Cosa hanno in comune la guerra in Ucraina, la sostenibilità ambientale, l’arte contemporanea, il digitale, la business ethics, ovvero l’imprenditoria attenta alle questioni di equità, e il rapporto tra religione e politica? Sebastiano Maffettone prova qui ad analizzare il nostro presente con la lente della filosofia, che appare più necessaria che mai alla luce della complessità del mondo. Ogni riflessione è collegata all’altra da un fil rouge che accompagna lo sguardo del lettore attraverso le tensioni dialettiche della realtà. In questo modo, Maffettone costruisce un’originale impalcatura per una filosofia del presente.
(dal risvolto di copertina di: Sebastiano Maffettone, "Il nostro tempo con il pensiero. Una filosofia del presente". Mimesis, pp. 300, €20,90)
Una filosofia che aiuti a navigare nel tempo presente. Oltre le categorie
- di Sebastiano Maffettone -
Il nostro tempo con il pensiero è uno strano libro di filosofia. In quanto ai temi trattati nel libro sono nella maggior parte dei casi presi dalla realtà dei nostri anni, come del resto è normale per uno che voglia occuparsi del «nostro tempo con il pensiero». Nel volere fare qualcosa del genere, c’è già una piccola eccezione alla regola. Di fatto, spesso e volentieri i libri di filosofia sono dedicati a trattare nodi teoretici specifici oppure grandi autori passati o presenti. Questo libro invece dedica solo due (su dodici totali) capitoli a temi così concepiti. Ma - come può constatare facilmente il lettore volenteroso - in entrambi questi casi c’è una connessione teoretica forte e chiara con il presente. Più specificamente, il capitolo iniziale sulla logica del senso, non a caso un’espressione presa in prestito da Deleuze, fa il punto sulla crisi della normatività e l’impossibilità di credere in un «noi» che consenta di partire da criteri condivisi nella teoria come nella pratica. Se volete, questa è da un lato la ragione di quel punto interrogativo invisibile alla fine del titolo di cui ho fatto menzione sopra, e dall’altro il motivo per cui un insieme di principi normativi tradizionali diciamo così alla Kant non sono più facilmente condivisibili. E l’altro capitolo diciamo così più tradizionale - quello su Rawls - riprende questo tema dell’incertezza normativa per mettere in discussione il pensiero dell’autore che mi ha più influenzato in oramai quasi mezzo secolo (Rawls). Non è facile capire come farlo e dove trovare ispirazione alternativa, ma è certo che ci si muove oggi in un orizzonte diverso. Gli altri capitoli, invece, affrontano problemi contemporanei nell’ottica di quella «filosofia del presente» che sta nel sottotitolo del volume e ispira l’opera tutta. Si può, in questa ottica, partire da due capitoli di natura affatto generale, che discutono tematiche tra di loro connesse. Il primo dei due discute del secolarismo ai nostri giorni. Con due convinzioni: in primo luogo, il secolarismo di fatto non è mai esistito se non in qualche dipartimento universitario dell’Europa Occidentale; in secondo luogo, quello che conta davvero non è il secolarismo delle persone ma quello delle istituzioni, che io chiamo liberalismo. L’illuminismo poi è visto in chiave europea.È addirittura sorprendente notare come la fondazione della Ue prenda ispirazione dai principi kantiani che regolano i rapporti tra i popoli nel suo noto saggio del 1795 sulla Pace Perpetua (mai così attuale come oggi…). Il Capitolo sulla «guerra giusta» è poi il più gettonato di questi tempi, come ho potuto constatare dalle reazioni al libro e come in fondo è ovvio. La tesi è semplice, anche se non sempre lo sono le conseguenze che ne derivano. La guerra è sempre un male estremo, ma non tutte le guerre sono uguali tra loro. Alcune, come da un’illustre tradizione che risale a Sant’Agostino e San Tommaso, sono giustificabili. La giustificazione dipende da una iuxta causa e da un titolo valido a farla propria. Come si possono applicare