Quella che segue, è la trascrizione di un'intervista collettiva fatta da un nutrito gruppo di persone a Moishe Postone, il 23 novembre del 2012, a Madrid, preso la Escuela de Relaciones Laborales. Le domande sono state riassunte, in modo da limitare l'estensione del testo.
Domanda: Come può aiutare, la lettura di Marx da lei svolta, i movimenti sociali in generale?
Moishe Postone: Quello che sto tentando di recuperare, è un concetto di capitale che credo sia stato perduto dai movimenti sociali di sinistra. E non solo dai movimenti più recenti. Credo che esista una tendenza a non capire pienamente il sistema, ma di personalizzarlo nei banchieri (ad esempio, nei banchieri tedeschi). E' ovvio che questi stanno giocando un importante (e pessimo) ruolo, ma dobbiamo capire che ci troviamo davanti ad una crisi globale. Il mio lavoro è un tentativo di recuperare categorie molto astratte, come quella del capitale, per iniziare a ripensare il modo in cui intendiamo la natura sistemica del capitalismo, non solo della crisi, ma anche di quello che accade nella crisi. Credo che, per quel che attiene alla coscienza delle sinistre, la guerra fredda sia stata disastrosa. Il movimento comunista internazionale ha trasformato il termine internazionalismo nello schierarsi con un bando, cosa che ha ridotto la capacità critica delle persone di sinistra. Potevano essere molto critici con gli Stati Uniti, ma quello che facevano era limitarsi a difendere quello che stava succedendo in Unione Sovietica. Categorie storiche come il capitalismo ed il socialismo si sono trasformate in categorie spaziali: una zona ed un'altra. Questo è importante in quanto la nuova sinistra ha trasferito questo problema ai nazionalismi del Terzo Mondo. [Questa forma di pensiero] riduce la capacità critica delle persone di sinistra nel trattare a fondo determinate situazioni, nel preciso momento in cui è urgente creare una nuova forma di internazionalismo, che sia realmente internazionale, e non solo una somma di nazionalismi buoni e cattivi.
Domanda: Cosa pensa del movimento Occupy? Crede che sia in linea con questo nuovo internazionalismo di cui parla?
Moishe Postone: Nessuno può creare un movimento, però è possibile cercare di intervenire nei movimenti una volta che nascono. Il movimento Occupy è stato molto positivo perché ha reso pubblico un discorso che negli ultimi decenni era mancato nelle università: il discorso della crescente diseguaglianza negli Stati Uniti. Ma al di là di questo, credo che [i suoi membri] siano abbastanza confusi. In termini emozionali molti di loro sono anarchici (so che in Spagna c'è una grande tradizione anarchica ma io, a dire il vero, non mi sento molto legato a questo tipo di approccio) e non vanno da nessuna parte. Credo anche che abbiano una comprensione insufficiente del mondo: per loro si tratta del fatto che ci sono un pugno di banchieri che stanno prendendo delle decisioni sbagliate... e questo non basta. Può andar bene per cominciare, ma è necessario andare oltre.
Domanda: Per molti approcci critici, come quello di David Harvey, la responsabilità dell'attuale situazione che stiamo vivendo è da attribuire alla deregulation finanziaria ed al dominio del capitale finanziario su quello industriale. Qual è la sua opinione su questo tipo di analisi?
Moishe Postone: Credo che fino ad un certo punto sia corretta. Ciò nonostante, Harvey non ha una spiegazione appropriata del processo di finanziarizzazione stesso. E' stato lo sviluppo del capitale a metà degli anni 60 ed all'inizio dei 70 del secolo scorso, a generare la finanziarizzazione, la quale è in relazione col flusso internazionale di capitali, da un lato, e col declino degli Stati-nazione in quanto istanze che determinano l'inversione, dall'altro lato. Di modo che, dal mio punto di vista, il fatto per cui l'inversione è sempre più determinata dalla finanziarizzazione sarebbe la risposta ad un crisi: la crisi dello Stato fordista, di cui Harvey non tiene affatto conto. Per cui gli risulta facile presupporre, senza dirlo, che possiamo tornare ad un'economia keynesiana, e può sviluppare l'idea secondo cui l'accumulazione primitiva avviene sempre e dappertutto. [Questo tipo di approccio] non credo sia adeguato perché ciò che fa è evitare di parlare di un livello più profondo della crisi, che è la crisi del lavoro salariato nella società. Questa crisi è diversa da quella degli anni 1930: durante la Grande Depressione si credeva che fosse possibile arrivare alla piena occupazione per mezzo di politiche diverse. Oggi, questo non è una possibilità. Dobbiamo affrontare il fatto che stiamo finendo per trovarci senza posti di lavoro e che questa è una crisi globale.
