sabato 26 settembre 2015

La crisi del lavoro

trenkle

Cos'è il valore?
- di Norbert Trenkle -

La gamma di questioni che vorrei dibattere è molto ampia. E va dal livello più fondamentale della teoria del valore, o meglio della critica del valore - cioè, il livello delle categorie fondamentali della società produttrice di merci: lavoro, valore, merci, denaro - fino al livello in cui queste categorie fondamentali appaiono reificate e feticizzate, apparentemente come fatti "naturali" e "coercizioni oggettive". A questo livello - quello del prezzo, del profitto, del salario, della circolazione ecc. - vengono alla luce, allo stesso tempo, apertamente, le contraddizioni interne alla moderna società della merce; qui, si dimostra la sua fondamentale insostenibilità storica: vale a dire, sotto la forma della crisi. E' ovvio che qui, nella brevità che mi è concessa, non posso fornire altro che uno schizzo, ma spero di riuscire a rendere comprensibili le correlazioni essenziali.
Per stabilire un punto di partenza, vorrei cominciare con una categoria che viene comunemente accettata come una condizione del tutto ovvia dell'esistenza umana; il "lavoro". Questa categoria rimane in gran parte non problematizzata nemmeno nel Capitale di Marx, e viene introdotta come caratteristica antropologica che vale per qualsiasi società in ogni luogo e in ogni tempo. "Come creatore di valore d'uso", scrive Marx, "come lavoro utile, il lavoro è una condizione dell'esistenza umana, indipendente da ogni forma di società, eterna necessità naturale per la mediazione del metabolismo fra l'uomo e la natura, e, pertanto, della vita umana".
Tuttavia, per Marx la categoria "lavoro" non è del tutto senza problemi come appare in questa citazione. Altrove, soprattutto nelle opere definite di gioventù, egli adotta toni ben più critici. In una manoscritto che è stato pubblicato soltanto nel 1972, una critica all'economista tedesco Friedrich List, parla espressamente del superamento del lavoro visto come presupposto per l'emancipazione. Scrive: "Il 'lavoro' per la sua stessa natura è attività non-libera, disumana, asociale, determinata dalla proprietà privata e che crea proprietà privata. Quindi l'abolizione della proprietà privata diverrà una realtà solo quando essa verrà concepita come abolizione del 'lavoro'". Anche nello stesso Capitale vi sono certi passaggi che ci ricordano ancora questa comprensione originaria. Tuttavia, non voglio entrare qui nelle ambivalenze di Marx in relazione al "lavoro" (su questo, ad esempio, vedi Robert Kurz, 1995), ma vorrei andare direttamente alla questione di cosa si tratti in questa categoria. Il "lavoro" è di fatto una costante antropologica? Possiamo fare di esso un punto di partenza non-problematico ai fini di un'analisi della società della merce come tale? La mia risposta è un inequivocabile no.

