Questo è un libro sulla storia dei libri: libri di fumo, di pietra, di argilla, di giunchi, di seta, di pelle, di alberi e, ultimi arrivati, di plastica e di luce. Ma è anche un libro di viaggio che percorrendo le rotte del mondo antico fa tappa tra i canneti di papiro lungo il Nilo, sui campi di battaglia di Alessandro, tra le stanze dei palazzi di Cleopatra, nella Villa dei papiri di Ercolano prima dell’eruzione del Vesuvio, sul luogo del delitto di Ipazia, e poi nelle scuole più antiche dove si insegnava l’alfabeto, nelle prime librerie e nei laboratori di copiatura manoscritta, fino ad arrivare davanti ai roghi dove sono stati bruciati i libri proibiti, ai gulag, all’incendio della biblioteca di Sarajevo e ai sotterranei labirintici di Oxford. Papyrus è un racconto personalissimo, dove l’esperienza autobiografica si intreccia a evocazioni letterarie e a storie antiche, e dove un filo invisibile collega i classici con il frenetico mondo contemporaneo e i dibattiti più attuali: Erodoto e i “fatti alternativi”, Aristofane e i processi agli umoristi, Tito Livio e il fenomeno dei fan, Saffo e la voce letteraria delle donne, Seneca e la post-verità. Ma questo libro è soprattutto una favolosa avventura collettiva che ha come protagoniste le migliaia di persone che nel corso del tempo hanno salvato e protetto i libri: cantori, scribi, miniatori, traduttori, venditori ambulanti, insegnanti, maestri, spie, ribelli, suore, schiavi, avventurieri... lettori al riparo delle montagne o di fronte al mare in tempesta, nelle grandi capitali dove l’energia si concentra o nelle comunità più remote dove il sapere si rifugia quando infuria il caos.
(dal risvolto di copertina di: Irene Vallejo, "Papyrus. L’infinito in un giunco. La grande avventura del libro nel mondo antico". Bompiani, pagg. 576, € 24)
L’avventura ebbe inizio in biblioteca
- «Papyrus» è un meraviglioso affresco su come l’umanità abbia tramandato memoria, sapere e pensieri attraverso rotoli e codici -
di Luigi Sampietro
Niente di nuovo sotto il sole; ma è una bella, bellissima giornata. Fuor di metafora, di quel che si parla nel volumone di Irene Vallejo, Papyrus, tradotto dallo spagnolo in 30 lingue e in cima alla lista dei libri più venduti in diversi Paesi, credo che i professori di greco e di latino sappiano già tutto. Ma non i lettori. Ed è invece ai lettori che chiunque scriva si rivolge, o dovrebbe rivolgersi, in primo luogo. Sempreché, beninteso, non si tratti di materia scientifica, ovvero di ipotesi o nuove teorie da sottoporre al vaglio di chi se ne intende.
I lettori “comuni” - gli unici che abbiano diritto a questo nome, essendo gli altri, quelli “non comuni”, da noverare come compagni di viaggio o concorrenti di chi scrive - sono infatti quelli che pagando di tasca propria acquistano il diritto di essere informati in maniera adeguata.
Il guaio è che molto spesso un libro di saggistica, e cioè di riflessione su di un dato argomento, che non sia scritto nel gergo iniziatico di una qualche setta o corporazione - e magari con una sintassi che ha l’effetto di un diserbante - è visto come un sottoprodotto. Un’opera di divulgazione. Come se, da Bertrand Russell a Paul Tillich, e da Mario Praz a Panfilo Gentile e Cesco Vian non ci fossero esempi di libri di “haute culture” concepiti e messi in opera in un linguaggio comprensibile da chiunque sappia leggere e scrivere (con la riserva, beninteso, di andare poi a cercare sul dizionario le parole di uso non proprio comune).
Irene Vallejo è una filologa classica con tutti i quarti di nobiltà richiesti per parlare in maniera autorevole, e non per sentito dire, del mondo antico. Ed è anche particolarmente versata nell’arte della comunicazione. Si esprime in maniera elegante e soprattutto precisa, con garbo e talora quasi con civetteria; consapevole sempre che il compito di chi scrive non è di compiacere il lettore abbassandosi, bensì di conquistarlo elevandone la mente e lo spirito.
