"Negli Stati Uniti sono necessari soltanto tre ogni dieci lavoratori per produrre e rendere disponibili i beni che consumiamo. Tutto quello che estraiamo, progettiamo, costruiamo, elaboriamo, fabbrichiamo e trasportiamo - fin dalla preparazione di una tazza di caffè nella cucina di un ristorante da portare al tavolo di un cliente - viene realizzato da circa il 30% della forza lavoro del paese.
Il rimanente 70% di noi passa il proprio tempo pianificando che cosa fare, decidendo dove piazzare le cose che produciamo, realizzando servizi personali, conversando fra di loro e mantenendo il controllo du quello viene fatto, di modo da sapere quale dev'essere il passo successivo. E, tuttavia, nonostante questa nostra evidente capacità di produrre molto più di quello di cui abbiamo bisogno, non sembriamo essere così benedetti dalla sovrabbondanza. Uno dei grandi paradossi del nostro tempo consiste nel fatto che in un'epoca di abbondanza senza pari, i lavoratori e le famiglie della classe media continuano a vivere con difficoltà." (J. Bradford DeLong, professore di Economia presso l'Università della California, Berkeley, e ricercatore associato del National Bureau of Economic Research)
La prima cosa che salta all'occhio in questa constatazione, è la relazione fra lavoro produttivo ed improduttivo. Quando l'autore afferma che soltanto il 30% dei lavoratori americani produce tutto quello che viene consumato nel paese, dall'estrazione della materia prima fino al prodotto finale, inclusi i trasporti ed i servizi che sono in relazione col consumo produttivo, lui non lo sa ma sta constatando quello che Marx chiamava lavoro produttivo, in relazione alla generazione di plusvalore nella produzione di merci in quanto valore. Possiamo dire che il restante 70% dei lavoratori, cui si riferisce, stanno spendendo le loro energie in lavoro improduttivo, necessario al funzionamento del modo di produzione capitalista - un'impresa perderebbe il controllo della sua produzione e delle sue finanze, e probabilmente fallirebbe, se non contabilizzasse entrate ed uscite - ma che non genera plusvalore, anzi, al contrario, è piuttosto un "ostacolo" all'accumulazione di capitale.
Malgrado questa distinzione, la cosa non è poi così semplice, per cui quando osserviamo il processo produttivo nello spazio operativo di un'impresa, vediamo che la tendenza nella società capitalista è la riduzione del lavoro produttivo, attraverso l'introduzione di nuove tecnologie nella produzione che aumentino la produttività del lavoro, e l'espansione del lavoro improduttivo che consuma, ma non genera ricchezza "astratta". Questo processo apparentemente divergente rispetto al lavoro per quel che riguarda la costituzione di valore, spiegherebbe, in parte, la perdita nel tempo di potere d'acquisto da parte della "classe media e dei lavoratori", giacché il capitalismo in concorrenza globale tende ad aumentare l'utilizzo intensivo delle tecnologie, riducendo, con l'automazione della produzione, il consumo di "lavoro astratto" e la massa totale di plusvalore.
Il movimento per la terziarizzazione dei settori delle imprese, il quale cerca di trasformare il lavoro improduttivo in lavoro formatore di plusvalore, ossia, lavoro capace di generare "ricchezza astratta" (denaro), obiettivo finale del modo di produzione capitalistica, non impedisce il fatto che il lavoro improduttivo continui ad incrementarsi, ed il lavoro produttivo continui a diminuire. Recentemente, può essere trovata nella legislatura brasiliana la richiesta dell'approvazione di una legge che regolamenta ed estende la terziarizzazione, precedentemente limitata alle attività mediatiche, a tutti i settori delle imprese dove il lavoro improduttivo è più evidente.
La legge, già approvata alla Camera ed inviata al Senato, che regolamenta la terziarizzazione delle attività "fini", va oltre il voler liberare le imprese dal peso morto del lavoro improduttivo, trasformandolo in lavoro produttore di plusvalore nelle mani di terzi. La nuova legge, oltre ad ampliare la precarizzazione del lavoro e a garantire giuridicamente l'operazione per mezzo di "prestatori di servizi" relativamente a qualsiasi settore delle imprese che vogliono terziarizzare le proprie attività, reca in sé un segreto che non è stato discusso: la regolamentazione delle contrattazioni dei lavoratori in quanto "persone giuridiche, trasformandoli in "imprenditori di sé stessi", negando loro il vincolo occupazionale nonostante non cambino le relazioni lavorative che determinano questo vincolo. Il relatore conferma questa possibilità, quando commenta la situazione dei liberi professionisti che possono beneficiare della legge, anche come persone fisiche, contrattando "prestazioni di servizi", come in realtà già fanno gli assistenti degli studi legali, delle cliniche, degli ospedali e di altre imprese, le quali utilizzano ampiamente un simile espediente per farsi gioco delle vigenti leggi sul lavoro, prativa che ora con la nuova legge potrà essere generalizzata, mettendo fine a quello che ancora rimane dei diritti dei lavoratori.
