riprendiamo qui alcuni elementi della critica di Semprun, completandola con un'analisi di ciò che riguarda il concetto di valore. Limitandoci qui alle linee principali dell'argomentazione che poi svilupperemo più dettagliatamente.

Il gergo marxisteggiante
C'è una lezione che proviene dalle lotte e dalla storia politica del movimento operaio del XX secolo: «non è possibile combattere l'alienazione con dei mezzi che sono essi stessi alienati». In altre parole, non è possibile lottare contro il dominio e lo sfruttamento dei lavoratori messo in atto dal capitalismo riproducendo nelle organizzazioni di lotta (partiti, sindacati, ecc.) le stesse strutture gerarchiche e le stesse relazioni di subordinazione. E pertanto, a proposito della WertKritik, si pone una domanda simile: è davvero opportuno denunciare le dinamiche astratte della valorizzazione messe in atto dal capitalismo a partire da una teoria che è essa stessa alquanto astratta? La teoria critica del valore, per la sua estrema astrazione concettuale, di fatto parla il linguaggio stesso del sistema che pretende di criticare, parla il linguaggio specializzato dell'astrazione. E riproduce, attraverso il suo gergo marxista, quella separazione tra profani e iniziati che è caratteristica delle professionalità, dei professionisti specializzati, se non addirittura quella di un'ideologia politica.

La metafisica del valore
Il concetto di valore, al centro della WertKritik, è abbastanza astratto. Eco cosa dice uno degli eminenti teorici di questa corrente: «Il valore è una categoria non empirica che, in base alla sua essenza [sic!], non è materiale. [...] Esso deve attraversare diversi livelli di mediazione prima di apparire in una forma modificata sulla superficie dell'economia». [*12] Per un pensatore marxista che si vanta di essere un materialista si tratta di un'affermazione sorprendente! Il valore sembra quasi essere un concetto che aleggia nel cielo delle idee della teoria critica, a meno che non si tratti di uno spettro che infesta il capitalismo... Insomma, siamo in piena metafisica! Crediamo sia possibile dare una definizione materialista e concreta del concetto marxista di valore secondo cui: il valore è una nozione astratta che nasconde (nel senso sia di nascondere che di coprire) l'esperienza vissuta di espropriazione propria della dinamica del capitalismo industriale. Dal momento che questo spossessamento implica una perdita, esso non può essere misurato scientificamente, o valutato oggettivamente; ma viene soprattutto sentito e vissuto dalle persone nel corso dello sviluppo dell'economia capitalista. Questa esperienza vissuta è quindi sempre relativa ad un contesto storico-sociale specifico. Lo spossessamento è anch'esso una nozione negativa: si basa su diversi livelli di mediazione (salario, consumo, merce, ecc.) prima di poter apparire in una forma modificata sulla superficie dello spettacolo (abbondanza finta e avvelenata, sensazione superficiale di libertà fornita dal denaro, e di potere fornito dalla tecnologia, ecc.). Lo spossessamento è una perdita di potere sulla propria esistenza e sulle proprie condizioni a favore dei dispositivi capitalistici che catturano così l'attività autonoma degli individui, per far funzionare la macchina economica. «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.» [*13] Tutto ciò che gli individui ottenevano socialmente attraverso la loro attività autonoma è rimpiazzato da merci che ora devono essere comprato lavorando. A nostro avviso, il fatto centrale su cui poggia il capitalismo industriale consiste nell'espropriare gli individui di ogni potere sulle condizioni della loro esistenza. Come ha stabilito Karl Polanyi [*14], la specificità dell'economia politica del capitalismo industriale risiede nel fatto che per la prima volta nella storia, la sussistenza della società si trova in mani private, anziché essere la preoccupazione di tutti; e nel fatto che in generale, in tutte le attività sociali, «il movente del guadagno deve sostituire quello della sussistenza» [Polanyi, 1944, p. 69]. Questi sono i due pilastri su cui poggia l'intera dinamica del sistema: la proprietà privata dei mezzi di produzione (di fatto la monopolizzazione dei mezzi di realizzazione della sussistenza) polarizza tutta l'attività sociale verso la sola economia monetaria, cioè «la trasformazione della sostanza naturale e umana della società in merci» [Polanyi, 1944, p. 70]. «La conclusione, per quanto singolare, è inevitabile, poiché il fine ricercato non può essere raggiunto a meno che, è ovvio, la dislocazione causata da un tale dispositivo non rompa le relazioni umane e minacci di annientare l'habitat naturale dell'uomo» (ivi). Il concetto di valore, a partire dalla sua estrema astrazione e apparente scientificità, cancella sia il lato negativo del processo che l'aspetto concreto e soggettivo di ciò che viene distrutto. Lo spossessamento generato dall'industrializzazione di tutta la produzione, insieme alla mercificazione di tutti gli aspetti della vita sotto il capitalismo, è la faccia nascosta della falsa moneta del concetto - positivo, oggettivo, antistorico - di valore.