Marx distingue fra lavoro astratto e concreto e designa, in questo modo, il duplice carattere specifico del lavoro nella società produttrice di merce. Con questo suggerisce (e lo dichiara anche esplicitamente) che soltanto al livello di questa duplicità, o scissione, si realizza un processo di astrazione. Il lavoro astratto è astratto in quanto non tiene conto della proprietà materiali concrete e peculiari di ciascuna delle sue attività specifiche - che si tratti di attività di sarto, di falegname o di macellaio - riducendole ad un terzo termine comune. Qui, però, Marx trascura (ed il marxismo comunque non ha sviluppato una qualsivoglia coscienza che problematizzi su questo piano) che il lavoro, in quanto tale, è già un'astrazione. Non, ovviamente, una semplice astrazione del pensiero,quali sono albero, animale o pianta, ma una potente astrazione reale, imposta storicamente, che coapta le persone con il suo potere violento. Astrarre, letteralmente significa sottrarre o sottrarre da qualcosa. In questo senso il lavoro è un'astrazione, quindi, è una sottrazione/separazione di che cosa? Ciò che è sociale e storicamente specifico nel lavoro, evidentemente non è il fatto che le cose in generale siano prodotte e realizzate attraverso attività sociali abbastanza diverse. Questo, di fatto, deve farlo ogni società. La cosa peculiare è la forma in cui questo avviene nella società capitalista. Per questa forma sociale, è essenziale che il lavoro sia già in partenza una sfera separata, staccata dal resto del contesto sociale. Chi lavora lavora soltanto e non fa niente di diverso da questo. Rilassarsi, divertirsi, seguire i propri interessi, incontrarsi ecc., tutto questo deve avvenire fuori dal lavoro, o quanto meno non può avere un effetto perturbatore sui processi funzionali pienamente razionalizzati. E' naturale che questo non possa mai riuscire del tutto, in quanto l'uomo, nonostante l'addestramento secolare, semplicemente non può essere totalmente convertito in una macchina. Ma qui si parla solo di un principio strutturale che empiricamente non avviene mai in tutta la sua purezza - sebbene il processo empirico del lavoro corrisponda già, in forma molto ampia, almeno nell'Europa Centrale, a questo terribile ideale. Per tale ragione, quindi, sulla base dell'esclusione di ogni momento di non-lavoro dalla sfera del lavoro, l'imposizione storica del lavoro cammina insieme alla formazione esterna di sfere sociali sempre più separate, nelle quali questi momenti intermedi sono banditi; sfere che acquisiscono, esse stesse, un carattere esclusivo (laddove viene enfatizzato il senso della parola esclusione, in espulsione): tempo libero, privacy, cultura, politica, religione, ecc.

La condizione strutturale essenziale per questa scissione del contesto sociale, è la moderna relazione di genere, con i suoi attributi dicotomizzati e gerarchizzati fra mascolinità e femminilità. La sfera del lavoro cade inequivocabilmente nel regno del "maschile", cui i requisiti soggettivi rimandano, e che in questo regno si trovano collocati: razionalità funzionale astratta, oggettività, pensiero formale, orientamento alla concorrenza, ecc.; requisiti che ovviamente anche le donne fanno loro se desiderano "essere qualcuno" nella professione. Però, questo regno del maschile può esistere strutturalmente soltanto sul fondale del regno scisso del femminile, collocato in posizione inferiore. In questo regno, l'uomo lavoratore può rigenerarsi, poiché qui la sposa-donna di casa fedele e disponibile si prende cura del suo benessere fisico ed emotivo. Questo contesto strutturale, che l'ideologia borghese fin da sempre ha idealizzato e romanticizzato (in innumerevoli glorificazioni pompose della sposa e madre amorevole e disposta al sacrificio), è stato analizzato più che a sufficienza nell'approccio femminista degli ultimi 30 anni. In questo senso, si può senza dubbio sostenere la tesi per cui il lavoro e la moderna e gerarchica relazione di genere sono inseparabilmente intrecciati. Entrambi sono principi strutturali di base dell'ordine sociale borghese della merce.

Non posso continuare questa discussione in riferimento a tale contesto, in quanto il tema del mio discorso riguarda, in realtà, le mediazioni specifiche e le contraddizioni inerenti al regno del lavoro, della merce e del valore, strutturale e storicamente occupato dal maschile. Vorrei tornare sul tema. Prima, avevo considerato come il lavoro, in quanto forma specifica dell'attività nella società della merce, è già di per sé astratto in quanto costituisce una sfera separata/astratta del contesto sociale residuo. E, come tale, esiste soltanto in generale laddove la produzione di merci è già diventata la forma dominante di socializzazione; cioè, nel capitalismo, dove l'attività umana sotto forma di lavoro non serve ad alcuna altra finalità che non sia la valorizzazione del valore.

