Spartaco il primo partigiano
- di Luciano Canfora -
In una lettera molto nota e molto citata, Karl Marx definisce Spartaco «autentico rappresentante (real representative) dell'antico proletariato» (27 febbraio 1861, a Engels). Perché si esprime così efficacemente e impegnativamente? Scartata l’idea che si tratti di una sortita estemporanea (ipotesi del tutto arbitraria anche se piuttosto diffusa), quelle parole vanno prese sul serio al fine di comprendere cosa rappresentasse, per Marx, Spartaco e cosa significasse, per lui, la vicenda della insurrezione schiavile avviata dai gladiatori di Capua, capeggiata da Spartaco (tracio) e da Crisso (gallico), durata ben tre anni (73-71 a.C.) e risultata vittoriosa su numerosi eserciti della Repubblica imperiale romana.
Naturalmente siamo consapevoli che, ciò dicendo, offendiamo alcuni recenti pregiudizî, il più arbitrario dei quali è che quella di Spartaco non fu una insurrezione di schiavi. Ci sono, si sa, molte forme di revisionismo storico: alcune molto ben fondate e apprezzabili, altre maliziose, altre semplicemente superficiali. La «revisione» alla quale ci riferiamo rientra in quest’ultimo gruppo.
Ma torniamo al punto da cui siamo partiti. Marx legge, in quei giorni, il primo libro delle Guerre civili dello storico egiziano di lingua greca Appiano di Alessandria, ed è il ritratto tracciato da Appiano della persona e dell’opera di Spartaco che Marx ha sott’occhio quando scrive: «Lì (cioè nell’opera di Appiano) Spartaco appare come l’autentico rappresentante dell’antico proletariato».
Come mai il racconto di Appiano ha suscitato, in Marx lettore, tale valutazione? Si possono proporre alcune risposte. Una soprattutto. Appiano ci fa sapere che Spartaco, prima di essere catturato, deportato in Italia e venduto come schiavo-gladiatore, era stato fra le truppe ausiliarie di una legione romana, «incorporato nell’armata romana». (Forse aveva disertato, comunque era stato catturato e reso schiavo.) A ciò si aggiunga che Spartaco, come schiavo «di particolare prestanza fisica e coraggio» (ingens virium atque animi, dice di lui Sallustio, il quale aveva sedici anni quando Spartaco sembrava avere in pugno l’Italia), fu presto esibito, a Capua, come gladiatore: cioè addestrato, ancora una volta, all’uso delle armi (sia pure, questa volta, delle armi tipiche dei feroci duelli tra gladiatori). Ed è anche questo aspetto - l’immediato utilizzo di Spartaco, ormai schiavo, come gladiatore - che Appiano pone in rilievo subito dopo aver dato la notizia dell’inquadramento di Spartaco nell’esercito romano. Più fortunato di Spartaco, Arminio, «liberator Germaniae», aveva anche lui militato nelle legioni romane, e aveva sconfitto, a Teutoburgo, le mire romane sulla Germania. Ne risulta — nel caso di Spartaco — una figurazione, quasi da manuale della lotta di classe, delle premesse favorevoli all’insurrezione, innescata (è bene ricordarlo) da 74 gladiatori a lui fedeli. (Un pugno di uomini può molto: Trasibulo ateniese nel 404 a.C. mosse contro la dittatura oligarchica installata dagli Spartani in Atene con appena 70 uomini. E non molti di più furono i primi seguaci di Fidel Castro.) La figurazione, che vale anche per Arminio, è di immediata evidenza: i padroni — prima l’apparato militare romano, poi la feroce scuola gladiatoria — hanno messo, proprio loro, nelle mani di Spartaco e dei suoi compagni le armi che a loro volta essi hanno adoperato, ribellandosi, contro i padroni e contro le legioni che via via la terrorizzata Repubblica imperiale inviava contro di loro.
È esattamente ciò che, nell’analisi di Marx, «il capitale» fa, in quanto crea, nella catena produttiva tesa al sempre maggior profitto, il suo «becchino» (come scrive al termine del primo capitolo del Manifesto), cui fornisce «le armi» che costui rivolgerà contro chi lo sfrutta. Acquisita, beninteso, la coscienza della propria condizione e dell’insensatezza del meccanismo in cui lo «sfruttamento» degli uni e il «profitto» degli altri sono indissolubilmente legati.
La presa di coscienza dello sfruttato è dunque il passaggio necessario. E infatti le parole - riferite da Appiano - con cui Spartaco convince i compagni sono il segno della presa di coscienza: «Dobbiamo rischiare la vita (ciò che i gladiatori fanno di continuo con le armi fornite dai padroni) per la libertà, non più per dare spettacolo e divertimento» ai padroni.
Marx adopera poi una parola molto impegnativa quando scrive «rappresentante dell’antico proletariato». Apriti, cielo. Quante gaffe tutte insieme ha commesso quest’uomo! E non si è reso conto di quante sofisticate prose accademiche tardo-novecentesche ce l’hanno messa tutta per dimostrare che gli schiavi non erano una classe sociale e che chi sa cos’erano? e che, comunque, meglio sofisticare che leggere le fonti? In realtà i sofisticati neofiti combattono contro i mulini a vento. È ovvio, infatti, che gli schiavi in rivolta, nelle antiche società schiavistiche, non puntano ad instaurare «l’Ordine Nuovo», puntano, come diceva Spartaco, alla «libertà». Il che, nelle rivolte schiavili siciliane dell’ultimo trentennio del II secolo a.C., significò auto-organizzarsi creando un «regno degli schiavi» nelle aree dell’isola da loro controllate, mentre nel caso di Spartaco e dei suoi significava andarsene dall’Italia e raggiungere paesi fuori della tenaglia strangolatoria della Repubblica imperiale romana. Resta il fatto che, definendo «proletariato antico» il referente sociale dell’esercito ribelle di Spartaco, Marx proponeva anche una lettura, degna di nota, dell’articolazione sociale delle società antiche a base schiavistica. Ricorreva a una analogia diagnostica. I moderni che gli fanno la lezione non hanno compreso il senso delle sue parole.
Possiamo aggiungere un dettaglio forse non irrilevante. Nella stessa pagina in cui ci dà le altre informazioni di cui s’è detto, Appiano dà anche una spiegazione del grande successo di Spartaco e in particolare dell’afflusso sotto le sue insegne di «molti schiavi in fuga dai loro padroni e di alcuni contadini (di condizione libera)»: lo seguivano - scrive - perché egli aveva instaurato la «suddivisione paritaria del bottino» (isomoiria è la parola che adopera Appiano). Una forma dunque di comunismo elementare, come strumento di auto-organizzazione di un esercito di partigiani, di combattenti che debbono alimentarsi prelevando risorse vitali dal territorio che attraversano (e che non sempre risponde favorevolmente). Anche nelle bande partigiane italiane nella guerra di Liberazione vigerà quella isomoiria. La celebre e istruttiva conferenza di Carl Schmitt, Teoria del partigiano, se il mondo antico non fosse un orto separato nel campo degli studi, avrebbe utilmente potuto partire proprio da Spartaco.
- Luciano Canfora - Pubblicato sul Corriere del 2/12/2021 -
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