Tra l'Intimità e la Storia
- A proposito di un poster e Jean Genet -
di Jean-Luc DEBRY
Ho trovato questo poster appeso all'ingresso di un cinema che stava in fondo a un hangar, una specie di mercatino delle pulci, nel 2006 ad Aleppo (Siria), in mezzo a un capharnaüm di oggetti d'antiquariato, come direbbero i moderni. Questa allegoria, ispirata a sentimenti d'altri tempi, e il posto delle donne nella lotta così come simboleggiato da questa intimità durante un momento di relax nel quale un uomo e una donna, - due combattenti-soldati ovviamente - discutono come su come flirti in qualsiasi luogo dovunque nel mondo, tranne dove l'Islam rigorista ha imposto la sua Legge. Da questo punto di vista, il contrasto era impressionante, in Egitto e in Siria, come ho visto negli anni '80, tra le città e le campagne. Anche in Algeria, del resto, dove l'odore del sangue stava già impestando l'aria viziata da un ritorno al rigorismo.Insomma, questo poster è una vestigia. Una traccia di un tempo in cui le lotte di liberazione nazionale avevano preso il sopravvento, con tutte le ambiguità che questo comportava per un immaginario ispirato al marxismo-leninismo e alla sua iconografia. Le figure mitiche della Rivoluzione, veicolate dalle lotte di liberazione nazionale, si chiamavano Che, Castro, Giap, Ho Chi Minh e Mao. Avanzavano sulla scia di un'ambizione "rivoluzionaria" che, dietro la maschera di un nazionalismo intransigente, militarizzava l'esercizio del potere sotto la sorveglianza pignola di una forza poliziesca al servizio del tiranno – il beneamato Leader– e di una burocrazia diventata un fine in sé stesso, con l'aggiunta - com'era inevitabile - di chi, in cima alla piramide, si ingrassava conferendo alla parola "valore" le due dimensioni del suo significato. I fedayin espulsi dalla Giordania e dal Libano, imbavagliati e tenuti saldamente al guinzaglio da Damasco – che non aveva esitato a combatterli in Libano – furono "condannati a morte". Qualunque cosa facessero, qualunque cosa dicessero e ovunque si trovassero. La debolezza militare di questa "resistenza", la scadente qualità dei suoi strateghi, le loro incoerenze, la potenza e l'abilità – raramente ostacolate né dai loro scrupoli né dai loro alleati – degli israeliani. «Israele è un terrificante manipolatore di segni», notava a quei tempi Jean Genet, ed erano segni che avrebbero portato a una forma di nichilismo, a quest'altra maniera di creare disperazione. Egli ha tracciato un parallelo con il Black Panther Party, il quale ha reso visibile il “problema nero”. Azioni micidiali, ma che non riescono a piegare il nemico. Esaltazione della violenza. Lotta armata vista come modello di emancipazione. Il Kalashnikov diventava una metonimia della "giusta causa" e prendeva il posto del discorso. La figura del "martire" si sostituiva a quella dell'"eroe". Il tutto si basava su un ritorno alla repressione religiosa, alimentata da un comportamento che Genet ha definito “archeo-virile”. I “fratelli” (musulmani) hanno scavato il proprio solco in questa serie di disfatte - Giordania, Libano - con una litania di morti che non si potevano più contare. In quanto astrazione escatologica, la Rivoluzione non avrebbe più garantito la salvezza ai sopravvissuti che lasciavano Beirut sotto la protezione delle forze francesi. “ Vincere, morire o tradire”. Cosa resta di una simile scelta quando la vittoria è altrettanto illusoria del Paradiso? Le sconfitte sono delle vittorie, e nessuno può ingannarsi, perché la morte dimostra che ancora si esiste. Come in una ragnatela, l'insopportabile rigore del fondamentalismo religioso finirà per inghiottire il presente nelle sue ossessioni e per glorificare i suoi “martiri” fino a farne un culto. Già nel 1972, un ufficiale algerino che si era unito ai Fedayin in Libano avvertiva Jean Genet nei seguenti termini: «Che trionfino pure, faranno una guerra santa e voi non ci sarete più qui. I fratelli non vi tollereranno, o morti o convertiti». Cinquant'anni dopo, il suo monito troverà una tragica conferma e sconvolgerà i Paesi arabi e, più in generale, il modo in cui essi vivono il loro rapporto con la legge religiosa della “sottomissione”. Si sente l'odore dei cadaveri in decomposizione. Si sente la puzza dei progetti in decomposizione di un uomo morto che sognava un futuro radioso. Per purificare l'aria, allo stesso modo in cui si brucia l'incenso nei templi, la Morte viene sfidata in azioni di commando che sono tanti attacchi suicidi. La “terra”, che all'epoca era semplicemente il luogo in cui si viveva, in maniera parsimoniosa per generazioni e generazioni, è stata asfissiata dalla disputa per il controllo della “Terra Santa”. Nel corso di tutta la loro storia di guerre, i tre monoteismi hanno combattuto per il suo controllo e hanno spiritualizzato la legittimità della loro egemonia culturale. La Terra del Libro e la sua mistica della morte, e di conseguenza il martire, si sono fatti carico della speranza dell'eternità sacrificandosi senza dare molta importanza ai frutti del loro “sacrificio”. Nella morte, si trova la propria ricompensa.