Domanda: In Europa, anche se i posti di lavoro diminuiscono, molte istituzioni relazionate al lavoro salariato si sono generalizzate: i sistemi di sicurezza sociale, l'istruzione, i diritti connessi con la status sociale del lavoro salariato... e coinvolgono molte più persone di quelle che hanno un impiego. Lei crede che viviamo in una "società del lavoro" (organizzata intorno al lavoro) sempre più senza lavoratori?
Moishe Postone: Ho l'impressione che l'Europa non sia più quel che era. Per quanto ne so - non sono un esperto in materia - in Germania, per esempio, gli anziani stanno peggio che negli Stati Uniti. Qui c'è stato un grande numero di tagli negli ultimi dieci anni, tagli molto profondi che ora stanno interessando tutta l'Europa, e non credo che si produrrà un recupero o un'inversione di marcia [rispetto a questi tagli in materia di protezione sociale]. Non credo che sia possibile tornare al modello di società fordista, cosa che nella mia opinione significa che ci troviamo davanti all'inizio di una lunga lotta, che dovrà necessariamente essere sempre più internazionale.
Domanda: Marx analizza il capitale come un insieme di produzione e circolazione. Perché lei concentra la sua lettura di Marx sul primo libro de Il Capitale, che si occupa principalmente di produzione?
Moishe Postone: La ragione per cui enfatizzo il primo volume è perché cerco di recuperare qualcosa che credo che si perda quando uno dice che il capitalismo è un insieme di produzione e circolazione, un sistema nel quale dobbiamo guardare alle sue dimensioni mature. Se procedessimo in questa maniera, lasceremmo fuori un elemento che ritengo sia fondamentale per Marx: la questione della centralità del lavoro dentro lo sviluppo del capitale, questione che non ha assolutamente interessato il marxismo tradizionale. Per il marxismo tradizionale quel che importava era l'espansione del lavoro. Il presupposto di partenza era che una volta che il proletariato fosse diventato abbastanza grande, la rivoluzione sarebbe venuta automaticamente. Il mio argomento [invece] è che lo sviluppo reale del capitale porta precisamente ad una crisi del lavoro e non alla sua espansione, e che questa crisi del lavoro è quella che stiamo vivendo. Questo non significa ignorare altre dimensioni (come i processi di finanziarizzazione del capitale) che sarebbero ineludibili in una discussione più completa sulle differenti configurazioni del capitale. Sono d'accordo con questo, ma per motivi teorici e politici cerco di enfatizzare la crescente crisi del lavoro, un aspetto che la maggior parte delle letture di Marx ignorano. Dal mio punto di vista, è necessario portare questo alla luce per poter poi ripensare le relazioni di circolazione e di produzione, in quanto, per me, non è la stessa cosa pensare che la produzione capitalista sia semplicemente produzione, piuttosto che affermare che la produzione capitalista mina la propria base su cui si trova seduta. A seconda di quale sia il nostro punto di partenza, ci troviamo ad affrontare il problema della finanziarizzazione in maniera diversa.
Domanda: Da quanto ho capito, lei è in disaccordo con il gruppo Krisis per quanto riguarda le conseguenze della crisi capitalista, ed anche con Harvey, il quale dice che ci troviamo di fronte ad una crisi di sovraccumulazione. Potrebbe esporre in dettaglio il suo approccio alla crisi occupazionale nel capitalismo e metterlo in relazione con la crisi dello Stato fordista?
