Arnold Van Gennep, I riti di passaggio
(1981)
- di Italo Calvino -
I riti di passaggio di Arnold Van Gennep, un classico dell’antropologia (1909) che viene ripresentato ora nell’«Universale scientifica Boringhieri» (o forse presentato per la prima volta in italiano, a cura di Francesco Remotti, pagg. 216, lire 5.000) è un piccolo libro, ma contiene una concezione globale della società e dell’esistenza umane, basata sulle separazioni: dei luoghi, dei sessi, delle età, delle famiglie, dei gruppi, delle funzioni. Per non parlare dei passaggi fondamentali che separano la vita dell’individuo dalla pre-vita e dalla post-vita: nascita e morte.
Van Gennep, i cui meriti di ricercatore sono legati a monumentali opere sul folklore francese, in etnologia si è limitato a mettere in ordine dati raccolti da altri, ma egli può essere ben considerato tra gli inventori di grandi sistemi teorici fondati su un semplicissimo concetto unificatore, in base al quale si può spiegare qualsiasi fenomeno. Tale era per lui il «momento di passaggio», che in qualsiasi cultura, primitiva o meno, è accompagnato da riti speciali.
Cultura è appunto coscienza dei passaggi e della necessità di sottolinearli con i riti che loro corrispondono: il passaggio materiale che collega il dentro col fuori, cioè le porte della casa e della città, le frontiere del territorio; i riti della partenza e del ritorno; i riti d’aggregazione dello straniero al gruppo o alla tribù e i riti di separazione che comprendono la vendetta e la guerra; i riti che accompagnano la gravidanza; il parto, l’ingresso dell’infante nella comunità, circoncisione o battesimo; i riti di pubertà e d’iniziazione, le ordinazioni sacerdotali, le incoronazioni, le affiliazioni a società segrete o a corporazioni professionali, e relative esclusioni o scomuniche; i riti del fidanzamento o del matrimonio, nonché del ripudio e del divorzio; e il complesso rituale delle cerimonie funebri.
A ogni passaggio, o quasi a tutti, corrisponde una zona di margine, o marca di confine, fuori dallo spazio e dal tempo, considerata come sacra o come impura, tabù: la soglia, il saluto, la gravidanza, il fidanzamento, il lutto.
Se si aggiungono i riti agricoli di passaggio stagionale e quelli che accompagnano le fasi lunari, le rivoluzioni dei pianeti e le ricorrenze zodiacali, vediamo che il sistema dei passaggi connette la vicenda umana al cosmo, in un disegno universale caratterizzato dalle linee marcate che lo attraversano, da discontinuità e strisce divisorie.
L’immagine più suggestiva di questa concezione del mondo è data dalle grandi porte monumentali che nell’Estremo Oriente s’innalzano isolate, senza che apparentemente comunichino con nulla. Questi portici isolati «non soltanto sono diventati dei monumenti indipendenti, di un proprio valore architettonico (portici delle divinità, degli imperatori, delle vedove ecc.), ma sono stati addirittura utilizzati — perlomeno nello shintoismo e nel taoismo — come strumenti cerimoniali (si vedano i riti dell’infanzia). Questa evoluzione dal portico magico al monumento sembra essere stata la stessa dell’arco di trionfo romano: infatti il trionfatore doveva separarsi, attraverso una serie di riti, dal mondo nemico per poter rientrare, passando sotto l’arco, nel mondo romano; in questo caso il rito di aggregazione consisteva nel sacrificare a Giove Capitolino e alle divinità protettrici della città».
Di questo universo di differenze che circondava gli uomini dell’antichità e delle società che egli chiama «semicivilizzate», Van Gennep, scrivendo agli inizi del nostro secolo, parla già come di un mondo perduto, in un’epoca che va verso l’uniformità e l’indifferenziazione. Nella società moderna (dal Rinascimento in poi) egli vede cresciuta solo la separazione tra il sacro e il profano, che nelle fasi anteriori si mescolavano in ogni funzione dell’esistenza (continuano a esser necessari per esempio riti speciali per passare dallo stato di laico a quello di sacerdote); mantenuta la separazione tra classi, categorie, professioni, ma solo su basi economiche e d’istruzione (senza che le aggregazioni, i mutamenti di stato sociale siano più segnati da particolari rituali) e non più circoscritta localmente per quel che riguarda l’uniformità dei gruppi; vede attenuata la separazione tra i sessi e pure la solidarietà tra gli appartenenti allo stesso sesso, sancita (nelle società primitive) da periodi di esclusione dei maschi e delle femmine.
