martedì 10 dicembre 2024

Il nome di un problema, piuttosto che di una soluzione ?!!??

Digressione sull'Intersezionalità
- di Freddy Gomez -

All'epoca di un tempo antico che viene chiamato moderno, e sulla scia di un 68 ormai datato, oggi siamo entrati in un eterno presente che non smetterà mai di partorire nuove aporie, apparentemente eccitanti agli occhi di chi, negli ambiti di una neocultura in fieri, ha voluto crederci al fine di poter così essere parte del suo tempo. La postmodernità, una teoria che ha basato la propria nascita su un'infinità di fini - le grandi narrazioni, il marxismo, la lotta di classe, l'universalismo, l'Illuminismo... - alla fine ha portato, una volta sbarazzatasi delle vecchie barbe umaniste di un'epoca dichiarata finita, a nient'altro che alla conquista del neo-sapere accademico. In parole povere, l'appetito postmoderno per i “fini” ne aveva scordato uno, quello dell'Università, che, in quanto studenti, già ai tempi delle speranze di una primavera intempestiva, avevamo rivendicato a torto. Infatti, la sua conquista, fatta in nome del '68, è stata la principale impresa compiuta dai neo-mandarini decostruiti di quella generazione nascente attanagliata dal nulla della sua episteme.

Sicuramente, ci fu resistenza, soprattutto nei circoli militanti, ma tale resistenza non era sempre ispirata dalle migliori intenzioni. Se il '68 ha avuto un effetto positivo, la cosa è stata senza dubbio dovuta alle domande che ha sollevato, e ai dubbi espressi riguardo a quale fosse il modo migliore - o il modo meno peggiore - di ripensare l'articolazione delle lotte per l'emancipazione. In tale approccio, il ritorno, stricto sensu, alla Vecchia Causa e alle forze che avevano la pretesa di incarnarla, il rifugiarsi nel vecchio patrimonio di un passato perduto e l' ancoraggio a vecchie verità divenute obsolete, non solo sono tutto ciò è risultato controproducente, ma è anche stato facilmente spazzato via dai nuovi padroni di un sapere perfettamente adeguato a un'epoca che teorizzava l'oblio delle condizioni oggettive di sfruttamento e la sopravvalutazione delle soggettività. Se faccio risalire questo cambio di paradigma alla fine degli anni Settanta, ciò è perché, nella mia mente, il ricordo di quel periodo si riverbera ogni qualvolta una presunta novità concettuale - di solito proveniente dall'altra parte dell'Atlantico - irriga quello che, per comodità, chiamerò l'ambito culturale-sociale di sinistra che, spesso senza rendersene conto, trae gran parte della sua ispirazione dal “pensiero del '68” e da quelle decostruzioni di lunga durata che esso ‘68 ha favorito. Contrariamente a quel che pensano - quando pensano - i reazionari di oggi, le riunioni non-miste del femminismo degli anni '70 non sono state l'origine dell'Intersezionalità, più di quanto esse non fossero il risultato di una concezione egocentrica, persino escludente, della politica. Questa pratica nasceva dalla semplice constatazione che, in alcuni casi, tra donne, per poter parlare delle loro specifiche esperienze di dominazione e in particolare di stupro, le parole diventavano più fluide. Da parte mia, vedo in questo come la prova che, dietro l'emergere delle soggettività dell'epoca, il "pensiero del '68" che, ai suoi margini, lo irrigava, non era affatto privo di una certa visione morale della lotta politica. Nel migliore, ma anche nel peggiore dei casi, con il passare del tempo, il fenomeno si spoliticizza e adotta le categorie, i cliché e le moralità della postmodernità trionfante, la cui caratteristica principale è quella di contrapporre le soggettività plurali a tutto ciò che può fare Comune. Un comune, bisogna precisarlo, che peraltro non rientrava in alcun modo nelle categorie di questo neo-sapere accademico cucito insieme sulle macerie del marxismo, tanto più che presupponeva che doveva essere pensato dialetticamente, sulla base di esperienze condivise, o addirittura congiunte, di forme multiple di dominio, ma piuttosto in una prospettiva di emancipazione per tutti.