Moishe Postone: La verità è che io non ho ancora una teoria per tutto. Avete cominciato a parlare del gruppo Krisis. Credo che loro stiano tenendo conto - ed in questo caso mi troverei d'accordo con loro, per quello che riguarda immediatamente la crisi - che siamo arrivati alla crisi dell'occupazione nella società. Non è che, come credono molti lavoratori nordamericani, la distruzione dei posti di lavoro negli Stati Uniti sia avvenuta semplicemente come conseguenza della dislocazione del lavoro su scala internazionale. Si sono persi molti più posti di lavoro per la tecnologia di quanti se ne sono persi a causa della distribuzione del lavoro in altre regioni. Il motivo per cui enfatizzo questo punto è perché cerco di non fermarmi alla superficie. La ragione per cui la tendenza alla decrescita del tasso di profitto viene trattata nel terzo volume de Il Capitale, e non nel primo, è perché Marx, prima di arrivare a quella, deve spiegare qualcosa di molto più fondamentale: la composizione organica del capitale. Molte persone credono che Marx sviluppi l'ipotesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, ma non è così: Marx l'ha formulata, ma non l'ha sviluppata. E' una cosa che ha fatto l'economia politica classica. Quel che dice Marx è che nella misura in cui è corretta [l'ipotesi della tendenza decrescente del tasso di profitto] è un sintomo di qualcos'altro. Attiene più al cambiamento della struttura del lavoro. Questa è la ragione per cui quando cade il tasso di profitto abbiamo delle controtendenze. Quando si analizza la categoria del valore non vi sono controtendenze. Ci sono molti marxisti che si sono riciclati come economisti ed hanno dimenticato che l'obiettivo della critica dell'economia politica era di andare al di là del livello di superficie del terzo libro e che il problema reale era la struttura del lavoro. Perciò la domanda è come articolare un movimento sociale che vada contro la struttura del lavoro, che è qualcosa di molto diverso dal tenere in piedi un movimento contro i banchieri. Essere contro i banchieri non è necessariamente di sinistra. Vi sono molti movimenti populisti di destra che sono contro i banchieri. Perciò dobbiamo recuperare la critica reale dell'economia politica. E' questo quello che fa la differenza.
Domanda: Nell'evidenziare la crisi del lavoro, ho l'impressione che lei si riferisca appena ad una distinzione che per Marx è cruciale e che ha dato luogo a molte polemiche: la distinzione fra lavoro produttivo ed improduttivo. Qual è il suo approccio a questo?
Moishe Postone: Forse avrei dovuto dire qualcosa a questo proposito... Non l'ho fatto perché questi termini sono stati del tutto riplasmati e ri-significati da teorie posteriori affermative del lavoro. Il problema principale per queste teorie consiste nel sapere chi è realmente produttivo e, pertanto, chi può diventare proletariato, vale a dire, chi può essere soggetto rivoluzionario. Da decenni si dibatte a proposito del fatto se il lavoro domestico sia produttivo o improduttivo, e il concetto di produttivo è stato preso come un'affermazione quando, in realtà, nella teoria di Marx si tratta di una categoria critica: quanto più si sviluppa il capitale, tanto più inutile diventa il lavoro produttivo (anche se allo stesso tempo continua ad essere necessario per il capitale). Il marxismo tradizionale ha trasformato in qualcosa di positivo quello che in Marx era una categoria critica.
Domanda: Sono interessato a questa questione del lavoro domestico e mi piacerebbe sapere se conosce il lavoro di Roswitha Scholz, del gruppo Krisis. Lei fonda la "teoria della scissione-valore" che legge la teoria del valore di Marx dalla prospettiva femminista. Il suo approccio sostiene che la natura del lavoro domestico è difficile da poter essere colta dalla forma valore a causa della sua dimensione affettiva. Vorrei sapere se è d'accordo con questo ed anche come intende la divisione sociale del lavoro in termini di genere.