Un progressismo represso
Quando la WertKritik afferma che il capitale «crea del valore», la formula in realtà deve essere invertita: genera un ulteriore e generale spossessamento della società e l'isolamento e la crescente subordinazione degli individui alle macchine e alle merci, e attraverso ciò anche ai processi sempre più sfuggenti dell'economia. La creazione di valore è un fatto positivo per il capitale, ma non per noi che gli siamo sottomessi. Il concetto di valore, che prima Marx e poi, ancor di più, la WertKritik hanno fatto diventare un feticcio, permette di mantenere il carattere positivo della socializzazione e dell'industrializzazione della produzione. Questo è stato vero prima per Marx, il quale era un borghese progressista, e poi per i marxisti. Questi ultimi sono sempre stati fondamentalmente progressisti, difendendo «la crescita delle forze produttive» vista come condizione indispensabile per la trasformazione sociale. Le macchine e l'industria dovevano permetterci di passare dal «regno della necessità» al «regno della libertà», attraverso l'abolizione del lavoro e dello sfruttamento. I sostenitori della WertKritik hanno posizioni ambigue su questo argomento [*15]. Certo, hanno rinunciato a quella di teleologia rivoluzionaria che caratterizzava i loro predecessori, cioè che la rivoluzione sarebbe avvenuta inevitabilmente come risultato dello sviluppo delle contraddizioni tra «forze produttive e rapporti di produzione» proprie del sistema capitalista. Ma alcuni passaggi lasciano trasparire un certo fascino per il progresso tecnico, e in particolare per la «rivoluzione della microelettronica». E rimane il fatto che i sostenitori della WertKritik non hanno ancora fornito un'analisi critica del fenomeno sociale fondamentale degli ultimi trent'anni, vale a dire, l'informatizzazione della società e la digitalizzazione delle nostre vite. Al posto di un «futuro luminoso», non c'è altro orizzonte che una crisi senza fine e senza prospettive.

Una critica tronca
I sostenitori della WertKritik denunciano giustamente la «critica tronca del capitalismo» che si manifesta nelle varie frazioni della sinistra, sia classica che anticapitalista. Ma con il pretesto di non «formulare ricette per le pentole del futuro» (Marx), non hanno alcuna prospettiva politica da proporre. Tuttavia, se la critica è necessaria per dissipare le confusioni, nello stesso movimento, deve anche servire ad aprire la strada a concezioni più positive. Si può andare avanti e mordere davvero, solo a partire da tali punti di vista positivi, delineando a grandi linee un modo diverso di stare al mondo. Ora, la WertKritik è un'analisi critica della dinamica del capitalismo e, all'interno di questo sistema logico, essa non può indicare una via d'uscita, poiché tale via d'uscita può essere solo il risultato dell'azione umana che sfugge alla logica della valorizzazione astratta. Ora, la critica del lavoro che la WertKritik porta con sé rimane astratta, senza alcun ancoraggio alle necessità proprie della produzione di sussistenza nel contesto di un'organizzazione sociale. E purtroppo alcuni autori scrivono con lo stesso prepotente disprezzo che i progressisti hanno per le pratiche "alternative" e per i tentativi di creare relazioni sociali diverse [*16]. Non c'è peggior critica tronca del capitalismo di quella che non ha una prospettiva di lotta politica da proporre.

