sabato 28 dicembre 2024

Telecamere, algoritmi e Glock Mod.40 !!

Per una critica dell'identitarismo: seri problemi con l'identitarismo benintenzionato
- In ultima analisi, rimane legato alla dinamica del “non ci sono alternative”, in quanto reattivo e di nicchia. La ricerca di sé ostacola il senso di appartenenza e la lotta comune, cosa che fa comodo al capitalismo, soprattutto nel XXI secolo. Inoltre, i suoi striscioni possono essere molto redditizi -
di Douglas Barros

È evidente che il colonialismo, in quanto costituzione immaginaria, si sia perpetuato nelle forme che organizzano la nostra vita contemporanea. Nel corso del XX secolo,tuttavia, sono state fatte numerose scommesse circa il fatto che la modernizzazione sarebbe stata in grado di superare le disuguaglianze razziali o di genere, sanando quindi le ferite aperte dalla tragedia coloniale. Oggi, nel ventunesimo secolo, si può dire che queste promesse sono ormai diventate illusioni perdute. Con lo sviluppo del capitalismo, il carattere escludente della macchina del mondo moderno è sempre più cresciuto. Per legittimare questa esclusione, la nozione di razza è diventata dappertutto l'olio che lubrifica la macchina di un inconscio che ormai ha naturalizzato la separazione umana tra le razze. Basta guardare alla rivolta di estrema destra nel Regno Unito, avvenuta la scorsa settimana, per capire come la nozione di razza continui a essere sempre la leva privilegiata del fascismo. E come se non bastasse, il capitalismo del XXI secolo ha imparato che, lontano dalla tensione tra padrone e schiavo, il lavoratore può essere portato a collaborare. A tal fine, il dirottamento della loro domanda, legandola al consumo, sarebbe stato fondamentale, allo stesso tempo in cui, nella gestione della vita sociale, sarebbe stato necessario riconoscere in maniera unilaterale tutte quelle rivendicazioni di appartenenza a gruppi che sarebbero servite a nascondere la dimensione concreta delle lotte. È forse per rispondere a un simile quadro che può essere importante ricordare una critica dialettica che si è verificata almeno a partire dalla metà del secolo scorso, nel corso della quale si percepiva che il razzialismo e il razzismo formavano già un insieme dinamico. Il razzialismo in sé, non solo genera la sua controparte, come ha detto Stuart Hall; è la razza che produce il razzismo, mentre per mantenere il suo significato essa dipende dal razzismo. È stato così che, a mio avviso, il tema dell'identità, sequestrato dalla logica neoliberale, ha subito uno svuotamento quando si è adeguato ai limiti necessari di quella gestione. Qui abbiamo dei problemi fondamentali e non possiamo evitare di discuterne. Comincerò con quanto segue:

1) - Dal momento che non possiamo dubitare del fatto che l'identità - assunta come fine ultimo del soggetto - costituisca un'oggettivazione di sé stessi, non possiamo fare a meno di osservare il modo in cui l'orizzonte storico della modernità abbia favorito l'identificazione dei vari gruppi umani. Ed è stato questo, nel colonialismo, a stabilire la nozione di razza.
2) - È in questa terribile contraddizione che si costituisce la storia moderna: in una dialettica nella quale l'affermazione del singolo, in quanto esclusa dai processi di organizzazione dello status quo, ha il potenziale per annullare la logica sociale che organizza il rapporto di riproduzione della vita, responsabile di tale esclusione.