Moishe Postone: Non ho letto il testo di Roswitha cui si riferisce e credo che quindi sarebbe un errore da parte mia commentare direttamente il suo lavoro. Conosco, però, altre teorie formulate alla fine degli anni 1960 da teoriche femministe che considerano il lavoro domestico come qualcosa di cui il marxismo non si è mai occupato. Con queste teorie ho due problemi. Uno è il presupposto per cui il valore è qualcosa di positivo, di affermativo. L'argomento è: il lavoro domestico è assolutamente essenziale per la vita in società, perciò deve avere valore. Questo vuol dire non capire cosa significa la categoria valore in Marx. L'altro problema è che l'analisi marxista non pretende di essere una fotografia completa della società in termini sociologici. Quando Marx ha scritto a proposito della centralità del proletariato nella dinamica del capitale, la classe dei lavoratori era enorme. Ma la chiave non è stabilire se la maggior parte delle persone faccia questo o quello: ai tempi di Marx, analizzare come funzionava la classe dei lavoratori domestici avrebbe permesso di dire molte cose su come si viveva in quella società, ma ne avrebbe dette molto poche sulla direzione che quella società stava prendendo. Credo che uno dei miei problemi con il modo in cui è stata discussa la divisione sociale del lavoro in termini di genere, almeno negli Stati Uniti, è stato il fatto che si è separata dalla questione della critica dell'economia politica. Per questo motivo, credo che questa discussione abbia avuto conseguenze impreviste. Credo che alcuni elementi siano del tutto corretti: la divisione sessuale del lavoro, per esempio, è molto precedente al capitale. Tuttavia, come molte altre cose precedenti al capitale, è stata trasformata dal capitalismo ed è stata sottomessa al capitale.
Ovviamente, sono a favore delle richieste di uguaglianza di genere, ma, almeno negli Stati Uniti, essendo formulate in maniera completamente separata dall'insieme della critica dell'economia politica, hanno avuto degli effetti realmente complicati. Da una parte, oggi abbiamo uno strato di donne della classe medio-alta molto importanti nelle università, negli studi legali, negli ospedali, ecc., per le quali l'obiettivo dell'uguaglianza di genere è stato, più o meno, raggiunto. Ma, per le donne della classe operaia i risultati sono stati davvero disastrosi. Negli Stati Uniti, il femminismo si è preoccupato assai poco di quel che succedeva con i bambini della classe operaia quando le donne dovevano lavorare. Nelle famiglie dei lavoratori accade assai spesso che il marito e la moglie debbano lavorare in orari diversi durante il giorno per potersi occupare dei figli. La vita di queste famiglie, specialmente nel caso delle donne, è diventata qualcosa di veramente difficile. Tuttavia, le donne della classe media posso disporre di una nuova classe di servitù (soprattutto bambinaie provenienti dall'America Centrale) per risolvere questo problema. La forma in cui è stata assunta la divisione sociale del lavoro in termini di genere, completamente separata dall'economia politica, ha avuto conseguenze molto negative, inaspettate ed indesiderate. Ricordo anni fa, in Germania, che Marcuse scrisse un saggio su marxismo e femminismo nel quale sosteneva che la critica femminista non poteva essere soltanto una critica della disuguaglianza [di genere] e che bisognava prendere in considerazione anche la struttura del lavoro, e che se non lo si faceva le conseguenze sarebbero state molto negative. Quel saggio di Marcuse non divenne molto noto, ma credo che quel che diceva non era una cattiva idea.
Domanda: Mi piacerebbe conoscere la sua opinione riguardo l'approccio di Silvia Federici, la quale sostiene che al momento dell'accumulazione originaria non solo venne generato il proletariato moderno, ma anche la reclusione domestica di una buona parte della popolazione femminile.
Moishe Postone: Non lo conosco abbastanza bene. Sono passati decenni da quando ho letto quel libro di Silvia. Credo, ma potrei anche essere ingiusto con la sua opera, che [l'approccio] sia sbagliato in termini storici. Non credo che l'accumulazione originaria sia il momento di delimitazione della sfera domestica. Credo che si tratti di un fenomeno borghese in cui, in qualche modo, viene recuperata una forma più antica della divisione del lavoro. La divisione del lavoro in termini di genere dentro le famiglie contadine era una divisione reale del lavoro. Si tratta di una divisione di genere ma non dice che si stanno svolgendo dei compiti che sono necessari. L'idea della donna come casalinga con un'attività centrata sulla cura della famiglia e della casa, credo che abbia il suo primo sviluppo nelle famiglie borghesi del XVIII e del XIX secolo. E se questa viene definita una divisione del lavoro in termini di genere, in realtà non lo è: è lavoro e non lavoro. Ed è per questo che una delle parodie della Rivoluzione francese è quella per cui, una volta che ha luogo, la posizione della donna peggiora. Abbiamo assistito ad una trasformazione per cui soltanto il lavoro relazionato con la forma merce viene considerato realmente lavoro, e le altre forme di attività smettono di essere considerate come lavoro. Quello che succede allora è che l'attività delle donne in ambito domestico non è un lavoro relazionato con la merce, e dal momento che la cittadinanza si basa sul possesso di merci le donne non sono considerate cittadine. Credo che Silvia possa essere d'accordo con questo, quello che non credo è che questo abbia a che vedere con l'accumulazione originaria.