Se abbiamo un problema con il concetto di Intersezionalità, sta nel fatto che esso ha finito per esprimere proprio l'opposto di ciò che pretendeva di significare; vale a dire che, poiché il dominio ha un carattere molteplice, la resistenza alle sue diverse forme richiede una congiunzione, o perfino un intreccio non gerarchico di tutti quelli che sono i vari fronti di resistenza che esso ispira circa le questioni dello sfruttamento di classe, di femminismo, di orientamento sessuale e di antirazzismo. È vero che - nata negli Stati Uniti dove è stata concepita e teorizzata alla fine degli anni '80 da Kimberlé Crenshaw, giurista afroamericana -  questa nozione di intersezionalità, che sembra ormai essere diventata centrale in Francia, e che è andata ben al di là nella percezione e nella costruzione della lotta alla "discriminazione", è segnata in maniera molto diretta dalla cultura americana e dalla sua capacità di esportarsi così com'è; cosa che ha un effetto sul destinatario, il quale generalmente ignora gli avvertimenti suscitati negli stessi Stati Uniti, in particolare circa il fissarsi sulle categorie di "razza", "genere" e "minoranze sessuali". Questo è stato il caso, ad esempio, dell'accademico Ashley J. Bohrer, autore di Marxismo e intersezionalità (2019), che, pur difendendo il concetto di intersezionalità, ha messo in guardia contro certe tentazioni riduzioniste che privilegiano la "razza" e il "genere" rispetto alla "classe". Sembra che Kimberlé Crenshaw ne abbia tenuto conto, allorché ha dichiarato a Time Magazine il 20 febbraio 2020: «C'è stata una distorsione [di questo concetto]. Non si tratta di una politica identitaria sotto steroidi. [L'intersezionalità] Non è una macchina per far diventare i maschi bianchi i nuovi paria». L'inversione proviene da ben oltre che da questa sopravvalutazione della "razza" e del "genere", fatta a scapito della "classe". Si potrebbe piuttosto dire che, essendo l'intersezionalità nata nei campus americani, non potrebbe essere altrimenti [*1], ma anche questo continuerebbe a essere ancora poco, dal momento che bisogna notare come questo stesso riduzionismo opera anche in Francia, nell'intersezione tra la "razza" e il "genere" (ma senza la "classe"). Ed è in tal modo che quello che prospera è un "femminismo decoloniale" (ma non "della lotta di classe" ; che pure esisteva, ma ora sembra che sia condannata all'oblio della storia). E non si tratta nemmeno di un "antirazzismo di classe", né di un "classismo decoloniale" o di un "decolonialismo di classe" [*2]. A lungo termine, questa volontà di marginalizzare il concetto di classe entra a far parte della sinistra della società sotto l'influenza postmoderna, con il chiaro obiettivo di rifondare la lotta per l'emancipazione a partire dalle sole “identità dominate”, e di “escludere dalla discussione” - per dirla con Bourdieu - la questione della “classe”, ossia quella che permette di capire che, quando si è dominati, per essere dominati, non si è dominati allo stesso modo a seconda che si venga da qui o da lì.

