Per favore, cercate di non scrivere sui margini, grazie.
di Alfonso Vila Francés
È così difficile? È tanto difficile seguire le istruzioni? Lo si chiede per favore. Molto gentilmente. Ma non c'è modo, per quanto uno ci provi, e alla fine oltrepassa sempre dalla linea, e si calpesta il margine, uno dei margini. No, la macchina non si arrabbia. Si limita semplicemente a svolgere il proprio lavoro. E taglia via tutto ciò che tocca il margine. Ti taglia il braccio? Sculo! Non infilarlo dove non devi, non scendere dal marciapiede, non mettere la testa fuori dal finestrino. Poi, non puoi dire che non eri stato avvertito...
Tina Modotti ha passato metà della sua vita alla ricerca della libertà. E poi ha passato l'altra metà a cercare di rimanere nei margini del foglio, lungo il rigo che doveva scrivere. Sforzandosi dolorosamente di non scrivere una sola lettera al di fuori dei margini, quei margini che diventavano sempre più ampi e così permettevano sempre meno parole al loro interno. Alla fine lo spazio per le parole si era ridotto talmente, che non riusciva più a contenere nessuna parola che fosse troppo grande. Non c'era più spazio per la parola «felicità», né per la parola «speranza», e nemmeno, ovviamente, per la parola «libertà». E «aiuto»? Beh, no, nemmeno «aiuto» ci stava. E questo era il problema. Che lei ha cercato di gridarlo, ha cercato di chiedere disperatamente aiuto quando ormai non aveva più tempo nemmeno per gridare una sola parola, e la sua vita era circondata da un territorio immensamente morto e vuoto, da dei margini così insopportabilmente vasti che era impossibile per chiunque riuscire a sentire il suo grido. Beh, l'aveva voluto lei, ha detto la macchina. E quindi ha tagliato dove doveva tagliare. Allora... ha avuto il tempo di scrivere quello che non c'era. Soc... Soccor... Socorso... Mi sarebbe piaciuto concederle quest'ultima, misera consolazione, un ultimo grido liberatorio.
Ma molto probabilmente non c'è stato nemmeno quello. Non ha avuto nemmeno il tempo di urlare. Secondo la versione ufficiale (quella scritta dentro i margini), è morta in un taxi, in una notte buia messicana, la quale non era altro che una piccola parte della grande notte buia di tutto il mondo, nel 1943. Pino Cacucci, nel suo libro (Tina, Feltrinelli, 1991), ci dice che alcuni dei testimoni lo avevano ben chiaro: «Tipica eliminazione stalinista». Sì, lo era. Pino non afferma né nega nulla, ma quello che dice è sufficiente per dubitare della versione naturale, quella che evidentemente parla di una morte naturale; tanto naturale come può esserlo venire avvelenata a una cena con gli amici e con il suo ancora attuale amante, ma assai presto ex amante, il quale è un grande esperto di morti naturali, vale a dire, naturalmente provocate per farle apparire per quelle che sono, una «tipica eliminazione stalinista». Ah, che persone divertenti, con un gran senso dell'umorismo! Come Alberti, che scrive una poesia in suo onore e la dedica al suo presunto assassino, per dimostrare che un buon comunista ha lo stomaco per sopportare tutto, a meno che non venga avvelenato a una cena con altri comunisti, beninteso... E sì, ho scritto «presunto», ma solo perché costretto a farlo, poiché - sia che l'abbia uccisa direttamente oppure che l'abbia fatta uccidere, o che abbia lasciato che la uccidessero senza muovere un dito, o che l'abbia lasciata morire lentamente fino al punto che era ormai quasi morta quando hanno deciso di ucciderla - tutti questi sono solo dei piccoli dettagli senza alcuna importanza; la cosa fondamentale è che il nostro «comandante Carlos» (cioè Vittorio Vidali, cioè Enea Sormenti, cioè... ma cosa importa chi sia in realtà un agente stalinista, un agente il cui compito è quello di essere chiunque e inoltre di diventare non umano, di diventare una macchina che resta sempre dentro i margini?!! ) era l'uomo che controllava totalmente la sua vita, e ogni volta allargava da entrambi i lati il margine, in modo che così lei potesse, ogni volta, infilarci sempre meno parole. «Sono gli ordini». Sì, era questa la solita scusa. Era la meravigliosa scusa, buona per ogni cosa.