tali criteri astratti casi concreti come quello della guerra in Ucraina? Lo si può sapere leggendo il capitolo in questione che lascia comunque molto spazio per il pluralismo delle interpretazioni. Insieme alla guerra, l’altro macro-evento che ha turbato il nostro spirito negli ultimi anni è stata la pandemia. Nel libro viene discussa in un’ottica filosofica che permette di mettere insieme aspetti clinici e politico-sociali della vicenda da un punto di vista genericamente biopolitico (per usare il termine reso famoso da Foucault). Negli ultimi anni, gran parte della mia attività è stata dedicata all’impegno di ricerca collegato all’etica pubblica e all’Osservatorio Ethos della Luiss. Quattro capitoli del libro riflettono più direttamente questa esperienza. Si tratta da un lato dei capitoli su Business ethics e sostenibilità, due temi su cui Ethos è leader scientifico e che ha visto lo scorso anno una sua celebrazione nel Festival di etica pubblica dedicato a Etica e Impresa. Gli altri due temi –connessi a Ethos – riguardano l’arte, che Ethos ha diffuso in Luiss in collaborazione con gli studenti di Ethos Young. E infine il capitolo su etica e intelligenza artificiale su cui io sto lavorando da tempo con Paolo Benanti, e che è stato presentato da Ethos nel Festival di Etica Pubblica del 2022 dedicato a Vite Digitali. Al di sotto di tutto ciò c’è un dubbio profondo: è possibile parlare del tempo presente en philosophe? Non è difficile intuire che, nel farlo, si rischia di rimanere impantanati a metà strada tra falso giornalismo e filosofia di maniera. A questo dubbio se ne aggiunge un altro: come si fa a discutere seriamente se i criteri di verità e giustizia non sono condivisi? In altre parole la filosofia ci aiuta a navigare come una barca in mare aperto. Entrambi i dubbi sono stati vinti dalla volontà di mettere le proprie categorie alla prova della realtà, cercando di cambiarle poco alla volta. Perché, come diceva saggiamente Keynes, quando cambiano i fatti vanno cambiate anche le nostre opinioni.
- Sebastiano Maffettone - Pubblicato su Domenica del 17/3/2024 -
Idee per capire il presente
- Il populismo, il Covid, la guerra... l’originale indagine di Sebastiano Maffettone -
di Maurizio Ferraris
Il libro di Sebastiano Maffettone, "Il nostro tempo con il pensiero" (Mimesis), nasce da una tensione. Da una parte, l’esigenza della normatività, del movimento dall’alto in basso che pone dei princìpi e si impegna ad applicarli: il grande modello è quello dell’imperativo categorico di Kant: si pone un obbligo morale che vale indipendentemente dagli obiettivi empirici che possiamo conseguire, e lo si segue. Dall’altra, ci sono gli obiettivi, le circostanze, tutto il mondo che procede dal basso, dalla sfera dell’esperienza, della storia e degli interessi concreti. Gettare un ponte fra le due dimensioni è il compito dell’etica pubblica, l’ambito in cui Maffettone ha esteso la sua lunga attività filosofica. A partire da questa tensione possiamo capire il senso del richiamo a Hegel che dà il titolo al libro: la filosofia è il nostro tempo compreso concettualmente. Una visione del filosofare che può tradursi in un impressionismo filosofico come quello teorizzato a suo tempo da Gianni Vattimo, nel quale prevalevano il richiamo alla storia e all’esperienza e il rifiuto della normatività e dell’apriori, o una ontologia dell’attualità come quella elaborata dall’ultimo Foucault, dove invece dall’empirico ci si sforza di risalire al trascendentale, al livello della normatività. Scartando l’una e l’altra ipotesi, Maffettone apre un gioco serrato tra le due dimensioni, la normatività e l’esperienza, con una dialettica attiva nel corso di tutta l’opera che tiene fermo il nucleo teorico fondamentale e lo declina in una sorprendente varietà di ambiti (politica, giustizia, religione, liberalismo, economia, sostenibilità). Nel farlo, si rivela a proprio agio anche in temi strettamente