Il problema attuale è che gli impatti della gestione neoliberista necessitano di essere osservati, poiché la nozione di identità che si basa sull'idea di incontrare un in-sé di sé stesso del tutto trasparente, costituisce una violenza oggettivante che calza come un guanto in una società di nicchia come la nostra. Per cui, non è assurdo affermate che nella forma di gestione del capitalismo del XXI secolo, l'identità viene definita come se si trattasse di qualcosa di privato; una zona di riserva del mercato nella quale si impongono i modi corretti di esprimersi. Possiamo anche lamentarci del nostro dolore, purché esso non si globalizzi nel tessuto sociale, purché rimanga appannaggio di gruppi specifici. E pertanto l'altro rappresenta solo l'identificazione dell'io con sé stesso, in quanto esprime in maniera fantasiosa ciò che io sono, e tale incontro viene mediato dal nostro rapporto con il mercato e con la sua concorrenza. Tutto si riduce al campo della giurisdizione, e pertanto l'identità viene dirottata sul terreno del management, e riattivata sotto forma di modalità di appartenenza organizzata per mezzo del mercato. Ma la cosa più problematica, è che la mobilitazione identitaria diventa profondamente reattiva, dal momento che essa elimina non solo la necessaria mutazione soggettiva, che si può trovare nell'esperienza umana, ma ripristina anche lo status quo a partire dall'organizzazione di una competizione, delimitata dal mercato, di tutti contro tutti. Per avere un'idea di un tale processo, basta osservare l'antirazzismo identitario, il quale non cerca mai di superare in maniera definitiva la razzializzazione. La cosa curiosa è che non lo fa per una scelta consapevole, ma proprio perché il razzismo si è trasformato nell'unica ragione della sua propria stessa sopravvivenza. Vale a dire che è il razzismo ciò che rende possibile la sua stessa esistenza in quanto significato e azione; per non parlare del fatto che l'agenda razziale è diventata molto redditizia ... Si tratta, perciò, di un antirazzismo razzialista, totalmente legato alla dinamica del "non ci sono alternative". Ciò che rimane a questo antirazzismo, è solamente la disputa interna per poter dirigere quello che sono i presupposti logici del capitalismo contemporaneo. Come mostra Haider: l'espressione "politica identitaria" è partita da un gruppo di militanti nere e lesbiche che avevano come orizzonte il socialismo rivoluzionario [*1]. Secondo le argomentazioni di "Combate River" – un collettivo nero e femminista – diventa esplicito marcare l'identità in quanto costruzione, e non semplicemente come una scoperta. Per loro si tratta di identificazioni che, pur non evocando alcuna essenza, non per questo smettono di dare un senso alla pratica politica del collettivo: «non siamo solo donne, non siamo solo nere, non siamo solo lesbiche» si legge nel manifesto, che poi prosegue, «non siamo solo appartenenti alla classe operaia».

Che cosa sono? «Persone che incarnano tutte queste identità» [*2]. Se nessuna identificazione determina l'essenza di un soggetto, allora ciò che il soggetto è risiede nella sua capacità di transitare attraverso tutte le identificazioni [*3], e il collettivo rivendica tali identificazioni in modo da dare materialità alla trasformazione che propone. Come ha fatto questa posizione così ricca e complessa a trasfigurarsi nel suo opposto? In che modo la trasformazione sociale nel capitalismo ha reso la nozione di identità un fine in sé? Si tratta di un problema che è ancora fondamentale. Nonostante tutta la sua fantasia, l'identità designa un problema concreto le cui implicazioni nella vita soggettiva sono centrali. Nella società odierna, tuttavia, c'è la falsa percezione secondo cui il razzismo e il sessismo sarebbero problemi che si riferiscono solo ed esclusivamente all'identità/differenza. La conclusione, che si nasconde dentro una simile idea, è che la risoluzione dei conflitti della differenza avviene nella gestione del capitalismo stesso. In questa convinzione continua a esistere il mantenimento di un immaginario che garantisce lo status quo neoliberista; cioè, si dimentica che il problema dei neri risiede nell'ingiustizia razziale necessaria alla disuguaglianza sociale; per cui la radice del loro problema risiede solo nello sfruttamento radicale a cui sono stati sottoposti; per collegarlo così alla negritudine e alle forme di riconoscimento statale. A questa prospettiva – una risoluzione del "conflitto sociale" che avviene a livello di un'identità che viene esclusa dai processi sociali e storici – si contrappone il paradigma fanoniano che non si riduce all'idea di un'analisi secondo cui è l'oppressione che genera la resistenza. Il martinicano va ben oltre; la resistenza è soltanto un momento della riorganizzazione simbolica del razzializzato, al quale essa fornisce un'identità evanescente. Diventa il ponte che il razializzato attraversa, al fine di superare radicalmente quella stessa struttura sociale che divide l'umanità in razze.