Poco prima della sua morte, Tina si era congedata da suo fratello, negli Stati Uniti, con un «Adiòs». E quando suo fratello le chiese perché «addio», e non piuttosto «arrivederci», Tina rispose tranquillamente: «Impossibile, è già come se fossi morta. Laggiù, in Messico, non riuscirò a sopravvivere». Questo fece sì che alcune persone pensassero che si era trattato di suicidio. In realtà, poco importa che sia stato un suicidio o un avvelenamento o una morte naturale, un infarto molto opportuno; poco importa poiché, come lei stessa ha confessato, doveva vivere con qualcuno che, una volta che aveva scoperto tutte le maschere e aveva strappato tutti i passaporti falsi, si rivelava per quello che era, un essere meschino e servile, un essere profondamente inumano, che si nasconde dietro il suo ruolo di patriota, di buon soldato, per giustificare qualsiasi omicidio e qualsiasi tradimento. «È solo un assassino... E mi ha coinvolto in un crimine mostruoso. Lo odio con tutta la mia anima. Eppure... sono obbligata a seguirlo fino in fondo. Fino alla morte». È lei stessa a confessarcelo, nel momento in cui sa già che non potrà più scrivere molte altre parole, senza andare fuori dai margini. E lì non c'è niente.
Ma il problema è che non c'è niente neanche dentro i margini. Prima, un tempo, una capanna nella foresta poteva essere un rifugio. Ora non c'è più la capanna, è rimasta solo la foresta. All'inizio, quando aveva abbandonato la fotografia e aveva abbracciato il comunismo, si poteva giustificare tutto, e tutto sembrava avere un senso. E se si doveva mentire a un giudice, si mentiva, e se dovevi ingannare un giornalista, lo ingannavi, e se dovevi voltare le spalle a un ex compagno, gli voltavi le spalle. Fino al giorno in cui si viene a scoprire che non si riuscirà mai a essere una macchina perfetta, perché ti diventa sempre più difficile attenerti ai limiti che sono stati fissati, e ti domandi cosa c'è in te che non va, quando in realtà non c'è niente in te che non vada , o se c'è qualcosa che non va, è la tua stessa natura umana, che prima o poi ti farà commettere l'errore fatale che ti farà uscire dal tuo spazio sicuro, e sai che fuori da quello spazio (che diventa sempre più ristretto) non può esistere niente.
Le ragioni per cui le persone potevano finire in un gulag in Siberia sono ben note. Nei suoi libri, Orlando Figes, un grande conoscitore dell'epoca stalinista, ne racconta molte. La maggior parte degli accusati erano (che sorpresa!) del tutto innocenti. Un altro libro molto doloroso, ma molto necessario, è quello di Vitali Shentalinski, "Esclavos de la libertad: Los archivos literarios del KGB". Il libro è una selezione di alcuni dossier presi dagli archivi della polizia segreta. Ci sono molti scrittori, ma abbiamo anche il caso di persone del tutto anonime, come un contadino che finì per essere condannato ai lavori forzati e subì ogni tipo di tortura e punizione fisica per un crimine che a noi sembrerà incredibilmente insignificante: avere una carta d'identità scaduta.
Tina e il suo amante, l'inafferrabile ed efficiente Comandante Carlos, facevano parte di questa grande macchina di repressione e di morte. Non lavoravano all'interno del paese, bensì all'estero, ma il loro lavoro era essenzialmente lo stesso, metà poliziotti metà spie, in pratica agenti di Stalin incaricati di assicurare che tutti i suoi ordini venissero rigidamente eseguiti, avevano il compito di perseguitare, squalificare, insultare, umiliare, isolare e infine eliminare chi non eseguiva quegli ordini. Come aveva potuto una fotografa come Tina, andata in Messico alla ricerca di una vita gioiosa, felice, radiosa, creativa, consacrata al piacere e all'arte, finire per entrare nel Partito Comunista e diventare la collaboratrice efficiente e silenziosa di uno dei principali boia di Stalin fuori dall'URSS?
In tutto questo, la cosa terribile è che a un certo punto anche loro stessi avevano capito quanto fosse difficile rimanere in riga. Anche per loro, arrivò il momento in cui cominciarono ad avere paura. Venne offerto di tornare in Russia, nella "madrepatria", per una breve vacanza, prima di partire per una nuova missione, in un nuovo paese. E solo l'idea apparve loro terribile. Tornare in URSS significava affrontare una morte certa. Cos', invece di accettare l'offerta, preferirono partire immediatamente per la loro nuova missione, la quale, fortunatamente, sarebbe stata ben lontana dall'Unione Sovietica. No, non si trattava di senso del dovere, non era "zelo rivoluzionario", e questo non perché avessero fallito nei loro doveri, o avessero commesso qualche crimine, o avessero in qualche modo attentato al loro governo; semplicemente, erano consapevoli di quanto potesse essere burlone il compagno Stalin, sapevano quanto fosse meticoloso e paziente allorché preparava le sue battute, e quanto incredibilmente rapido fosse nel metterle in pratica, talmente veloce che quando la morte sparava il suo improvviso flash abbagliante, nella foto si rimaneva per sempre con un'espressione congelata tra l'ammirazione e l'orrore.