È questa banale verità che spiega perché un movimento così radicalmente emancipatore, come quello dei Gilet Gialli, nel quale le donne hanno avuto un ruolo di primo piano, abbia suscitato così poca eco - per non parlare della solidarietà - nella sinistra della sfera sociale, nel mentre che, da un certo punto di vista, le rotonde occupate diventavano i sognati crocevia dell'intersezionalità.  In un articolo sull'intersezionalità, pubblicato nel 2020 sulla rivista Pouvoirs, il ricercatore Alexandre Jaunait si domandava se questo concetto non fosse «innanzitutto il nome di un problema, piuttosto che quello di una soluzione» [*3], riferendosi, nell'ambito di questo studio, al lavoro della femminista, sociologa del lavoro e materialista Danièle Kergoat e, più nello specifico, alla sua nozione di «consustanzialità» (delle relazioni sociali) [*4], la cui intenzione primaria consisteva nel ripartire dagli elementi chiave dell'eredità marxiana, piuttosto che surfare sull'onda postmoderna, la quale era impegnata a disciogliersi nella logorrea delle sue speculazioni e acrobazie concettuali. Formulato già alla fine degli anni '70 - vale a dire assai prima che si parlasse di intersezionalità -  questo concetto di "consustanzialità" – disegnato "per difetto" dal registro teologico, ci dice Kergoat – aveva il vantaggio di «pensare in un unico movimento lo stesso e il diverso» in modo da articolare, in un primo momento, le dominazioni legate alla "classe" e al "sesso", e poi quelle legate al "sesso" (che nel frattempo è diventato "genere"), e poi, in una seconda fase, alla "razza" e al "razzismo"; per quanto riguarda la Francia, a partire dalla Marcia per l'uguaglianza. Con, in ogni caso, una netta preferenza per il concetto di "soggetti politici", rispetto a quello di "identità". In questa prospettiva "consustanziale", l’indissociabilità dei rapporti di forza ci consente di superare la logica del dover mettere in competizione tra loro le lotte per l'emancipazione. «Tuttavia», sottolineano un po' scoraggiate Elsa Galerand e Danièle Kergoat, «la classe ci sembra troppo spesso dimenticata nelle analisi intersezionali. […] In ogni caso, la questione del posto che dovrebbe essere concesso a essa (al centro della disputa femminista negli anni '70) non sembra essere stata completamente risolta, dal momento che si pone, ancora una volta, la questione di come fare a collegare la critica postmoderna a quella del capitalismo». Cosa che non è facile, quando si rimane attaccati, o addirittura sottomessi, al quadro degli studi culturali e della teoria francese, ai discorsi sermonici delle star dei campus, alle loro micro-narrazioni dove la denuncia di un universalismo astratto ha la precedenza su quella della merce concreta. Quando l'economia di mercato e la mercificazione del mondo, da sé sole, plasmano tutto ciò che costituisce l'universalismo del nostro tempo, l'unica comunità realmente esistente è quella del capitale. Per contro, per reazione, si assiste a un proliferare di aspirazioni al radicamento in delle forme di comunità, o identità chiuse, che si richiamano, in maniera fantasmatica, a un cerchio interno esclusivo ed escludente. Tanti vicoli ciechi che il capitale mantiene nel suo perpetuo appetito di frammentazione e separazione. È in questo contesto che le teorie postmoderne, e i desideri identitari che ne derivano, si sono gradualmente imposti in società nelle quali le culture politiche emancipatrici e i sistemi di valori comuni, che avevano costruito all'intersezione tra sfruttamento e dominio, si stavano dissolvendo.

Freddy GOMEZ - 18 novembre 2024 - fonte: A Contretemps

   Note

[1] Ricordiamo, per dovere di cronaca, che prima di diventare un "concetto" nelle scienze sociali, la "razza" designava, negli Stati Uniti – e questo è dal 1790, il che non è poco – una categoria amministrativa, un indicatore del Census Bureau dove ci si deve sempre definire in termini razziali; ma che ora consente ormai la possibilità di dichiarare - per quel che riguarda il proprio genere - la "razza" di propria scelta. Ciò dimostra che, per mantenersi, l'ingiunzione statale è in grado di muoversi. Sarebbe stato preferibile lottare per l'abolizione di questa registrazione razziale piuttosto che aprirla all'espressione del soggettivizzato.

[2] Per riprendere gli esempi di intersezioni dimenticate notati da Florian Gulli, il cui "Gli errori dell'intersezionalità" può essere letto online sul sito web della LVSL,  ma anche nel suo libro più recente: "Antiracism Betrayed, Defense of the Universal", Presses universitaires de France, 2022.

[3] Pouvoirs, n° 173, 2020, pp. 15-25. Disponibile online, questo articolo – "Intersection: The Name of a Problem" – è disponibile qui.

[4] Vedi: Elsa Galerand e Danièle Kergoat, "Consustanzialità vs intersezionalità? Sull'intreccio delle relazioni sociali". Nuove pratiche sociali, vol. 26, numero 2, pp. 44-61, 2014. Articolo disponibile qui

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