«Esistono numerose condizioni necessarie perché si possa ricorrere alla nozione di volontà generale. Due, in particolare, meritano attenzione. La prima è che nel momento in cui il popolo prende coscienza di una delle sue volontà e la esprime non sia presente alcuna specie di passione collettiva. [...] Se un’unica passione collettiva si impadronisce di tutto un Paese, il Paese intero è unanime nel crimine. Se due o quattro o cinque o dieci passioni collettive lo dividono, il Paese sarà spaccato in varie bande criminali. Le passioni divergenti non si neutralizzano, come avviene per la polvere delle passioni individuali fuse in una massa. Il loro numero è decisamente troppo piccolo, la forza di ognuna è decisamente troppo grande, perché sia possibile una neutralizzazione. La lotta le esaspera. Si urtano con un clangore infernale, che rende impossibile sentire anche per un secondo la voce della giustizia e della verità, sempre quasi impercettibile. Quando un Paese è in preda a una passione collettiva, è probabile che qualunque volontà particolare sia più vicina alla giustizia e alla ragione della volontà generale, o piuttosto di ciò che ne costituisce la caricatura.
La seconda condizione è che il popolo sia chiamato a esprimere il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, e non solamente a operare una scelta di persone. Meno ancora la scelta di collettività irresponsabili. Poiché la volontà generale non ha alcuna relazione con una scelta di questo genere. Se nel 1789 c’è stata una certa espressione della volontà generale, nonostante si fosse adottato il sistema rappresentativo non sapendone immaginare un altro, questo è accaduto perché si era verificato qualcosa di ben diverso da un’elezione. Tutto ciò che c’era di vivo nel Paese - e il Paese straripava, a quel tempo, di vita - aveva cercato di esprimere il proprio pensiero attraverso l’organo dei cahiers de revendications. I rappresentanti si erano in gran parte fatti conoscere nel corso di questa cooperazione del pensiero: ne serbavano il calore, sentivano il Paese attento alle loro parole, ansioso di controllare se queste traducessero con esattezza le sue aspirazioni. Per qualche tempo - poco tempo - furono veramente semplici organi di espressione del pensiero pubblico. Un simile fatto non si sarebbe prodotto mai più. La sola enunciazione di queste due condizioni indica che non abbiamo mai conosciuto nulla che assomigli, neppure da lontano, a una democrazia. Nella cosa a cui attribuiamo questo nome, in nessun caso il popolo ha l’occasione o i mezzi di esprimere un parere su alcun problema della vita pubblica. E tutto ciò che sfugge agli interessi particolari è dato in pasto alle passioni collettive, le quali sono sistematicamente, istituzionalmente incoraggiate.»
(Simon Weil, da "Appunti sulla soppressione dei partiti politici". Castelvecchi)
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