mercoledì 25 dicembre 2024

NON CORRERE…

Per una teoria del "correre": posti di lavoro vacanti e vita precaria    
di Douglas Barros

Presupposti della questione
La flessibilizzazione, causata dalla destrutturazione del mondo del lavoro, ha eliminato qualsiasi speranza relativa alle aspirazioni che tale mondo, come ideologia, ancora riusciva a mantenere. La formazione, necessaria nella modernità classica, è stata sostituita dalla specializzazione. Non abbiamo più il lavoro, ma piuttosto dei lavori che in generale servono solo che il lavoratore possa continuare a riprodursi in quanto manodopera precarizzata, flessibile e in quanto potenzialmente consumatrice. Il centro di questa crisi, che permane all'orizzonte, si sviluppa a partire da quello che Marx ha chiamato valore. Per riuscire a comprendere un tale  processo, è necessario tener conto del fatto che il capitale riduce ogni attività umana alla sua necessità di continuare a crescere. Nella sfera sociale, secondo un imperativo che gli è intrinseco, il capitale, spinto a cercare sempre più denaro in quella che è una caccia appassionata, astrae tutto ciò che viene prodotto nella vita sociale verso il valore che può essere realizzato solo nello scambio. Così, il processo di quantificazione che gli è necessario, tende a un'astrazione della realtà concreta, riducendo così ogni cosa a un denominatore comune che possa essere scambiato. Questo fatto trasforma il denaro in un potere sociale la cui capacità cumulativa è infinita; il problema è che le risorse naturali sono limitate e scarse, e dal moneto che il capitale ha bisogno del movimento di accumulazione, ci troviamo di fronte a una contraddizione distruttiva che oggi mostra il suo volto con la crisi climatica. L'astrazione del valore, tuttavia, avviene prima nella produzione di lavoro, che opera in potentia. Questo processo cerca di realizzare il capitale attraverso una differenza quantitativa tra il denaro che viene inizialmente gettato nella produzione e il denaro che viene prelevato da essa quando la merce viene realizzata. Da qui la domanda: se il valore opera già nel rapporto di spesa della forza lavoro umana, cosa succede quando questa forza diventa superflua? Questo è il nocciolo della crisi: con l'elevata produttività segnata dal processo di automazione, c'è un cortocircuito.