Domanda: E' un problema di riconoscimento?
Moishe Postone: Non è riconoscimento nei termini in cui viene sostenuto da alcuni amici. Quel che dico è che, alle spalle degli stessi attori, la relazione che intrattengono con la forma merce è ciò che determina la forma nella quale vengono riconosciuti. Il riconoscimento dei lavoratori è conseguenza dell'azione collettiva ma, ironicamente, solo per mezzo di questa i lavoratori possono essere possessori di merce. Di modo che i lavoratori possono essere soggetti borghesi solo come gruppo, attraverso l'azione collettiva. Non è un problema di contrapporre semplicemente il collettivo all'individuale, come se il collettivo fosse già socialista.
Domanda: Cosa ne pensa dei movimenti cittadinisti come il 15M oppure Occupy che, senza essere specificamente movimenti di lavoratori, hanno sollevato il conflitto su questioni economiche, come ad esempio quello degli sfratti in Spagna?
Moishe Postone: Non so praticamente niente del 15M, ma mi sembra importante sottolineare che una caratteristica del movimento Occupy è quella che non sta lavorando in questo modo. E' un movimento di carattere più subculturale. E' qualcosa che potrebbe essere detto anche di molti altri movimenti politici nati negli Stati Uniti. [Questi movimenti] hanno molte difficoltà e a volta nessun interesse ad istituzionalizzarsi ed andare oltre, sul lungo termine. Il movimento Occupy ha svolto un ruolo assai importante introducendo nella sfera pubblica il problema della crescita e delle disuguaglianze, ma al di là di questo è andato poco avanti... Quando ci sono militanti che bloccano il ponte di Oakland, e la cosa non provoca alcuna reazione positiva nella popolazione. Se la gente di Occuoy si fosse preoccupata degli effetti della bolla immobiliare... ma il movimento Occupy non è particolarmente preoccupato di fare un lavoro di base che consista nel muoversi e cercare di creare forme di solidarietà con le persone colpite politicizzando il problema ed introducendolo in un discorso politico. Non posso dire nulla sulla Spagna in quanto non conosco la realtà di questi movimenti ma sono lieto di sentire quello che avete detto.
Domanda: Se presupponiamo che andare oltre il capitalismo debba necessariamente implicare di andare al di là del lavoro salariato e della "società del lavoro", la crisi occupazionale cui ha fatto prima riferimento presuppone che il capitalismo stia facendo il lavoro al posto nostro (il lavoro di autodistruggersi)? Dobbiamo soltanto aspettare il collasso del capitalismo oppure dipende da noi?
Moishe Postone: Dipende completamente da noi e siamo anche ben lontani dal sapere o decidere quali istituzioni emergeranno. Dobbiamo vedere quel che viene sorgendo e dobbiamo dialogare con esso. C'è una contraddizione dentro il capitale: la contraddizione tra la potenza che genera ed i limiti che allo stesso tempo le impone. Questo limite è il lavoro proletario. La classe principale, per il capitale, non è la borghesia ma il proletariato. La stessa idea per cui il proletariato si elimini da sé solo è politicamente molto complicata in quanto suppone che cambino politicamente i termini in cui si deve porre il problema, per dirlo in termini classici, fra riforma e rivoluzione. Dobbiamo portare avanti riforme che si muovano nella direzione di andare al di là della società del lavoro. Ironicamente, credo che una delle condizioni per questo sia l'internazionalismo delle organizzazioni dei lavoratori.