In "Un captif amoureux", Jean Genet (1910-1986) scrive una "digressione" che è lo specchio di questo poster. E nel farlo rielabora la memoria articolandola con la finzione in una sorta di "memoria-specchio". Così ci immerge di nuovo in un'avventura umana dove ai morti verrà attribuita la qualifica di martiri, in modo che il sacrificio assuma un significato sacro. Dalle sconfitte alle distruzioni, dai massacri alle peregrinazioni, dal sangue alle lacrime, e senza alcuna prospettiva di vittoria, l'islam rigorista "sacralizza" tanto l'uccidere quanto l'essere uccisi. "Il sacrificio" non ci fa dimenticare la realtà di un odio disumanizzante sia per il carnefice che per le sue vittime. Israele e i regimi arabi, per delle ragioni differenti, saranno "sempre" i più forti. La legge del più forte consente la strategia del "fatto compiuto", e impone la sua volontà. Nei massacri di centinaia di abitanti dei villaggi, nel 1948, come a Deir Yassin, e nell'espulsione di decine di migliaia di palestinesi dalle loro terre, oppure, nel 1967, nell'occupazione illegale della Cisgiordania e la sua colonizzazione manu militari, lo spirito di giustizia, la sua assenza, si fa crudelmente sentire. Difensore di una Rivoluzione mitizzata dai suoi sostenitori, pur mantenendo una posizione critica ed esterna, che rimane ai margini della storia, pur vivendola, Jean Genet ci racconta un'esperienza intima: quella di un uomo e di un artista che si trova nel cuore di un popolo senza terra il quale, durante il Settembre Nero (12 settembre 1971), preferì attraversare il fiume Giordano per arrendersi all'esercito israeliano, piuttosto che arrendersi ai beduini dell'esercito reale giordano che erano rinomati per la loro crudeltà e per i loro metodi rapidi. E in questo, Genet si distingue. Egli non sarà un soldato perduto della rivoluzione mondiale. E non sarà neppure uno dei suoi pensatori. Piuttosto ne diventerà un osservatore, e un narratore. Dalla Giordania al Libano, dai campi dei rifugiati in tela o in lamiera ondulata, alle basi militari, e con un lasciapassare firmato da Yasser Arafat. Tra intimità e storia, tra emozione e dramma tragico. Nella cronaca dei giorni e nel suo odore di macelleria,nel vento maligno di un'epoca in cui la vittoria dei “fratelli” (musulmani) è legata alla scomparsa della vecchia retorica marxista. I commenti vendicativi e velenosi non aiutano nessuno. Dopo i massacri di Sabra e Shatila (1970), si imporrà un bavaglio, e tanti altri a seguire. Vomitare a stomaco vuoto diventa ancora più insopportabile quando, quasi in diretta tv, la banalità dei delitti non riesce più a suscitare alcuna indignazione e, alla luce della semplice umanità, inciampa sull'impossibilità di sostenere una delle parti. Il carattere mortifero di questi atti di cui ciascuno si vanagloria rende impossibile distinguere tra gli assassini e le loro vittime, tra giustizia e crimine. Il sangue versato senza alcun risultato militare tangibile si coagula in un immaginario basato sul “dono di sé ” trasformato in causa sacra. In un territorio così piccolo e così ricco di miti millenari, si dipana una storia che è iniziata nel 1917 con la Dichiarazione Balfour. Da molto tempo quindi. Leggere "Un captif amoureux", offre a questa tragedia shakespeariana quello che le mancava: lo sguardo di chi dice ai suoi amici palestinesi: «Sono cristiano, ma non credo in Dio». Diversi soggiorni nei campi palestinesi, avrebbero concesso allo scrittore di essere uno dei pochi occidentali a poter testimoniare sulla vita degli insorti, su quella delle loro madri e dei loro figli. Questa testimonianza, che è allo stesso tempo tanto un saggio quanto un'autobiografia, è assai lontana da quello che doveva essere lo sperato panegirico sulla "giusta lotta". Proprio al cuore dell'intimità, Genet si confronta con il “fatto” palestinese. Rielabora la memoria mettendola in relazione con le emozioni e con le sensazioni dei suoi “soggiorni”. Difensore di una rivoluzione, pur mantenendo una posizione critica ed esterna, ai margini della storia pur vivendola, Jean Genet racconta un'esperienza interiore, quella di un uomo e di un poeta che si trova nel cuore di un popolo che nessuno vuole ma che si ostina a esistere. Affascinato ma lucido, in un momento in cui un popolo senza terra stava minacciando tutte le terre, in un tempo in cui la resistenza è stata rivoluzionaria, laica, marxista, prima che la religione infiammasse la regione, Genet si è differenziato e distinto: «Non sono mai riuscito a capire se dovevo scrivere "Resistenza palestinese" o "Rivoluzione palestinese”». E, amputato del proprio futuro, il vento della morte aleggia sui sopravvissuti dei successivi massacri israeliani. Bisogna credere che l'obiettivo della Rivoluzione sia talmente distante al punto che il futuro è stato abolito e il culto della morte diventato desiderabile - questa morte che si dà o che si riceve. Un fine in sé che riassume il catechismo del perfetto martire.
- Jean-Luc DEBRY - Pubblicato il 23/12/2024 - fonte: A Contretemps -
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