Due dita sul valore
Per seguire il filo della matassa, bisogna tener conto che il mantenimento del valore è possibile solo con mezzi di lavoro svolti in due movimenti: a) un lavoro morto denominato da un'astrazione quantitativa (lavoro umano indifferenziato) la cui espressione si concretizza negli edifici, nelle fabbriche, nelle strade, ecc. (valore come realizzato, passato, potenziale morto); e b) un lavoro concreto realizzato dal dispendio di forza-lavoro in una temporalità cronometrica (potentia). Ed è proprio perché il lavoro in Marx è pensato con questi due movimenti – come concreto e astratto (valore) – che possiamo comprendere l'emergere della logica del capitale e dell'organizzazione industriale attorno a un processo di quantificazione in cui il denaro, liberato all'inizio del processo, diventa più denaro con l'espropriazione del tempo speso dalla forza lavoro. Ciò significa che il valore deve apprezzarsi in una ricomposizione della crescita che porti al reinvestimento del capitale ottenuto. La logica del capitale risponde alla ricerca del profitto in maniera radicalmente diversa da come faceva in altri tempi: viene reinvestito nella produzione di merci, con l'intenzione che il denaro investito diventi altro denaro e, quindi, capitale. (Lo schema fondamentale ideato da Marx: D-M-D'). Per la vecchia Barba - ben oltre l'ottenimento del profitto attraverso giochi usurai, come avviene, ad esempio, nel commercio, nel contrabbando, nella tratta o nell'usura (D-D') - la trasformazione di una quantità iniziale di valore in una quantità ancora superiore, come condizione di possibilità della logica del capitale, può avvenire solo attraverso una merce speciale che crea valore: il lavoro che per mezzo del tempo socialmente speso, e non retribuito, realizza il plusvalore. Ma come si realizza il valore? Marx ritiene che il fondamento del valore risieda nel lavoro che produce la merce; tuttavia, ciò che costituisce la sua forma non è il tempo trascorso individualmente, bensì il tempo socialmente necessario. In tal modo, la forza-lavoro sociale, su scala cronologica, trasforma la materia morta in materia vivente, e il valore si impone come un potere che può essere realizzato nell'atto dello scambio. Il valore costituisce la sostanza della merce. Quindi «la forma semplice di valore della merce, è anche la forma-merce elementare del prodotto del lavoro, e quindi lo sviluppo della forma-merce (impressa dal lavoro) coincide con lo sviluppo della forma-valore» [*1]. Questo è il valore espresso come condizione per la possibilità della realizzazione della merce. È lì, mediato e deve essere svolto sul mercato.Questo processo di astrazione (inteso come riduzione a un denominatore comune che può essere realizzato come scambio), operato dal valore, riduce gli innumerevoli lavori spesi nella produzione della merce, equiparandola ad un'altra merce (il denaro). In altre parole, il valore riduce tutto a una forma apparente, nella quale la manifestazione generale del lavoro astratto si esprime come «una semplice gelatina di lavoro umano indifferenziato, cioè dispendio della forza-lavoro umana, senza riguardo alla forma del suo dispendio» [*2]. Un'osservazione stimolante che fa Marx, e che è stata un po' trascurata: «nella circolazione del capitale questo valore si rivela improvvisamente come una sostanza che ha uno sviluppo, un movimento proprio e di cui la merce e il denaro sono solo le mere forme» [*3]. Pertanto, il valore abbraccia tutta l'attività sociale, e diventa una forza attrattiva che riduce tutte le nostre azioni al suo imperativo. Per mantenersi, ha bisogno di diventare una progressione quantitativa a un ritmo sempre più accelerato, rendendo così ogni relazione sociale dipendente dalla sua continua espansione. Se come direbbe Goethe, «un'attività senza limiti finisce sempre con il fallimento!», allora la grande domanda è  quella che se la forza produttiva del lavoro aumenta, si possono fabbricare più prodotti, riducendo il tempo di lavoro socialmente necessario e, quindi, riducendo anche l'entità del valore. Ecco uno dei modi per spiegare la crisi: la crisi attuale può essere vista come una crisi di valorizzazione del valore.