Scrivendo negli ultimi anni della Belle Époque, egli mette tra le separazioni in via di cancellazione anche le frontiere tra Stati «visibile solo sulle carte, nelle quali viene marcatamente segnata». Ma anche se per noi questo rimane un sistema di linee divisorie ancora ben concretamente vigente, dobbiamo convenire che è sempre più artificiale, in quanto le nazioni confinanti tendono sempre più a somigliarsi.
Nel mondo delle società di massa in cui viviamo, la prospettiva è un po’ cambiata dall’oggi in cui Van Gennep scriveva, ma le correzioni non cambiano il discorso di fondo: tra i sessi la crescente spinta all’uniformità non esclude la solidarietà sessista; tra le età è cessata la separazione gerarchica e il sistema delle iniziazioni e aggregazioni all’età adulta, ma si è fissata una cultura giovanile come zona separata e stabile (anche in termini di mercato); alla distanza economica tra le classi, sempre molto forte, corrispondono orizzonti culturali sempre più omogenei; aumenta sempre, invece, il divario tra le aree geografiche dei «meno evoluti» (per usare il vecchio vocabolario) e la metropoli (mentre nel mondo preindustriale la coscienza della propria diversità autoctona era gelosa e fiera da ambo le parti e il disprezzo dell’altro era reciproco).
Ma non è delle maggiori o minori differenziazioni e separazioni che stiamo parlando, ma piuttosto del fatto caratteristico di oggi che nessuna separazione si configura più come consacrata da un rituale, anzi, si direbbe che non sopporti più nemmeno le giustificazioni ideologiche. Segno che esse sono avvertite come intralci non funzionali che la coscienza ha già allontanato come aspetti negativi ed eliminabili.
Forse è proprio perché questo mondo dei passaggi ci appare sempre più lontano, che ci sembra di comprenderlo perfettamente: ogni situazione di crisi vi era incasellata tra linee nette, istituzionalizzata e in qualche modo esorcizzata, ma proprio per questo riconosciuta nel suo effettivo valore di crisi; mentre il nostro mondo, in cui i passaggi sono sfumati, stemperati o minimizzati, si configura come uno stato di crisi diffusa e continua.
Leggendo Van Gennep non possiamo far a meno di domandarci per ogni avvenimento della nostra vita quotidiana o delle nostre esperienze fondamentali, quali «riti di passaggio» inconsci o impliciti siamo portati a compiere: certamente ci sono, li pratichiamo continuamente anche se non sappiamo riconoscerli come tali. A pensarci bene, è tutta la nostra epoca che viene abitualmente definita come «epoca di transizione» o «di passaggio»: passaggio verso cosa non si sa, o si sa sempre meno. Non manca la tendenza a considerare sacra la condizione di transizione e di crisi. Ma così facendo, in assenza d’un dentro e d’un fuori da cui o in cui passare, il passaggio sacralizzato diventa stabile e senza alternative, e usurpa il culto che gli è tributato in quanto passaggio.
Prendiamo le porte: viviamo nell’epoca delle chiavi, ognuno di noi gira con un mazzo di chiavi appeso alla cintura come un carceriere; delle porte oggi contano solo le serrature, il sistema che ci assicura il mantenimento materiale dei possesso; ed è scomparso il significato simbolico della soglia custodita da statue di grifoni o di sfingi o di dragoni alati o altre bestie sacre, come all’entrata delle case degli Egizi, degli Assiro-Babilonesi e ancor oggi dei Cinesi. I mostri custodi delle porte potevano esserne considerati un attributo perenne; la nostra assurda vita di portatori di chiavi ci appare come un rimedio di fortuna a una condizione d’emergenza, pur sapendo che non ci sono alternative possibili.
Van Gennep, per dimostrare che la porta principale delle case, consacrata da riti speciali e orientata in direzione favorevole, aveva le prerogative spirituali di margine tra il mondo esterno e quello familiare, mentre per gli usi impuri come l’uscita dei cadaveri (e delle donne nei periodi considerati impuri) erano usate le finestre o uscite secondarie, aggiunge, con ammirevole candore: «Di qui la preferenza dei ladri a entrare da aperture diverse dalla porta».
- Italo Calvino - da "Mondo scritto e mondo non scritto", Oscar Mondadori, 2002 -
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