Messico, 1910 circa. Cándido Castro, indiano tsotsil del Chiapas, in seguito a una serie di sfortunati eventi, si ritrova a lavorare come taglialegna nei campi di mogano di una famiglia di latifondisti e sfruttatori dei nativi indiani, i quali vengono persino puniti appesi per le membra se non abbattono le quattro tonnellate giornaliere di legname richieste, e tutto per un mero capitalistico profitto… Nella dimensione via via sempre più corale del romanzo, i dannati del regno del mogano – guidati da Modesta, Celso, il Professore, il Generale e altri – si ribelleranno per riprendersi la libertà, la terra, la propria vita, al grido rivoluzionario di “Tierra y Libertad”!
(dal risvolto di copertina di: B. Traven, "La rivolta degli appesi". WoM Edizioni pagg. 256, euro 20.)
Bloody Mexico
- di Gabriele Romagnoli -
I soliti ignoti. E poi: I soliti sospetti. I titoli di due diversamente grandi film per proiettare l’ombra dello pseudonimo letterario. Un espediente o una necessità? Un gioco o una trovata di marketing? Basta affacciarlo e nasce “il caso”. Best seller, premi Planeta, enigmi che durano decenni e non vengono svelati. Chi era Geoffrey Holiday Hall di cui è nota la fine, ma nient’altro? Ma soprattutto: chi era veramente lo scrittore B.Traven? Un attore tedesco? Il suo stesso agente? Un presidente del Messico? Jack London redivivo? Una scatola cinese che contiene l’uno e gli altri? Come sempre si rischia di parlare più dell’autore che non c’è che del libro, che invece c’è. E non è chiaro se questo provocherebbe piacere o disgusto al presunto B. Traven che ammoniva: a) «le persone creative non dovrebbero avere altra biografia che i loro lavori»; b) «odio i recensori che non sanno nulla del libro di cui parlano».
Lasciamo dunque B. Traven alla copertina, alla passione di Einstein, alla reinvenzione come W. M. Straka da parte di J.J. Abrams (ma un nome per intero mai?) ed entriamo nelle pagine della Rivolta degli appesi, un testo pubblicato per la prima volta nel 1936, mentre il Messico era sotto la dittatura di Porfirio Diaz. Scritto in tedesco e tradotto in spagnolo dall’inglese. O viceversa. Sempre viceversa, con Traven.
Invertendo l’ordine dei fattori il romanzo non cambia. È, anch’esso, una scatola cinese. Dentro la narrativa c’è un manuale per l’insurrezione senza prigionieri né scrupoli di coscienza. Dentro le immagini spaghetti western galoppa già il Tarantino di Bastardi senza gloria più ancora che di Django. Qualche personaggio crede ancora in molte cose, qualche altro è già al punto in cui crede solo nella dinamite. È una storia in modo quasi classico, di oppressioni crudeli che altrove hanno per vittima gli schiavi importati dall’Africa all’America, i colonizzati, gli emigrati, i diversi. Qui, gli indiani del Chiapas, turlupinati e indotti a lavorare nella giungla per ottenerne l’oro scuro: il mogano. Zeropagati, umiliati e offesi, torturati e appesi. Questo è il supplizio finale inventato da un padrone sadico e fantasioso, uno dei tre fratelli Montellano.
Chi non produce abbastanza, non tace o non piace abbastanza, viene appeso di notte a testa in giù. Viene cosparso di sale o miele per attirare gli insetti che lo dilaniano, gli vengono praticati tagli sulla pelle per spianare la strada. E l’indomani: a lavorare, dove certamente raggiungerà la quota di produzione richiesta. Non basta. Ci sono orecchie mozzate (anche a bambini), donne stuprate in pubblico, annegati, sgozzati, ridotti in poltiglia e dati in pasto a cani e cinghiali. È una violenza manichea, sta tutta dalla parte dei padroni ed è cieca, sragionata, perpetrata da chi all’altro non riconosce la dignità né di essere umano né di essere vivente.
È necessaria questa messinscena? Traven pensa di sì, perché la sua storia e ancor più la sua causa hanno bisogno di raggiungere il limite per trovare l’innesco. Scrive: «Per quanto brutalmente e spietatamente le persone possano essere oppresse, per quanto sia possibile renderle stupide a parole, sventolando stracci colorati e facendo loro udire lo strepito di trombe e tamburi si giunge sempre a un limite in cui né violenza, né brutalità, né la maestà divina né il culto dell’eroe hanno più effetto… quando lo schiavo comincia ad avere coscienza, allora il limite è già stato oltrepassato. L’uomo perde qualsiasi ragionevolezza e si comporta come una bestia, come un bruto, per recuperare la sua dignità di uomo». È esattamente quel che accade. Non una crudeltà di troppo, ma una piccola consapevolezza in più è la miccia che accende la ribellione e si propaga da persona a persona, da regione a regione, fino a bruciare il Paese. I metodi della rivalsa sono da legge del taglione. Si infligge una sofferenza pari, se non accresciuta. Si appende il padrone, si massacrano i suoi sgherri, si ruba, si incendia. Ma Traven offre legittimazione logica e cronologica: hanno cominciato gli altri, hanno prodotto loro questa situazione, meritano quel destino.
Se fosse stato London sarebbe stato quello del Popolo degli abissi. Se fosse stato il presidente Lopez Mateos avrebbe governato ben diversamente. Quanto al lettore, può misurarsi con la propria reazione, verificando se soffre quando sono martoriati i poveri ed esulta o si sente pacificato quando tocca ai ricchi. Se condivide questa esortazione: «Sfortunato colui che dimentica un colpo ricevuto! Sfortunati tre volte coloro che, evitando la lotta, non restituiscono colpo per colpo». Non un cristiano, dunque, Traven. Si può capire la sua regola, ma anche segnalare una piccola immensa eccezione di tre sillabe: Man-de-la. «Le vere rivoluzioni mirano alla giustizia, senza fronzoli e senza maschere». Mirano all’elevazione del popolo, ma con gli strumenti del passato. Lì spesso inciampano e finiscono appese alla storia. Resta la passione, la stessa con cui si legge Traven, non importa chi fosse.
- Gabriele Romagnoli - Pubblicato su Robinson del 15/1/2022 -
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