Tuttavia, le persone non entrano in questa sfera del lavoro per loro libera volontà. Lo fanno perché sono state separate dai mezzi di produzione e di esistenza più elementari, in un processo storico lungo e sanguinoso, ed ora possono sopravvivere solamente se si vendono per un certo tempo, o più esattamente, se vendono la loro propria energia di vita per un fine esterno ed indifferente, come forza lavoro. Ciò significa, quindi, che il lavoro in principio è una sottrazione elementare di energia di vita ed è, quindi anche, in tal senso, un'astrazione altamente reale. Proprio così, del resto, si dà l'equazione: lavoro=sofferenza, che ci riporta al significato originale del verbo lavorare.

Alla fine, però, l'astrazione predomina nella sfera del lavoro anche sotto la forma di un regime temporale molto specifico, ossia, lineare-astratto ed omogeneo. Quello che conta, l'oggettivamente misurabile, quindi è il tempo separato dalla percezione, dal sentire e dal vivere soggettivo degli individui che lavorano. Il capitale li affitta per un periodo di tempo ben definito, ed in questo periodo di tempo essi devono produrre un output massimo di merci o di servizi. Ciascun minuto che essi non spendono per questo, è, dal punto di vista dell'acquirente della merce forza lavoro, uno spreco. Ciascun minuto individuale è prezioso e conta, in questo senso, in maniera uguale in quanto esso rappresenta letteralmente valore potenziale.

Storicamente, l'imposizione del regime di tempo lineare-astratto ed omogeneo rappresenta una delle fratture più gravi in relazione a tutti gli ordini sociali pre-capitalisti. Com'è noto, c'è stato bisogno di molti secoli di aperta coercizione e di utilizzo della violenza affinché la massa di persone interiorizzasse una simile forma referenziale del tempo senza metterla più in discussione; e cominciassero la giornata in maniera puntuale, ad un determinato orario, in fabbrica o in ufficio, lasciassero la vita fuori dal cancello e si sottomettessero per una parte ben delimitata del loro tempo al ritmo regolare di processi funzionali di produzione predeterminati. Questo fatto ben noto di per sé dimostra da solo quanto poco ovvia sia la forma di attività sociale imposta sotto il nome di lavoro.

Se il lavoro in quanto tale, quindi, non è una costante antropologica, ma è esso stesso un'astrazione (per quanto sia una suprema e potente astrazione sociale), questo che cosa ha a che vedere con il duplice carattere del lavoro che è rappresentato nelle merci, così come Marx lo analizza, e che forma la base della sua teoria del valore? Com'è noto, Marx afferma che il lavoro produttore di merci ha due aspetti: uno concreto, ed uno astratto.

Come lavoro concreto, esso è quello che forma i valori d'uso, cioè, è il produttore di determinate cose utili. Come lavoro astratto, al contrario, esso è dispendio di lavoro in generale, quindi di lavoro al di là di qualsiasi determinazione qualitativa. Esso forma, in quanto tale, il valore rappresentato nelle merci. Cosa rimane, però, al di là di ogni determinazione qualitativa? L'unica qualità che tutti i diversi tipi di lavoro hanno in comune, se si astrae dal loro aspetto materiale-concreto, è il fatto di essere specie differenti di dispendio di tempo di lavoro astratto. Il lavoro astratto è, allora, la riduzione di tutti i lavori produttori di merce ad una tale denominazione comune. La riduzione li rende comparabili e quindi mutuamente interscambiabili, riducendoli a quantità puramente astratta reificata di tempo passato. Come tale, il lavoro costituisce la sostanza del valore.

Quasi tutti i teorici marxisti hanno inteso questa determinazione concettuale, per niente ovvia, come definizione contorta di un dato antropologico, quasi una legge naturale, ruminandola come tale in maniera irriflessiva. Non hanno mai capito che Marx abbia fatto un così grande sforzo nel primo capitolo de Il Capitale - il quale è stato riscritto molte volte - e perché abbia "oscurato", attraverso un linguaggio hegeliano, senza alcun bisogno un assunto apparentemente così plausibile. Era talmente ovvio il lavoro, per il marxismo, appariva loro talmente auto-evidente che esso produceva valore in un senso assolutamente letterale, così come il fornaio cuoce il pane, ed il tempo di lavoro passato, come qualcosa di morto, si conserva nel valore.