Negli anni 1990, negli Stati Uniti, ci fu una tendenza in tal senso, chiamata Anti-Sweatshop Movement [si suole chiamare sweatshop (letteralmente fabbriche o stabilimenti di sudore) quei centri di lavoro che mantengono condizioni lavorative specialmente penose per i loro lavoratori]. Una volta rotti gli schemi della Guerra Fredda, si poteva prendere un impresa, ad esempio la Nike, ed osservare le condizioni di lavoro, diciamo in Indonesia e Vietnam, e provare che erano simili. [I promotori di quest'iniziativa] non si lasciarono confondere dall'idea per cui in un caso ci trovavamo davanti ad un governo di destra, e nell'altro caso di sinistra. Analizzavano le condizioni sul campo e vedevano che Nike traeva beneficio in entrambi i casi, senza che le importasse del segno politico del governo. Negli Stati Uniti, questo tipo di movimenti vennero spazzati via durante l'amministrazione Bush dalla risorgenza di un'onda di anti-imperialismo che riproduceva vecchi schemi, ma che hanno sempre meno solidità.
Domanda: Relaziona il superamento del capitalismo con il superamento del lavoro proletario e sostiene che questo potrebbe servire a formulare una teoria sulle soggettività post-proletarie, sui movimenti sociali ed anche sui fondamentalismi. E' andato avanti su questa teoria?
Moishe Postone: No, però mi sembra molto importante. Una delle difficoltà a lavorare in un'università, è che abbiamo sempre meno tempo di fare lavoro reale. Negli Stati Uniti, anche se in certi periodi l'abbiamo avuta, oggi non esiste una sfera politica pubblica in cui si possano sviluppare questo genere di lavori. Credo che il problema sia cruciale sotto diversi aspetti. In primo luogo, molti dei movimenti identitari possono essere visti come post-proletari, ma questo non li rende necessariamente progressisti. Tutto dipende da in che misura il movimento intende sé stesso in rapporto agli sviluppi a lungo termine della dinamica sociale, e questo è in relazione con quanto si diceva prima a proposito del femminismo di decenni fa. Invece, quel che abbiamo è una sorta di solidarietà di segmenti, di coalizioni arcobaleno: donne, neri, omosessuali, messicani... I gruppi hanno le loro differenze ma stanno tutti insieme in quanto non sono uomini bianchi. Per me, questo è inadeguato dal punto di vista politico, il che non significa che i movimenti di per sé non siano importanti... Quello che dico non ha niente a che vedere con il concetto del primo Marx relativo alle contraddizioni primarie e secondarie. Questi movimenti sono molto importanti, ma la loro auto-comprensione dovrebbe essere più interconnessa con gli sviluppi storici a lungo termine. Parte del modo in cui gli intellettuali si impegnano politicamente dovrebbe avere a che fare con questo. Mi sembra anche che l'estensione di quel che abbiamo chiamato fondamentalismi, rispetto agli ultimi decenni, dovrebbe essere analizzato se non come post-proletario, quanto meno come un'insoddisfazione radicale per quel che riguarda la società capitalista (senza una corretta comprensione della stessa). Certamente, i fondamentalismi non sono una tradizione, che poi è come ad essi stessi piace rappresentarsi. Devono esser visti come un fenomeno molto moderno, come un a forma feticizzata di insoddisfazione. ", se vogliamo avere qualche speranza, devono essere affrontati in modo che si possa lavorare con questo scontento e si possa presentarlo da un altro punto di vista.
Domanda: Lei sostiene che il proletariato non è un soggetto storico di trasformazione. Questo non è una riduzione del proletariato alla sua dimensione tecnica? E servono degli agenti politici di trasformazione?