Per concludere
La WertKritik fa un'analisi critica delle dinamiche del capitalismo che è certamente molto accurata da un punto di vista formale e teorico, ma guadagnerebbe dall'essere meno astratta. Per farlo, dovrebbe abbandonare il suo concetto feticcio, il valore, e sostituirlo con lo spossessamento e con la storia dell'espropriazione del potere individuale e sociale sulla nostra esistenza. In retrospettiva, dopo due secoli di capitalismo industriale, è certamente più facile per noi oggi identificare i diversi stadi della colonizzazione degli aspetti della vita individuale e della società da parte delle sue macchine e delle merci di quanto non lo fosse stato ai tempi di Marx, quando il processo era agli inizi. Un tale lavoro analitico e storico sarebbe addirittura una cosa molto utile per capire meglio la storia economica e sociale, e per capire ancora più precisamente in che tipo di mondo viviamo oggi [*17].

- Bertrand Louart, novembre 2021. -

«Una critica del capitalismo senza una critica della società industriale è altrettanto insensata di una critica della società industriale senza una critica del capitalismo» (Jaime Semprun, "Le Fantôme de la théorie", 2003.)

NOTE:

[*1] - Michel Henry, Le socialisme selon Marx, ed. Sulliver, 2008.

[*2] - Vedi Rémi de Villeneuve, La société contre le système. Une critique freitagienne de la post-modernité, mai 2020.

[*3] -  Cfr. Pierre Musso, La religion industrielle, ed. Fayard, 2019.

[*4] - K. Polanyi, "L' obsoleta mentalità di mercato. Scritti 1922-1957"; Asterios, 2019; Cfr. Nicolas Eyguesier, "Note sulla nascita dell'industrialismo", in Notes & Morceaux choisis n°12, Retour sur la révolution industrielle, éd. La Lenteur, 2019.

[*5] - Vedi Pièces & Main d'œuvre, "5G: avis aux opposants sur les luttes de pouvoir au sein du parti technologiste", settembre 2020.

[*6] - H. Marcuse, Cultura e società, Einaudi, 1969.

[*7] - Pubblicato nella rivista ecologista di Lione Silence! n°192-193.

[*8] - Il problema di questa citazione sta nelle due parole "nell'assoluto", perché nessuno vive nell'assoluto. In pratica, le macchine stesse hanno bisogno di essere prodotte, mantenute, fornite di energia, ecc.

[*9] - Simone Weil, "Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale", Adelphi

[*10] - Pubblicato per la prima volta nel settembre 2003, "Il fantasma della teoria" è stato ripubblicato come appendice al libro di René Riesel e Jaime Semprun, "Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable", Encyclopédie des Nuisances, 2008.

[*11] -  Norbert Trenkle, Critique du travail et émancipation sociale (Critica del lavoro ed emancipazione sociale), risposta ai critici del "Manifesto contro il lavoro" del gruppo Krisis, settembre 2004, sezione "Capitalismo o società industriale? Trenkle sembra rispondere solo agli argomenti delle "Note sul Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis" (tradotto in tedesco) che è allegato alla fine del testo di Semprun.

[*12] -  Norbert Trenkle, "Che cos'è il valore?", giugno 1998, qui la mia traduzione.

[*13] - Debord, "La società dello spettacolo", 1967, §1.

[*14] - Karl Polanyi, “La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca", Einaudi

[*15] - Si veda Krisis, "Manifesto contro il lavoro" [1998], Derive Approdi.

[*16] - Vedi per esempio Roswitha Scholz, "Stendi il tuo manto, Maria. Produzione e riproduzione nella crisi del capitalismo", articolo pubblicato sulla rivista tedesca Phase 2 n°36, giugno 2010, e di cui si può leggere qui la mia traduzione.

[*17] -  A questo proposito, bisogna citare il libro di Anselm Jappe, "Béton, Arme de construction massive du capitalisme", éd. L’Echappée, 2020.

fonte: Et vous n’avez encore rien vu… Critique de la science et du scientisme ordinaire


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