Anche in Marx stesso non è chiaro, però, che lo stesso lavoro astratto presuppone, logicamente e storicamente, il lavoro come forma specifica di attività sociale; che questo è quindi l'astrazione di un'astrazione; o detto in altro modo, che la riduzione di un'attività in unità di tempo omogenee presuppone l'esistenza di una misura astratta del tempo che domini la sfera del lavoro in quanto tale. Non sarebbe mai entrato nella testa di un contadino medievale, ad esempio, l'idea di portare a termine il raccolto, nei suoi campi, misurando le ore ed i minuti, e non perché egli non possedeva un orologio, ma perché quell'attività si scioglieva e si integrava nel suo contesto di vita, e la sua astrattizzazione temporale non aveva alcun senso.

Nonostante Marx non chiarisca a sufficienza la relazione del lavoro in sé con il lavoro astratto, non lascia tuttavia alcun dubbio sulla completa follia di una società in cui l'attività umana, ossia un processo vivo, si coagula sotto forma di cosa e si erige, come tale, a potere sociale dominante. Marx ironizza sull'idea comune per cui questo sarebbe un fatto naturale. Quando, per esempio, si oppone alla teoria del valore positivista dell'economia classica, nota che: "Finora, nessun chimico ha scoperto valore nelle perle o nei diamanti". Se Marx, in questo modo, mostra che il lavoro astratto costituisce la sostanza del valore e che quindi si determina la grandezza del valore attraverso la media del tempo speso, allora esso non ricade, in nessuna maniera, nella visione fisiologica e naturalistica dell'economia classica, come dimostra nel suo libro "La Scienza del Valore", il mio collega Michael Heinrich. Come la parte migliore del pensiero borghese a partire dall'Illuminismo in generale, l'economia classica comprende in una certa qual misura le relazioni borghesi, ma solo per dichiararle in seguito, tuttavia, come "ordine naturale". Marx critica tale ideologizzazione delle relazioni dominanti in quanto le decifra come riflesso feticista di una realtà feticista. Egli mostra che il valore ed il lavoro astratto non sono mera immaginazione, che devono solo essere tolti dalla testa delle persone. Ma, nelle condizioni del sistema del lavoro e della moderna produzione di merci - sempre presupposte e che costituiscono il loro pensare ed il loro agire - i loro prodotti appaiono ad essi come espressioni reificate del tempo di lavoro astratto, come se fossero una forza naturale. Le loro stesse relazioni sociali diventano, per gli uomini borghesi, una "seconda natura", come appropriatamente Marx formula. In questo consiste il carattere di feticcio del valore, della merce e del lavoro.

Per questa forma impazzita di astrazione, Alfred Sohn-Rethel ha coniato il concetto di astrazione reale. Con questo concetto, egli intendeva denominare un processo di astrazione che non viene eseguito attraverso la coscienza delle persone come atto del pensiero, ma che viene presupposto nel pensare e nell'agire come struttura apriori della sintesi sociale, la quale essa determina. Per Sohn-Rethel. l'astrazione reale era, però, identica all'atto di scambio; essa domina pertanto laddove le merci si confrontano nella connessione funzionale del mercato. Solo qui, secondo il suo argomento, il disuguale diventa uguale, cose qualitativamente diverse vengono ridotte ad un terzo termine comune: al valore o al valore di scambio. Quindi, in cosa consiste questo terzo comune? Se merci differenti vengono condotte ad un denominatore comune, al valore o al valore di scambio, come espressioni di grandezze differenti di quantità astratta, si deve essere anche in grado di dichiarare qual è il contenuto di questo valore inquietante e qual è la sua misura. A questo Sohn-Rethel non risponde. Ciò deriva, in ultimo ma non per questo meno importante, dal suo concetto ridotto, si può quasi dire meccanicistico, del contesto della società della merce.