Moishe Postone: Vorrei distinguere fra quello che è il soggetto hegeliano e l'agente storico. Credo che la classe operaia possa avere ed ha avuto un ruolo di agenzia storica ma, tuttavia, non è il soggetto. Credo che quello cui Marx mirava, nel descrivere la categoria del capitale con il linguaggio di Hegel, fosse il fatto che il soggetto è una categoria della storia alienata e che la sua emancipazione implica il superamento del soggetto. Credo che la questione dell'azione della classe operaia risulti sempre più complicata. Nella misura in cui l'accumulazione del capitale implicava l'espansione del proletariato, vi era una soluzione di continuità fra la posizione di questo e l'impulso alle riforme che "umanizzarono" il capitalismo. Questa "umanizzazione fu un successo della classe lavoratrice. Ma quando il proletariato comincia a diminuire di importanza ed entra in un certo declino, esiste il rischio che diventi reazionario, come qualsiasi altra classe che si veda minacciata. Negli Stati Uniti la classe operaia è diventata molto razzista, e assistiamo ad un'infelice polarizzazione fra lavoratori che non sono per niente preoccupati per le loro condizioni economiche ma che, però, difendono i diritti degli immigranti, degli omosessuali, delle donne, ecc.; e lavoratori che si preoccupano molto per le proprie condizioni di lavoro e vedono gli altri come nemici. Mi pare un segnale inequivocabile del pericolo per cui in Francia vi sono regioni intere che prima votavano comunista e che ora votano per Le Pen. Credo che via un punto di svolta storico. Quello che sto suggerendo è che non c'è modo di uscire dalla situazione attuale se continuiamo ad analizzarla in termini di classi lavoratrici nazionali. Dal mio punto di vista, si dovrebbe stabilire un nuovo internazionalismo che non può essere una ripetizione dell'internazionalismo che è emerso quando il proletariato era una classe in espansione. Il primo compito per qualsiasi movimento che pretende d fare qualcosa con la classe operaia, dovrebbe consistere nell'indebolire la concorrenza che esiste dentro tale classe, ed è lì dove entrano in gioco le questioni relative all'immigrazione. Credo che sarebbe molto più importante che la sinistra si coinvolgesse in questo piuttosto che nella forma distorta di antimperialismo cui ho fatto riferimento prima.
Domanda: Buona parte dei pensatori marxisti degli ultimi decenni sono stati accademici e professori universitari. Non esistono più pensatori politici come Lenin o Rosa Luxemburg?
Moishe Postone: Credo che il periodo 1968-1973 segnali la crisi della politica basata sulla vecchia forma di intendere il lavoro proletario. Da un lato, almeno in Occidente, vi è stato l'inizio della disintegrazione delle forme fordiste, di cui la classe operaia era una componente fondamentale. Dall'altro lato, il 1968 a Parigi segna la fine della volontà di molti intellettuali ad identificarsi in qualche modo con i movimenti comunisti. In Italia questo è stato diverso per un certo tempo, ed in Spagna estremamente differente a causa della fine della dittatura franchista. Credo che la crisi del lavoro sia stata anche la crisi della possibilità di quel tipo di intellettuali di cui si parla, ma ce ne sono stati alcuni. André Gorz è un meraviglioso esempio di un intellettuale che non si è convertito in un professore, ma è vero che ce ne sono sempre meno. Sarebbe un errore pensare che tutti gli intellettuali di sinistra stiano all'università, ma penso che questo sia stato un sintomo di questo più ampio cambiamento. [N.d.T.: quanto meno andrebbe rammentato, come intellettuale non accademico, proprio Robert Kurz.]
Domanda: Sembra che alcune conseguenze politiche che derivano dalla sua lettura di Marx, paradossalmente, sono più vicine alle soluzioni proprie dell'anarchismo, che a quelle del marxismo tradizionale. Ad esempio, l'idea di non liberare solo il lavoro dallo sfruttamento ma di liberarsi dal lavoro stesso...
Moishe Postone: E' possibile, tutto dipenderà da fino a che punto il pensiero anarchico avrà la volontà di convertirsi in [un pensiero] storico, invece di essere fondamentalmente volontarista. Anche se [gli anarchici] possono avere ideali che io condivido, sono spesso inseriti in un quadro che rende impossibile comprendere come possano ottenere qualcosa storicamente. Gli Stati Uniti non hanno una tradizione anarchica così ricca come quella della Spagna, per cui l'esperienza dell'anarchismo che mi è più nota è quella delle comunità utopiche o dell'azione diretta. L'idea secondo cui l'azione parla da sé sola e non deve essere mediata, credo che derivi da una visione ingenua degli esseri umani propria del XVIII secolo. [E' vero che l'anarchismo comporta] anche lo scetticismo rispetto alla glorificazione del lavoro operata dal marxismo tradizionale, ma questo non è sufficiente.
Domanda: Parlare della crisi del lavoro non corrisponde forse ad una visione occidentale, quando vi sono paesi interi che si stanno sottomettendo al capitale, come la Cina, l'India o il Nepal? Non andrebbe salvato il lavoro di Lukàcs che intendeva superare la forma merce prima nella coscienza, per poi avanzare nella rivoluzione mondiale?