L'identità è solo un rapido passaggio che consolida velocemente l'esperienza della soggettività, e fa dell'individuo un soggetto capace di dare senso alle sue azioni. Nell'attuale spazio ideologico, tuttavia, la sofferenza - che ha cause materiali e simboliche - viene ridotta alla nozione narcisistica individuale. La persona identitarizzata vive la propria sofferenza come se fosse qualcosa di esclusivo, e la gestione di questa sofferenza a sua volta opera un'estetizzazione politica che si lega alle nozioni di competizione e di meritocrazia. Nell'ingegneria sociale di oggi, l'identità deve avere un carattere essenzialista. Essa viene pertanto a essere strombazzata quotidianamente, in una società iperconnessa, dove l'immagine appare immediatamente come se fosse la verità. Pertanto, allora, la voce che umanizza questa sofferenza viene oggettivata, e quindi ridotta alla difesa del proprio luogo. All'interno dell'operazionalizzazione del luogo, in quanto luogo protetto, la gestione della sofferenza avviene passivamente, incarnata nel rappresentante in quanto vincitore che appare come un'eccezione. Si tratta di una riduzione all'ideologia dell'efficacia, la quale smorza e oscura l'oscenità della violenza che sostiene l'ordine grazie a quei pochi neri che hanno vinto. E così alla logica dell'ideologia del capitalismo ora vengono offerti gli strumenti necessari: l'idea che il problema stia nel management e che, perciò, è necessario creare spazi e strumenti per poter assorbire la differenza. Si creano spazi liberi dall'ostilità del contraddittorio, si propaga una trasgressione, si calcola statisticamente, e si forniscono elementi per la soddisfazione di non venire negati. Il corpo diventa qualcosa in cui si esprime una divinità fantasticata, e la gestione dell'identità diventa la neutralizzazione di eventuali movimenti potenzialmente rivoluzionari, in nome della nomina di dirigenti e rappresentanti di un gruppo specifico. Per comprendere questa ingegneria sociale, è necessario tornare al colonialismo. È in questo che l'identitarismo, inventato dai colonizzatori, si basava: la costruzione di un'identità racchiusa in un'identificazione esterna, al fine di controllare il processo di colonizzazione schiavista dei vari territori. Il fatto che questa chiusura sia necessaria per l'attuale amministrazione, la dice lunga su ciò che Mbembe chiama, giustamente, neo-schiavitù. La novità è che questo processo ha talmente tanta sottigliezza che passa quasi inosservato dalla critica. La chiusura dell'identità - sostenuta narcisisticamente dall'identificazione di sé attraverso un gruppo, senza la necessità della differenza vista come mediazione del sé - esprime radicalmente il modo in cui l'ideologia identitaria abbia preso il sopravvento sulle forme di lotte che, invece, partivano dall'identità per mettere in discussione l'insieme sociale. L'identitarismo,  più che un'opzione, è in realtà un modello di gestione, e ci attraversa da cima a fondo. In questo modo, i gruppi, storicamente subalternizzati, diventano ostaggi di questa logica, la quale è, soprattutto, una logica di sopravvivenza drammatica in una crisi permanente e in mezzo all'eterna sorveglianza delle telecamere, degli algoritmi e della Glock Mod.40 del poliziotto.

La perversione del processo consiste nel rendere parte degli identitarizzati (neri, latini, musulmani, LBGTQIA+, ecc.), non solo impegnati nel processo di identificazione, ma spesso persino nelle sue forme di controllo. È importante ricordare come l'identitarismo sia stato l'omicidio dell'alterità, a partire dal momento in cui l'Europa ha fabbricato l'identità per tutte quelle popolazioni che all'inizio della modernità si trovavano di là del mondo. Lo svuotamento delle potenzialità trasformative dell'identità, si è poi lentamente consolidato, in epoca contemporanea, con il capitalismo del ventunesimo secolo, re-identificando le identità per gestirlo. Scommettere sull'identitarismo come via d'uscita dai problemi attuali - che comprendono anche il massacro attuato in nome della razza -  più che di ingenuità, parla di collaborazione con tutto ciò che si è detto. Contro questa posizione si erge Fanon, che ci impone la necessità di pensare al nero, non per ridurlo a ciò che viene organizzato dall'identitarismo coloniale, ma per comprendere in maniera radicale la fonte delle sofferenze e dei disagi perpetuate e mantenute dall'eredità coloniale, per superarle, superando il modo in cui riproduciamo la nostra vita sociale. Questa posizione può essere assunta solo ragionando su tutto ciò che è dialettico nella logica dell'identità, tenendo presente che essa, oltre a essere una fantasia, ha bisogno di essere caratterizzata. Per fortuna, molti prima di noi hanno analizzato questo problema, non si tratta di un problema nuovo. Asad Haider, ad esempio, ci parla di una singolare conversazione con Malcolm X in cui egli avrebbe detto nel 1964: «non si può avere capitalismo senza razzismo». Mettere a nudo la struttura che organizza il razzismo vedendola come gestione della razzialità, consente a Malcolm di orientarsi verso l'uscita dall'identità che gli viene offerta dalla riproduzione sociale che organizza gli spazi razziali. Malcolm X è stato ucciso proprio perché voleva andare oltre i limiti dell'identità. Tornare alla sua risposta, è più che necessario è urgente in un mondo in cui il futuro del capitalismo minaccia di portarci all'estinzione. Se il razzismo sarà sconfitto grazie a una nuova forma di socialità... questo non lo so. Quello che so per certo è che nel modo in cui viviamo, non lo sarà mai, dal momento che esso è una parte fondante del sistema e in questo momento sta attuando un orribile genocidio a Gaza. In effetti, è quello il luogo in cui l'identitarismo si mostra in tutte le sue potenzialità catastrofiche.

- Douglas Barros  - Pubblicato il 16/8/2024 - fonte: Outras Palavras -

NOTE:

1 - HAIDER, Asad. Armadilha da identidade: raça e classe nos dias de hoje. Tradução Leo Vinicius Liberato. São Paulo: Veneta, 2019, p.31

2 – HAIDER Asad , 2012, p.32

3 - BEAUVOIR, S. O segundo sexo: fatos e mitos. Rio de Janeiro: Nova Fronteira, 2016

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