La crisi
Se Marx ha ragione (risate), il problema nella riproduzione del valore inizia con l'alta produttività tecnologica: una relazione su scala globale che elimina il dispendio di lavoro vivo pur non essendo riassorbibile. Gli anni '70 segnano un punto di svolta: modificando il panorama industriale delle economie sviluppate, le nuove tecnologie ridefiniscono l'organizzazione della vita sociale. Quegli anni sono diventati il luogo di intersezione della rivoluzione tecnologica dell'informazione, della trasformazione delle idee economiche per mezzo della ristrutturazione produttiva e l'emergere di un discorso che guida una nuova visione sociale del mondo. Questo processo viene imposto da una crisi della valorizzazione del valore, resa operativa a partire dalla diminuzione del dispendio della forza lavoro umana. Ciò ha forzato la rottura dei legami di occupazione, e l'esercito di riserva – i lavoratori disoccupati – è diventato così un esercito di inassorbibili dal momento che il dispendio di forza lavoro umana per unità di merce viene sostituito da una continua automazione, la quale a sua volta genera sempre più una diminuzione dell'entità del valore. L'accelerazione dei flussi di merci, il dominio radicale del tempo dell'individuo e la trasformazione della produzione, con spazi trans-nazionalizzati, hanno portato all'implosione di quella che era stata la stabilizzazione del mondo del lavoro fordista. Ora, se la logica del capitale si basa sulla valorizzazione del valore, delle due l'una: o quella che stiamo vivendo è una crisi permanente del capitale o è già una nuova logica. Credo fermamente che sia necessaria un'indagine radicale di questo processo senza cedere al dogmatismo [*4]. È importante, tuttavia, notare come questo cataclisma nel capitale sia andato di pari passo con la determinazione delle identità come problema e come preoccupazione per la gestione dello Stato. E cosa c'entra tutto questo con il "correre"?  Il vecchio mondo del lavoro stabile, viene sostituito dalla flessibilità in quanto comandamento sociale, il curriculum diventa il luogo del destino – rafforzarlo e aggiornarlo significa correre continuamente dietro all'adattabilità al mercato – ed ecco che così la specializzazione in tutto diventa un orizzonte comune. Nell'economia, i lavori informali stanno occupando uno spazio sempre più rilevante e si sta costituendo una nuova temporalità dello sfruttamento: con un aumento radicale della produttività attraverso la tecnologia, e con la ristrutturazione della produzione su scala globale, siamo passati dal tempo cronologico fordista a un tempo presente 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Le tecnologie dell'informazione diventano quindi fondamentali per le dinamiche di un tempo sociale che ha bisogno di essere integrato con il profitto. La connessione fa parte della nuova logica. Con lo sviluppo radicale dell'informatica, omologa all'informalizzazione dei lavori, la gerarchizzazione delle probabilità per mezzo di algoritmi fa sì che gli smartphone oggettifichino i loro utenti, riducendoli a un sistema organizzato da un fattore di incertezza e calcolato dai clic alla ricerca di profitto. «Se non paghi, allora vuol dire che sei effettivamente la merce». La necessità dell'ingaggio di ciascuno è fondamentale per il successo delle operazioni organizzate dall'algoritmo, il quale, attraverso le piattaforme, ha cominciato a guidare il nuovo mondo del lavoro [*5]. In questo impegno 24 ore su 24, 7 giorni su 7, non c'è più spazio per il cameratismo; sul posto di lavoro siamo solo dei visitatori, e possiamo essere licenziati, o andarcene, in qualsiasi momento.Se tutto ciò che resta è una specializzazione, se non abbiamo più tempo per contemplare i luoghi che attraversiamo, se tutta la nostra capacità di osservare è diretta da un algoritmo di affinità elettive, allora si può anche arrivare alla conclusione che l'accelerazione produttiva tecnologica non ha portato a un'abbondanza di tempo libero, ma alle catene di una iper-connettività che richiede costantemente il nostro impegno. Questo dimostra che, in termini assoluti, è aumentata la necessità di lavoro, soprattutto di quello precario. In questa distopia, la precedente aspirazione a una comunità di identificazioni comuni è stata intercettata e ridefinita come riserva di mercato. A fronte di questa liquidità della realtà contemporanea, emerge una crescente tendenza alla ricerca di un gruppo di appartenenza. È questa, una delle ragioni per cui, nel postfordismo, l'identità diventa una forma preponderante: il legame di solidarietà, organizzato dall'esperienza di condivisione dell'ambiente sociale e del luogo di lavoro nelle attuali dinamiche capitalistiche, viene sostituito dalla narrazione visivamente costituita dalle "reti sociali". Si tratta del perfetto compimento di una tendenza: la cultura giuridico-democratica, nata dalla razionalità neoliberale, che ha dovuto ridurre il potenziale delle identità a criteri identificabili dagli apparati di controllo, si è tradotta nella riduzione dell'esperienza comunitaria all'identificazione identitaria. Così, le nostre relazioni hanno cominciato a inscriversi in una singolare temporalità di diffusione istantanea delle nostre pratiche via internet, per ricordare Paul Virilio. E ora, con l'interconnessione virtuale, paradossalmente non ci sono più ostacoli fisici che ci separino, né relazioni spaziali che ci uniscano: la mediazione sociale viene realizzata per mezzo della virtualità di Internet , la quale impedisce l'incontro. Per questo motivo, la crisi del valore, fondamentalmente una crisi del lavoro produttivo, ha rivoluzionato la vita in società. Per sopravvivere, è diventato necessario adattarsi e tenere il passo con la concorrenza di un mercato del lavoro che si precarizza sempre più, a velocità vertiginosa. O siamo lavoratori full time che agiscono come imprenditori nel mondo degli affari (cestini per il pranzo, hamburger, autostop, moto, divani, consulenze, attivismo, corsi, ecc.) o dobbiamo unirci alla schiera dei famosi stakanovisti, ormai diventati la regola piuttosto che l'eccezione. A quanto pare, questa necessità di adattamento è andata di pari passo con lo smantellamento del mondo del lavoro, portando inoltre al dominio del tempo individuale nella sua totalità, cosa che ha portato il capitale a colonizzare ogni momento della nostra vita. Ecco quindi perché si corre.