Papyrus non è un trattato e non ha una tesi da dimostrare, salvo il fatto che noi - a differenza, per fare un esempio, di importanti civiltà come quella degli inca che non conosceva la scrittura così come ora la si intende - siamo quel che siamo, nel bene e nel male, grazie alle biblioteche. Cioè, ai libri. Parola generica, dal latino librum, con la quale si indicava la parte più interna e morbida della corteccia, che nel papiro e nel lino si presenta sotto forma di lamina fibrosa. Adatta per scriverci sopra.
Il Papyrus della Vallejo è molte cose messe insieme, compreso un dialogo socratico tra sé e sé a proposito dei vari argomenti, ed è soprattutto un racconto. La storia meravigliosa di come, fin dalla notte dei tempi, i nostri antenati siano riusciti a serbare memoria di se stessi e poi a condividere, cioè comunicare, il visibile e l’invisibile - i pensieri e le emozioni - prima con la voce e poi per iscritto su una quantità di supporti diversi. Il fumo, la pietra, la terra, la terracotta, le foglie, i giunchi, la seta, la pelle, gli alberi e poi gli stracci che diventano carta; e, infine, la luce che proviene dall’interno del moderno e-book.
In principio fu Omero con i suoi canti epici. E tuttavia - precisa la Vallejo - «più che un inizio Omero è stato un finale». Appartiene a un’epoca in cui l’espressione letteraria era soltanto orale, «i poemi venivano recitati in pubblico e ogni poeta poteva servirsi in libertà dei miti e dei canti della tradizione, ritoccarli, sbarazzarsi di ciò che non piaceva, incorporarvi altri personaggi e avventure, e perfino versi che magari aveva ascoltato da altri cantori».
Non c’era il copyright e si può supporre che quei «poeti analfabeti abbiano creato centinaia di opere perdute per sempre». Ma con l’avvento della scrittura, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., «niente fu più come prima». A Socrate, per fare un esempio, la cosa non piacque; perché - diceva - avrebbe impedito al lettore di interloquire come a lui invece piaceva che facessero i suoi ascoltatori nelle taverne e sulla pubblica piazza.
Ma tant’è. Quel che seguì alla fatale invenzione è un percorso che arriva fino a noi e che la Vallejo fa iniziare in medias res, con la costruzione della biblioteca di Alessandria. Il tentativo di accumulare lo scibile universale in un solo edificio e a un prezzo difficilmente immaginabile oggi, se solo si pensa che ogni rotolo di papiro, non esistendo la stampa, doveva essere copiato a mano da uno scrivano.
L’età della scrittura era cominciata, seppure per scopi non propriamente letterari, attorno al 5000 a.C. con i sumeri della Mesopotamia ed era continuata con gli antichi egizi. Ma entrambi i casi - scrittura cuneiforme e geroglifici - presentavano un inconveniente. Erano infatti migliaia i simboli che gli scribi dovevano tenere a mente e pochissimi erano in grado di farlo.
La svolta avvenne con i fenici. Inventarono l’alfabeto. La trascrizione fonetica - i suoni di un certo numero di consonanti - in luogo dei segni che si rifacevano al disegno idealizzato dell’oggetto da rappresentare. La casta degli scribi perdette gran parte del suo potere e a copiare i libri furono adibiti gli schiavi. Sapienti ma inoffensivi.
E però questo non è che il seme - il dato di partenza - di un libro ricco di informazioni e curiosità su di un mondo che la Vallejo ripulisce con sapida disinvoltura dalla polvere del pregiudizio; e del quale trarrà profitto sia chi, a scuola, i classici greci e latini non li ha studiati, sia chi, avendo frequentato il classico con tutt’altro per la testa, non si fosse reso conto della rara perla che aveva davanti a sé. Leggere per credere.
- Luigi Sampietro - Pubblicato su La Domenica del 5 dicembre 2021 -
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