Moishe Postone: Nonostante ritenga Lukàcs brillante, sono decisamente contrario a quel che fa nella terza parte del suo saggio sulla reificazione. Invece di seguire il dispiegarsi della forma capitale, che cambia la struttura del lavoro e solleva la questione di come i cambiamenti vengono compresi dai lavoratori e di du quale ruolo abbia la coscienza di classe in tale comprensione, Lukàcs astrae totalmente il problema dello sviluppo della produzione capitalista e lo trasforma in una dialettica fra il soggetto e l'oggetto. Di modo che la storia è una costante e la questione è come acquisisce coscienza un soggetto che già sta lì. Credo che sia proprio da questo che possiamo partire oggi, in quanto quello che sto dicendo quando parlo di crisi del lavoro significa che la comprensione del lavoro, in primo luogo, deve andare oltre il lavoro proletario ma anche, in secondo luogo, che se non va oltre il lavoro proletario può diventare reazionaria.
Non credo che i paesi in via di sviluppo possano essere inclusi dentro una stessa categoria e dire che la Cina è come il Congo e che l'India è come il Brasile. Sono circostanze molto diverse. Non credo che la classe operaia abbia smesso di crescere dappertutto. Ma, per esempio, credo che abbia smesso di crescere in Cina intorno al 2004. In Cina c'è una crisi che è sul punto di esplodere perché ci si aspettava che un enorme segmento di popolazione venisse assorbito dentro il proletariato e questo non è avvenuto. Quest'aspetto della crisi non può essere affrontato adeguatamente a partire dal punto di vista dell'accumulazione originaria, perché questa si basa sull'idea per cui i contadini una volta dislocati verrebbero assorbiti dal proletariato, cosa che non sta succedendo. Le città-baraccopoli sono piene di persone che sono state dislocate dalla loro terra e che non riescono ad integrarsi nel mercato del lavoro. Non credo che ci sia più l'era dell'accumulazione nazionale, I che spiegava in parte, ad esempio, perché il Sudafrica [dopo la fine dell'apartheid] non è stato in grado di imboccare la strada che avrebbe potuto imboccare cinquant'anni fa, che avrebbe consistito in una via statalista all'accumulazione. Così, assistiamo alla terribile constatazione che la liberazione, una liberazione reale, non ha influenzato la vita della maggior parte della popolazione nera, o in ogni caso lo ha fatto minimamente. E la spiegazione di tutto questo non si basa semplicemente sul fatto che i membri del governo sono corrotti.
Mi pare che quel di positivo che c'è nei movimenti identitari è quel genere di universalismo che era associato alla classe operaia, ma non solo con essa, un universalismo che negava la differenza. Era solo un lato della forma merce: il lato del valore. Il compito storico consisterebbe allora nell'incontrare in maniera differente forme specifiche che erano universali. Tuttavia, molti dei movimenti identitari semplicemente si sono posizionati sull'altro lato della dicotomia [il lato del valore d'uso] e sono diventati particolaristi. In questo senso, credo che stiano riproducendo la dicotomia tra un universalismo astratto ed i particolarismi concreti, dicotomia che il capitalismo produce da molto tempo.
Domanda: Da parte di molte critiche al capitalismo, si suole ignorare i limiti ecologici del pianeta? Cosa pensa al riguardo? Crede che iniziative come le cooperative, il cosiddetto mercato sociale o formule economiche alternative basate sulla soddisfazione di bisogni reali siano una soluzione a questo problema?
Moishe Postone: La crisi ecologica a cui possiamo riferirci e che è quella che è già in atto, e che non è altro che una concatenazione di disastri, è cruciale. Qualsiasi critica del capitalismo deve essere una critica di questa forma di crescita. Però, credo che la risposta non possa andare nella direzione dell'economia locale, ossia una forma di economia alternativa o di mutuo appoggio. Il problema è globale e può essere affrontato soltanto su scala globale. E' vero che piccole comunità possono cavarsela, è sempre stato così, ma non tutti possono cavarsela così. Quindi, dobbiamo cominciare a sviluppare un concetto di come affrontare globalmente la situazione.
fonte: Diagonal Global
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