Si cerca, con il supersfruttamento dei lavoratori - negando loro diritti lavorativi e sociali, unitamente all'elevato turn-over come stratagemma per la riduzione salariale -, di allievare la situazione delle imprese brasiliane tecnologicamente arretrate con una produttività molto al di sotto della media internazionale (la media annuale di incremento della produttività, nel Brasile dal 2007 al 2013, è stata dell'1,5%, mentre in Cina ed in India è cresciuta, nello stesso periodo, rispettivamente del 9,2% e del 6,8%), sempre meno competitiva e non in grado di reggere la concorrenza se non grazie al contributo statale. La regolamentazione della terziarizzazione per mezzo di questa legge, che amplia il campo di attuazione dei prestatori di servizi, pianta qualche chiodo nella bara della sicurezza sociale, indebolendo ulteriormente il già frammentato movimento sindacale ed accelerando lo smantellamento dello Stato sociale.
Riguardo al "paradosso del nostro tempo in cui lavoratori e famiglie della classe media continuano a vivere in difficoltà in un epoca di abbondanza senza precedenti", bisogna sapere di quale abbondanza si parla. Se ci si riferisce all'abbondanza di prodotti che possono soddisfare o meno le necessità del corpo e dell'anima degli avidi consumatori, possiamo essere d'accordo. Ma questi prodotti, nell'essere prodotti in quanto valore in cerca di realizzazione nella circolazione, per essere consumati devono essere comprati sul mercato indipendente dell'utilità che possono avere. Qui entra in gioco la questione della massa salariale in declino e della popolazione disoccupata superflua che non interessa più al sistema in quanto non ha potere d'acquisto e non ha a chi vendere la propria forza lavoro.
Possiamo affermare che la remunerazione "inadeguata" dei produttori di merci e la riduzione del tasso di profitto sono in relazione alla crisi di valorizzazione del capitale. Se nella produzione capitalista, il valore di una merce è determinato dal "tempo di lavoro socialmente necessario" (Marx), se in un continuum infinito la produzione di merci per unità di tempo tende ad aumentare, obbedendo alla cieca logica del capitale, la tendenza è l'aumento nella produzione totale di merci a causa dell'aumento di produttività, e la svalorizzazione del valore a causa della riduzione della sua sostanza, "il lavoro astratto" (Marx). Infatti, l'aumento della produttività del lavoro grazie alla rivoluzione tecnologica - inclusa l'automazione e l'organizzazione del processo di produzione in catene globali - tende, quindi, alla "svalorizzazione del valore" dei prodotti occasionalmente utili alle necessità umane, in un modo di produzione strutturato per consumare lavoro astratto e generare plusvalore. L'energia umana spesa a tal fine, dev'essere misurata in frazioni di un tempo lineare esterno alla vita.
Nella misura in cui la crisi del valore si aggrava, la tendenza del capitalismo è quella di aumentare la produzione di merci al fine di compensare la bassa redditività. Ma l'aumento della produzione di merci è possibile soltanto grazie alla intensificazione della produttività, la quale accelerata dalla concorrenza, paradossalmente, fa cadere ancora di più il consumo di "lavoro astratto", svalorizzando il valore incarnato fantasmaticamente nei corpi delle merci. Nella crisi di valorizzazione del capitale, non vi è contraddizione fra l'abbondanza e la povertà dei lavoratori e della classe media, in quanto alla crescita dell'abbondanza materiale si accompagna la caduta nella formazione di quella "ricchezza astratta" che paga i salari ed altre forme di reddito. Al contrario di quel che si immagina, la concentrazione di ricchezza è il sottoprodotto di questa dinamica incosciente. Nella crisi cronica di sovrapproduzione che da qui si origina, vi è un disallineamento completo fra produzione e consumo. Il collasso totale dell'economia viene ritardato dall'elasticità del credito e dal denaro "falso" (fittizio) generato nelle banche centrali e nel settore finanziario privato al fine di irrigare il consumo. La miseria intellettuale e spirituale che affligge il vuoto borghese è parte di questo contesto.