E come vivere, una volta saputo tutto questo? Come vivere sapendo che il tuo destino è scritto in anticipo da una macchina che ti strappa via le parole, sapendo che tutto quello per cui hai lottato, tutto quello per cui ti sei sacrificato, tutto quello che hai fatto per i tuoi grandi ideali (la pace, il futuro dell'umanità, la felicità e la libertà umana, la giustizia, la solidarietà... ), alla fine tutto ciò non è altro che una terribile bugia, una bugia che serve solo a mantenere al potere un tiranno che quanto meno è altrettanto vile di quei tiranni che si suppone tu stia cercando di combattere, un tiranno che non ha alcuno scrupolo nel fare un patto con Hitler, suo nemico dichiarato ed eterno, e a lasciare che gli americani uccidano Sandino e i suoi seguaci, poiché questo «non è il momento per altre rivoluzioni», né in Nicaragua né a Cuba né altrove, un tiranno che si lascia coinvolgere nella guerra civile spagnola al fine di ripulire il paese dai troskisti e dagli anarchici (e pure traendone vantaggio, tra l'altro, facendosi pagare in lingotti d'oro, dal momento che dare aiuto gratis non è mai un buon affare), un tiranno che è capace di far sì che nessuno, proprio nessuno, né il migliore dei suoi spioni, né il migliore dei suoi generali, né il migliore dei suoi poliziotti, né il migliore dei suoi ingegneri, né il migliore dei suoi medici, possa dormire tranquillo una sola notte... E si potrebbe continuare ancora per un po', ma è sufficiente citare la frase che l'ex ministro repubblicano Jesús Hernández disse proprio a Tina, quando i due si incontrarono in Messico una volta finita la guerra civile: «Stalin e la sua banda di assassini hanno trasformato la parola comunista in un insulto».
Ma in realtà il problema non era Stalin. Il problema era l'incapacità dell'essere umano di fare il proprio lavoro in maniera fredda e disumana. Era la sua mania di protestare sempre, di avere uno strano senso della giustizia, di criticare e dubitare e insistere a provare simpatia per le vittime, per gli altri esseri umani, per gli esseri che ci circondano e le cui vite sono così simili alle nostre, esseri con cui andiamo a letto e facciamo figli e condividiamo dolori e gioie e che poi un giorno dobbiamo denunciare alla grande macchina, perché essi sono andati fuori dalle righe, perché hanno superato i margini, perché non riescono semplicemente a limitarsi a fare quello che devono fare: tacere quando è il momento di tacere e accusare quando è il momento di accusare. È poi così tanto difficile? È così difficile dar retta alla macchina che ti dice quale parola scrivere in quel preciso momento?
Olympe de Gouges volle fare il grande salto. Prese la rincorsa e saltò sul bordo della pagina. Non invase il margine, ci saltò sopra. E cadde dritta nella ghigliottina. Il suo caso è molto istruttivo, ma purtroppo l'essere umano ha la memoria corta. Anche Clara Campoamor non ha saputo rispettare i margini. O in alto o in basso, o a sinistra o a destra, niente da fare, non c'era modo, alla fine voleva scrivere talmente tanto che finiva sempre sul margine... Criticò aspramente il governo repubblicano, anche se lei stessa faceva parte del governo repubblicano. E tutto questo a che scopo? Quando stava scappando su una nave diretta in Messico, venne riconosciuta da alcuni falangisti che volevano ucciderla. Ma anche se non l'hanno uccisa, fecero qualcos'altro: cancellarono le sue parole. Tutte le sue parole. Quelle fuori dal margine e quelle dentro il margine. Il suo libro "La revolución española vista por una republicana" venne scritto in francese nel 1937, ma non fu mai tradotto in spagnolo fino al 2002. E se ci si chiede il perché di questo ritardo: ha detto cose che non sono piaciute né a una parte né all'altra? Ha infilato un piede o una mano dove non doveva? E la stessa cosa è successa a Chaves Nogales, che dopo aver detto che «la Spagna non sarà né comunista né fascista», dovette scegliere tra essere fucilato dai comunisti o essere fucilato dai fascisti. Chaves Nogales voleva scrivere bene, correttamente e in maniera pulita, non voleva che le sue parole si sporcassero del fango dei margini, non voleva cadere in quel pantano sempre più pieno di pozze di sangue. Morì presto. E in silenzio. Attaccare gli uni o gli altri, significava farli arrabbiare tutti. Gli scrittori che andavano ai congressi degli scrittori a gridare slogan di partito, e gli scrittori che scrivevano sui giornali ufficiali per dire chi sarebbe stato fucilato quella settimana. Chi non sa stare in riga, e rispettare i margini, può finire nel canale di scolo o sotto la neve in Siberia. La colpa non è della macchina. È colpa nostra, che siamo così inutilmente umani.
- Alfonso Vila Francés - Giugno 2021 -
fonte: Jot Down
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