connessi con il mondo storico, come il ruolo esemplare dell’Unione Europea, la definizione e la giustificazione della guerra giusta (in riferimento all’Ucraina), le ripercussioni sociali e politiche del Covid, l’Intelligenza artificiale, l’arte, per concludere con un ricordo di Salvatore Veca, maestro e amico scomparso nel 2021. Quanto alla normatività, i modelli sono due grandi partigiani dell’illuminismo: John Rawls (di cui Maffettone a suo tempo tradusse l’opera fondamentale, Una teoria della giustizia, 1971) e Jürgen Habermas. Ma il loro tempo non è più il nostro, in mezzo c’è stato il postmoderno che ha rimescolato le carte. In particolare, con il venir meno delle grandi narrazioni della modernità, tutti i processi di giustificazione dell’agire morale e politico dall’alto in basso sono stati scossi. La comunicazione dal basso che ha luogo nel web (con connessi effetti di post-verità e di populismo), il sospetto nei confronti delle misure preventive proposte dagli Stati nell’epoca della pandemia, ma anche il ritorno della religione in un contesto che si sentiva completamente secolarizzato non sono che alcuni dei fenomeni che si sono presentati in un’epoca che convenzionalmente potremmo far iniziare nel 1979, solo otto anni dopo l’apparizione del monumentale volume di Rawls, quando Lyotard fece uscire un libro di poco più di cento pagine, "La condizione postmoderna", che segnò l’ingresso del postmoderno (già presente nella letteratura e nell’architettura) in filosofia e in un più ampio dibattito pubblico. Habermas attaccò il postmodernismo in "Il discorso filosofico della modernità" (1985), in cui criticava i maggiori esponenti filosofici della corrente, la cosiddetta French Theory (Derrida e Foucault prima di tutti), ne rintracciava gli antefatti (in Nietzsche e nella "Dialettica dell’illuminismo" di Horkheimer e Adorno), ma si limitava a proporre un progetto formale, quello di un rilancio del programma illuminista, l’unione del sapere e della progettualità sociale e politica per il progresso dell’umanità. Troppo poco, tanto è vero che, mentre il postmoderno occupava ogni spazio del dibattito pubblico e della coscienza comune, le idee di Habermas restavano confinate nei seminari filosofici, e anche lì erano insidiate dai postmoderni. Maffettone riconosce con chiarezza questo aspetto, e propone una strategia nuova e originale, che si potrebbe definire come una riscrittura del progetto dell’illuminismo alla luce delle obiezioni dei postmoderni. Quello che emerge è uno sguardo sul presente assolutamente originale. Nel momento in cui i catastrofisti vedono nel presente un trionfo del populismo, l’affermarsi di un regime biopolitico di sorveglianza, un venir meno della giustificazione della politica, una crescita incontrollata del capitalismo, Maffettone raccoglie quello che c’è di legittimo in queste istanze ma lo traghetta in una diversa dimensione. È indubbio che la nostra sia un’epoca in cui il populismo è una realtà ineludibile con cui fare i conti, è vero che nella gestione della pandemia si è registrato un controllo biopolitico, con una oggettiva limitazione della libertà. Ed è vero che la politica, nell’epoca del web, è profondamente mutata, ma può essere compresa e non semplicemente demonizzata. Così come è necessario capire che il capitalismo non è necessariamente un male, e costituisce anzi una risorsa per il progresso, se mitigato con le risorse della razionalità e della solidarietà. Ne esce un libro profondamente controcorrente nella sua pacatezza. Un libro che getta sul presente molta più luce di quanto non facciano teorie più urlate e allarmistiche. Un libro che chiede pazienza e raccoglimento, e li ripaga — mantenendo la promessa enunciata nel titolo — con il piacere di comprendere riflessivamente il tempo in cui viviamo.
- Maurizio Ferraris - Pubblicato sul Corriere della Sera del 31/3/2024 -
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