In questo limite, la crisi del sistema produttore di merci differisce dalle crisi cicliche che, una volta superate, fanno tornare la produzione capitalista ad un nuovo ciclo di espansione ad un diverso livello tecnologico ed in condizioni di incorporare nuovi contingenti di forza lavoro che possano generare plusvalore, ampliando il mercato per il consumo di vecchie e nuove merci. Quello che si osserva ora, nei diversi momenti di acutizzazione della crisi, è il superamento dei limiti tecnologici, accompagnato dalla riduzione del tempo di produzione grazie all'aumento della produttività e all'espulsione della forza lavoro che tende ad aumentare il numero di individui fuori dal mercato che non riescono più a scambiare il loro lavoro con altre merci.
Se il "limite interno assoluto" (Kurz) della valorizzazione del capitale è stato raggiunto, rendendo impossibile la crescita della massa totale di plusvalore e, di conseguenza, dell'accumulazione di "ricchezza astratta" come fine in sé di questa forma di produzione, si può affermare che la crisi che ne deriva non può essere superata dentro i limiti del capitalismo. Però, per compensare la riduzione dei profitti, le imprese tendono ad accelerare la produzione di cose materiali ed immateriali, utili ed inutili al consumo umano, che apportano ancora occulte vestigia di valore all'oggettività deforme delle forme mercantili. Tuttavia, queste imprese hanno bisogno di ampliare il mercato per poter vendere le loro merci e realizzare plusvalore. Ma per affrontare i concorrenti deve essere mantenuta la competitività che sarà possibile soltanto se aumenterà incessantemente la produttività.
Nella concorrenza globale, tendono ad avvantaggiarsi quei paesi le cui imprese sono agili nell'incorporazione delle tecnologie e che sono dotate di moderne infrastrutture che facilitano il rapido dislocamento delle merci. Le manovre cambiarie che tendono a svalutare artificialmente la moneta per aumentare la competitività, ricetta comune nei paesi in crisi, soprattutto nella periferia del capitalismo, sono soluzioni passeggere e si dimostrano insufficienti. Tuttavia, l'aumento della produttività e l'accumulazione di "ricchezza astratta" camminano in senso contrario quando si guarda alla cosa globalmente: se, individualmente, le imprese possono trarre vantaggio, rispetto ai concorrenti, quando aumentano la produttività, a livello generale si ha una riduzione della redditività in funzione della caduta della massa totale di plusvalore.
Ogni discussione sul mercato riguardo le difficoltà di "prezzare" le merci, è in relazione alla crisi del valore che tende a spingere i prezzi verso il basso contro la volontà degli agenti economici e, congiunturalmente, con la confusione che può provenire dalla manipolazione della moneta e del cambio. Il termine "prezzare" suggerisce l'illusione che i prezzi possano essere determinati dagli agenti del mercato indipendentemente dai fenomeni economici che hanno origine nella produzione, senza apparenti conseguenze. Nella manipolazione dei prezzi, si cerca sempre di fare più soldi di quello che essi possono rappresentare in quanto espressione di valore.
Quando si tratta di "prezzare" quelli che vengono chiamati prodotti finanziari, i cui attivi reali che servono da base per tali prodotti si trovano a leghe di distanza o possono addirittura non esistere, impacchettati e rimpacchettati nelle catene finanziarie, il prezzo perde ogni e qualsiasi riferimento in relazione all'economia reale, è pura finzione in relazione alla "oggettività del valore delle merci", intorno al quale dovrebbe orbitare. Un rialzo, nei momenti favorevoli dell'economia, genera montagne di capitale fittizio che si mette in agguato aspettando la prossima svalorizzazione. Una caduta, nei momenti di acutizzazione della crisi, li trasforma in polvere e può portare alla rovina imprese e nazioni, come abbiamo visto con sempre più intensità a partire dal 2007.
Nella variazione dei prezzi senza riferimento al valore reale dei prodotti, prevale la logica della formazione del capitale fittizio, delle bolle che scoppiano quando tale capitale soffre una grande svalorizzazione e si avvicina alla sua base reale. I governi, sempre pronti ad intervenire a favore del capitale, nel tentativo di evitare la brusca caduta dei prezzi nel corso delle crisi finanziarie, abbassano i tassi di interesse per quanto possibile e stampano denaro fittizio, come abbiamo visto negli Stati Uniti ed in Europa. L'altra forma di svalorizzazione del capitale nelle crisi avviene attraverso l'inflazione, il cui aumento viene osservato nei paesi della periferia del capitalismo. Nella congiuntura vigente, se i prezzi si avvicinano al valore reale delle merci che dovrebbero esprimere, il capitalismo entrerebbe in un collasso irreversibile.
fonte: Rumores da Crise
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