Così, la sfera del lavoro appare come uno spazio pre-sociale in cui i produttori privati fabbricano ancora i loro prodotti completamente non influenzati da una qualche forma socialmente determinata. Solo a posteriori essi lanciano i loro prodotti come merci nella sfera della circolazione, dove, poi, nello scambio, si astraggono dalle loro particolarità materiali (e quindi, indirettamente, dal lavoro concreto che in esse è stato speso), dove così esse si trasformano in portatrici di valore. Questo punto di vista, che separa la sfera della produzione dalla circolazione, opponendole eternamente, non arriva al nesso interno del moderno sistema produttore di merci. Qui Sohn-Rethel confonde sistematicamente due livelli di riflessione: in primo luogo, la sequenza cronologica necessaria della produzione e della vendita di una merce singolare. Ed in secondo luogo, in questo processo singolare viene sempre già presupposta l'unità logica e sociale reale del processo di valorizzazione.

Mi piacerebbe qui ampliare l'argomento in maniera un po' più dettagliata, poiché questo modo di vedere non è assolutamente una particolarità di Sohn-Rethel, ma, al contrario, è diffuso in diverse varianti. Anche nel libro citato di Michael Heinrich, si trova questo ad ogni passo. Heinrich afferma (solo per selezionare una citazione fra le tante) che "i corpi delle merci ricevono la loro oggettività di valore che appare soltanto dentro lo scambio", e continua poi: "Isolatamente, osservato di per sé, il corpo della merce non è merce, ma mero prodotto". E' chiaro che Heinrich, a partire da questa o da altre affermazioni simili, non arriva alle stesse conclusioni teoriche di Sohn-Rethel, ma esse sono nella logica della medesima argomentazione. Ma, riesce a tirarsene fuori soltanto per mezzo di costrutti teorici di appoggio, poco convincenti (fondamentalmente: attraverso la separazione tra forma-valore e sostanza del valore).

E' evidente che i prodotti non vengono fabbricati nel processo di produzione capitalista come cose utili innocenti che raggiungono il mercato a posteriori, ma ogni processo di produzione è diretto in anticipo alla valorizzazione del capitale, ed organizzato in corrispondenza a ciò. Vale a dire, i prodotti sono fabbricati già in forma feticistica di cosa-valore; essi devono servire solo ad uno scopo: rappresentare sotto forma di valore il tempo di lavoro astratto speso per la loro produzione. La sfera della circolazione, il mercato, non serve quindi semplicemente allo scambio di merci; al contrario, è il luogo in cui il valore rappresentato nei prodotti viene realizzato, o quanto meno dovrebbe essere realizzato. Affinché questo possa avvenire (condizione necessaria ma non sufficiente), le merci devono essere, com'è noto, anche cose utili; ma cose utili solo per il potenziale acquirente. Il lato materiale-concreto della merce, quindi, il valore d'uso, non è il significato e la finalità della produzione, ma è semplicemente un certo effetto collaterale inevitabile. Dal punto di vista della valorizzazione si potrebbe benissimo fare a meno di questo (e, in un certo senso, questo avviene anche nella misura in cui si producono magicamente cose del tutto assurde o che vengono consumate in brevissimo tempo), ma il valore non si realizza senza un supporto materiale. Poiché nessuno compra "tempo di lavoro morto" in quanto tale, ma solo se questo tempo si rappresenta in un oggetto, il cui acquirente, in qualche modo, attribuisce un qualche beneficio.