Cosa significa, forse, correre?
“Correre” può significare, tra le altre cose, rimanere pronti a cogliere le opportunità che si presentano; perché se non lo fate voi, lo farà qualcun altro. Nato in un terreno segnato dalla competitività come animus del mondo sociale, rappresenta il vero volto di quell'ideologia imprenditoriale che richiede il nostro impegno attivo in quella piattaformizzazione del lavoro che impone orari estenuanti 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. Naturalmente, il correre non è solo un atto soggettivo del cane pazzo che sale su una moto per “guadagnarsi da vivere”, ma si tratta di un'imposizione sociale su un mondo del lavoro che sta andando a rotoli. È necessario considerare che coloro che soffrono di questa “corsa” sono una parte fondamentale della classe operaia di oggi. La flessibilizzazione, necessaria a mantenere il profitto, ha imposto la rottura del regime lavorativo tradizionale. Pertanto, i flusso è ora determinato da quella mancanza di stabilità che occupa la totalità del tempo a disposizione dell'individuo: preoccupati per il domani, oggi stiamo spendendo il nostro tempo a fare i calcoli possibili per il prossimo semestre. Con la precarietà del lavoro, per l'individuo, l'unico scopo è quello di riprodursi come lavoratore precario e  come consumatore. Per questo, a fronte di relazioni corrose dalla disoccupazione strutturale e dai lavori precari, "correre" è diventata una necessità. Il lavoro precario, che viene garantito dai posti vacanti violati, è diventato un destino sociale, arrivando a colpire anche le classi intermedie; le quali così perdono quel prestigio che credevano di avere, e sono costrette a fare come gli altri: insegnanti, sociologhi, assistenti sociali, psicologi, insomma tutti i cani da guardia - per ricordare  Nizan - sono ora circondati dalla crisi del lavoro: «vieni fuori, con le mani in alto!». Nel frattempo, la gestione e la logistica diventano qualcosa di intrinseco alla vita individuale. Le scuole sostituiscono l'insegnamento della storia, della filosofia e della geografia con corsi imprenditoriali.Conoscere l'afflusso e il deflusso dei dividendi, organizzare le proiezioni per tutto l'anno ed essere in balia degli umori del mercato - oltre a imporsi come orizzonte individuale - sono anche causa di nuove patologie. Tra queste, l'ansia e il burnout sperimentati su scala pandemica in Brasile. Tuttavia, affinché tutto si svolgesse in una calma apparente, l'imposizione di classe fatta dai padroni non era sufficiente. Era necessario mobilitare gli affetti intorno alla forma di identificazione di gruppo (identitarismo) e all'impegno attivo della sinistra di governo impegnata nella salute finanziaria dello Stato. Il bilancio sistemico della crisi nel mondo del lavoro, è stato il deprezzamento dei salari che ha portato all'esplosione delle ore lavorate nei posti di lavoro frammentati, fatti di posti vacanti e di orari flessibili che hanno normalizzato la scala sul 6×1 (o in molti casi  sul 7×0).  Ciò si riflette in un dato curioso che dovremmo tenere come orientamento per ogni critica pertinente: attualmente, in Brasile, abbiamo 39,968 milioni di lavoratori nell'occupazione informale rispetto a 47,49 milioni di posti di lavoro formali, 7,6 milioni sono disoccupati e 3,2 milioni di persone hanno rinunciato a cercare lavoro a causa dello “scoraggiamento”. Possiamo notare che, in numeri assoluti, l'occupazione formale è quasi uguale a quella informale; se aggiungiamo quest'ultima al numero di disoccupati e di persone che hanno rinunciato, abbiamo un quadro della precarietà del lavoro. La domanda è: a cosa è dovuto questo scoraggiamento? Confido che voi conosciate la risposta!

Douglas Barros - Pubblicato il 7/12/2024 su Blog do Boitempo -

[1] Karl Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica, Libro 1
[2] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cit., p.116
[3] Ivi.
[4] Chi ha posto questo problema in modo interessante è stata McKenzie Wark.
[5] E. BUCCI, Incerteza, um ensaio: como pensamos a ideia que nos desorienta (e orienta o mundo digital). Belo Horizonte: Autêntica, 2023.

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