Anche per questo, il lato concreto del lavoro non rimane in nessun modo intatto rispetto alla forma presupposta di socializzazione. Se il lavoro astratto è l'astrazione di un'astrazione, allora, il lavoro concreto rappresenta soltanto il paradosso di essere il lato concreto di un'astrazione (cioè, della forma-astrazione "lavoro"). "Concreto", solo nel senso abbastanza ristretto e limitato, per cui merci differenti necessitano di processi di produzione materialmente differenti: un'automobile viene prodotta in maniera differente da un'aspirina o da un temperalapis. Tuttavia, anche questi processi di produzione si comportano tecnicamente ed organizzativamente rispetto alla finalità implicita della valorizzazione, in maniera niente affatto neutra. Probabilmente, non serve spiegare con dettagli come il processo di produzione capitalista avviene, in questo senso: esso è unicamente ed esclusivamente organizzato secondo la massima: il maggior numero di prodotti possibili nel minor tempo possibile. Questo assume il nome, quindi, di efficienza dell'economia di impresa. Il lato concreto-materiale del lavoro è, perciò, nient'altro che la forma palpabile, nella quale la dittatura del tempo di lavoro astratto affronta l'attività dei lavoratori e la costringe al suo ritmo.

A tal proposito, è anche assolutamente corretto affermare che le merci prodotte nel sistema di lavoro astratto rappresentano già valore anche se, tuttavia, ancora non sono entrate nella sfera della circolazione. Che la realizzazione del valore possa fallire, che le merci diventino invendibili o che possono essere vendute al di sotto del loro valore, fa parte della logica delle cose, che però comporta un livello totalmente diverso del problema. In quanto, alla fine, per entrare nel processo di circolazione, un prodotto deve già trovarsi nella forma feticizzata della cosa-valore; e, dal momento che essa, come tale, non è niente più della rappresentazione del lavoro astratto passato (il che significa che è anche sempre tempo passato di lavoro astratto), possiede già necessariamente anche una determinata grandezza di valore. Poiché come pura forma senza sostanza (cioè, senza il lavoro astratto), il valore non può esistere senza entrare in crisi e, alla fine, crollare.

Ora, la grandezza del valore di una merce non è determinato, come si sa, dal tempo di lavoro immediatamente speso nella sua fabbricazione individuale, ma dalla media del tempo di lavoro socialmente necessaria. Questa media non è, d'altra parte, una grandezza fissa, ma cambia in rapporto al livello della produttività vigente in ciascun momento (il che significa, nella tendenza secolare, la diminuzione del tempo di lavoro necessario per ogni merce e, in questo modo, anche della quantità di valore rappresentata). In quanto misura del valore, essa è, tuttavia, sempre già presupposta in ciascun processo di produzione individuale, e regna come sovrana inesorabile. Un prodotto rappresenta, quindi, una determinata quantità di tempo di lavoro astratto solo finché può resistere di fronte al tribunale del modello di produttività sociale. Se in un'impresa si lavora in maniera sotto-produttiva, i suoi prodotti non rappresentano ovviamente più valore di quello che rappresentano quei prodotti che sono stati fabbricati in condizioni sociali medie. Quindi, quest'impresa dovrà aumentare, in un dato periodo, la sua produttività, o dovrà sparire dal mercato.

In questo contesto, un po' di confusione deriva dal fatto che l'oggettività del valore e la grandezza del valore non appaiono nel prodotto individuale, ma appaiono solo nello scambio delle merci; pertanto, solo se esse entrano in relazione diretta con altri prodotti del lavoro astratto. Il  valore di una merce appare, quindi, in un'altra merce. Così, per esempio, il valore di 10 uova può essere espresso in 2 chili di farina. Con la produzione sviluppata di merci (ed è di essa che qui sempre parliamo), il luogo di quest'altra merce è occupato da un equivalente generale: il denaro, nel quale si esprime il valore di tutte le merci e che funziona come misura del valore sociale. Dire che il valore nella forma del valore di scambio appare soltanto a livello di circolazione, qui presuppone già la comprensione che esso non sorge a questo livello, come considerano Sohn-Rethel ed altri teorici dello scambio, così come anche tutti i rappresentanti della dottrina soggettiva del valore; la comprensione, quindi, che esiste una differenza fra l'essenza del valore e le sue forme di manifestazione.

La dottrina soggettiva del valore, che con il suo empirismo superficiale si basa sull'apparenza della circolazione, ha sempre deriso la teoria del valore-lavoro come metafisica, un'accusa che è salita di nuovo in cattedra nelle vesti postmoderne. Senza volerlo, essa rivela qualcosa a proposito del carattere feticista della società produttrice di merci. Quando le relazioni sociali feticiste reificate si avventano, in quanto potere cieco, sulle persone: cos'è questo se non metafisica incarnata? La dottrina soggettiva del valore, ma anche il positivismo marxista, si rafforzano nel fatto per cui il valore non può essere percepito, in nessun modo, come cosa empirica. Perché, di fatto, né la sostanza del lavoro può essere filtrata dalle merci, né in generale possono essere calcolati, in forma consistente, i valori delle merci a partire dal livello di apparenza empirica (cioè, a partire dal livello dei prezzi). "Dove si trova allora il minaccioso valore?" - domandano i nostri positivisti, solo per scartare, subito dopo, questa domanda. In quanto qualcosa che non è empiricamente palpabile e misurabile non esiste nella loro visione del mondo.

Tuttavia, questa critica rappresenta una variante grezza della teoria del valore-lavoro, essa stessa positivista, che è sicuramente tipica della maggior parte del marxismo. In quanto il marxismo ha adottato sempre positivamente la categoria del valore, in un doppio senso: in primo luogo, come già accennato, ha considerato il valore realmente come un fatto naturale o antropologico. Appariva, così, come qualcosa di completamente ovvio che il lavoro passato, o il tempo di lavoro, potesse essere letteralmente conservato nei prodotti come cosa. Tuttavia, bisognava almeno che potesse essere fatta la prova aritmetica di come dal valore di una merce risultasse un prezzo divergente. E, in secondo luogo, solo così era conseguente il tentare di dirigere la produzione sociale per mezzo di questa categoria intesa positivamente. Anche per questo, la principale obiezione al capitalismo era che nel mercato i "valori reali" dei prodotti sarebbero velati e non validi. Nel socialismo, al contrario, secondo una celebre frase di Engels, verrebbe calcolato facilmente quante ore di lavoro "sarebbero collocate" dentro una tonnellata di frumento o di ferro.

Questo è stato il punto centrale del programma di tutto il socialismo reale condannato al fallimento - e, in forma diluita, anche quello della socialdemocrazia - pre-pensato da legioni intere di cosiddetti economisti politici, ivi inclusi quelli costruttivamente critici. Tutto questo era destinato al fallimento perché il valore non è una categoria empirica che, in base alla sua essenza, possa essere trasformata in una cosa comprensibile, ma essa si impone in maniera feticista dietro alle spalle degli uomini che agiscono, dominandolo con leggi cieche. Perciò, è una contraddizione in sé voler dirigere coscientemente una relazione incosciente. Per un tale tentativo, in questo modo, non poteva non esserci una punizione storica.

Se però, finora ho detto che il valore è una categoria non-empirica, questo significa anche che esso non possiede alcuna rilevanza per lo sviluppo economico reale? Ovviamente no. Questo significa solo che il valore non può diventare una cosa materiale, ma deve passare attraverso diversi livelli di mediazione prima di apparire sotto forme metamorfizzate nella superficie economica. Quello che Marx riesce a fare nel Capitale, è dimostrare il nesso logico e strutturale di quelli livelli di mediazione. Egli mostra come le categorie della superficie economica quali prezzo, profitto, salario, interessi ecc. possono essere derivate dalla categoria del valore e dalla sua dinamica interna di movimento, e possono anche essere perseguite analiticamente. In nessun modo, tuttavia, egli si è perso nell'illusione per cui queste mediazioni potrebbero essere calcolate empiricamente nel caso particolare, così come esigeva la dottrina degli economisti nazionali ed il marxismo positivisticamente disarmato (ma senza che essi stessi abbiano mai potuto realizzare questa pretesa). Tuttavia, questo non ha a che fare con una qualche deficienza della teoria del valore, ma si riferisce solamente all'incoscienza di queste mediazioni. Marx non ha mai avuto la pretesa di formulare una teoria positiva che potesse anche servire come strumento politico-economico. La sua preoccupazione era innanzitutto quella di provare la follia, la contraddittorietà interna, e  così, finalmente, l'insostenibilità della società basata sul valore. In questo senso, la sua teoria del valore è, nel suo nucleo centrale, una critica del valore (non a caso, la sua opera principale reca come sottotitolo "critica dell'economia politica") e, allo stesso tempo, è essenzialmente una teoria della crisi.

La fondamentazione empirica della critica del valore in generale e della teoria della crisi, in particolare, non può essere svolta, conformemente alla logica interna della cosa, sotto forma di una matematizzazione esatta, quasi-scientifica, naturale. Dove questo modello metodico viene applicato apriori, come nel famigerato dibattito sulla trasformazione dei valori in prezzi, svolto dal marxismo accademico, il concetto di valore ed il suo contesto totale, da esso costituito, è già fondamentalmente non compreso. E' vero che la critica del valore e la teoria della crisi posso essere fondate empiricamente, solo che il metodo deve recuperare le mediazioni e le contraddizioni interne del suo oggetto. Ciò che questo concretamente significa, qui posso solo insinuarlo. Prendiamo, ad esempio, il risultato fondamentale della teoria della crisi per cui il capitale, a partire dagli anni settanta, attraverso l'espulsione mondiale assoluta della sua forza lavoro viva dal processo di valorizzazione, ha raggiunto i limiti storici della sua stessa forza di espansione e con questo anche della sua stessa capacità di esistenza. Detto in altre parole: la moderna produzione di merci è entrata in un processo di crisi fondamentale che può sfociare solamente nella sua decadenza.

Questo dato non si basa, è chiaro, su una derivazione puramente logico-concettuale, ma risulta dal recupero teorico ed empirico delle rotture strutturali nel sistema mondiale produttore di merci, a partire dalla fine del fordismo. A questo appartiene anche, come fatto fondamentale, quella fusione della sostanza-lavoro (quindi, del tempo di lavoro astratto speso speso al livello alto della forza produttiva dominante) nei settori produttivi centrali della produzione per il mercato mondiale; inoltre, la progressiva ritirata del capitale dalle grande regioni mondiali che in gran parte vengono disaccoppiate dai flussi commerciali e dagli investimenti, e vengono lasciate per loro proprio conto. Infine, agisce in questo contesto anche il vigoroso e sfrenato gonfiaggio dei mercati del credito e della speculazione; che lì si accumuli capitale fittizio in una misura storica mai esistita prima, spiega, da una parte, perché l'esplosione della crisi nelle regioni centrali dei mercati mondiali si sia realizzata in maniera relativamente soffice fino ad ora; ma permette anche di presumere, dall'altro lato, la forza enorme dei processi di svalorizzazione che per ora sono ancora imminenti.

Certamente, una teoria della crisi criticamente fondata sulla critica del valore può arrivare a delle diagnosi errate, e può non prevedere qualche forma del percorso del processo di crisi, sebbene possa essere adatta nelle analisi del dettaglio. Ad ogni modo, però, può provare teoricamente ed empiricamente che non ci sarà nessun nuovo impulso di accumulazione secolare, ma che piuttosto il capitalismo è entrato, irreversibilmente, in un'era di declino e di disintegrazione barbariche. Questa prova coincide necessariamente con la critica implacabile del lavoro, della merce, del valore e del denaro, e non persegue alcun altra meta se non quella del superamento di queste astrazioni reali feticistiche; e in questo modo verrà anche superato il suo stesso ambito di validità: l'auto-superamento della teoria del valore.

- Norbert Trenkle - Testo riscritto a partire da un seminario realizzato il 24 giugno 1988 nell'Università di Vienna -

fonte: Ensaios e textos libertários

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