venerdì 13 dicembre 2024

Dal Globalismo al Neofascismo !!

Globalismo contro democrazia
- di Wolfgang Streeck -

Con l'avvento del globalismo neoliberista, la democrazia, come mezzo per l'intervento politico egualitario nell'economia, è caduta in discredito. Su entrambe le sponde dell'Atlantico, sono state le élite ad aprire la strada a questo processo. Vedevano la democrazia, tecnocraticamente, come "poco complessa" a fronte della "accresciuta complessità" del mondo; propensa com'era a sovraccaricare lo Stato e l'economia, oltre a essere politicamente corrotta a causa della sua riluttanza a insegnare ai cittadini "le leggi dell'economia". Secondo tale linea di pensiero, la crescita non proviene dalla redistribuzione dall'alto verso il basso: da incentivi più forti al lavoro, ma dal basso verso l'alto: in quella che è l'estremità inferiore della distribuzione del reddito, attraverso l'abolizione dei salari minimi e la riduzione delle prestazioni di sicurezza sociale; e nella fascia più alta, per contro, attraverso migliori opportunità di profitto e di guadagno, sostenute da una minore tassazione. Il processo che sottendeva a tutto questo era una transizione verso un nuovo modello di crescita, hayekiano, destinato a sostituire il suo predecessore keynesiano, nell'ambito della rivoluzione neoliberista. Come avviene per ogni dottrina economica, queste idee devono essere intese come rappresentazioni camuffate di vincoli e opportunità politiche derivanti da una distribuzione storicamente contingente del potere, travestite da manifestazioni di leggi "naturali". La differenza è che nel mondo hayekiano la democrazia non appare più come una forza produttiva, ma come una macina al collo del progresso economico. Per questo motivo, l'attività distributiva spontanea del mercato deve essere protetta dall'interferenza democratica di ogni tipo di muraglia cinese o, meglio ancora, sostituendo la democrazia con la "governance globale". La disintegrazione del modello standard del capitalismo democratico nel bel mezzo dell'avanzare della globalizzazione, è stata molto analizzata. Nel corso di circa due decenni, dalla scomparsa del comunismo sovietico, il neoliberismo ha fatto un ritorno sorprendente: Hayek, a lungo ridicolizzato e deriso in quanto leader di un culto settario, ha eclissato figure importanti degli affari mondiali, come Keynes e Lenin. Le idee di Hayek hanno penetrato profondamente il pensiero, e non solo quello degli economisti e delle istituzioni internazionali, ma anche dei governi nazionali e dei partiti politici. Esse includevano anche le sue richieste di un sistema in cui la proprietà privata sarebbe stata protetta a livello internazionale, e la libertà del mercato globale avrebbe prevalso sulla politica nazionale; per mezzo della liberalizzazione, attraverso sistemi giuridici identici in Stati formalmente sovrani ("isonomia"); grazie alla liberalizzazione economica in federazioni internazionali eterogenee; per mezzo di un divieto contro l'interventismo statale attuato attraverso il diritto internazionale della concorrenza; e, non ultimo, a partire dalla libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone, visti tutti come mezzo per neutralizzare economicamente lo Stato-nazione. I governi nazionali e i partiti politici hanno pertanto iniziato a condividere i sospetti sulla teoria della scelta pubblica, e lo hanno fatto nei confronti di sé stessi. Fino a quando non è stato demistificato dalla Grande Recessione, il neoliberismo era diventato la dottrina politico-economica dominante del capitalismo moderno: l'utopia di un'economia capitalistica di mercato globale autoregolata, in cui le politiche nazionali si limitavano alla creazione e al sostegno di quell'economia, alla promozione di un adattamento flessibile ad essa e, forse, alla conservazione folcloristica delle tradizioni culturali e politiche locali in modo da far sentire le persone a casa in una società sempre più senza casa. L'avanzata del modello di crescita globalista-neoliberista è stata accompagnata da una graduale erosione di quello che era il modello standard di democrazia del dopoguerra. Dalla fine degli anni '70, c'è stato un notevole declino della partecipazione alle elezioni di ogni tipo e in tutte le democrazie capitaliste. Ciò è stato particolarmente vero se riferito a coloro che si trovano alla fine della catena della distribuzione del reddito e delle opportunità di vita, e che hanno più bisogno di protezione sociale che di redistribuzione. Allo stesso tempo, i partiti politici, indipendentemente dalle differenze istituzionali nazionali, hanno registrato un drammatico calo degli iscritti. Lo stesso vale per i sindacati, che dalla fine degli anni '80 sono stati raramente in grado di esercitare il loro diritto di sciopero con prospettive di successo. Per quanto riguarda il sistema partitico, come ha dimostrato Peter Mair, i partiti tradizionali del centro si sono sempre più allontanati dalla società e dai loro elettori, rifugiandosi nell'apparato dello Stato; e la loro strisciante statalizzazione ha avuto la sua contropartita nella privatizzazione della società civile. La principale forza trainante di tutto questo processo è stata la compulsione a governare "responsabilmente", come dice Mair, in quanto prodotto della globalizzazione stessa; in altre parole, è derivata dalla mancanza reale o presunta di alternative politiche al diffuso pensiero neoliberista unico. Allo stesso modo in cui i sindacati che vogliono preservare i posti di lavoro dei loro membri, possono fare solo delle richieste salariali moderate, anche i partiti politici che vogliono governare i loro Stati - oramai inseriti anch'essi nel mercato globale - non possono lasciarsi influenzare troppo dai propri membri. Per usare i termini di Mair: la responsabilità ha pagato il prezzo della reattività.

Il collasso finale del modello standard ha coinciso con l'accelerazione della globalizzazione degli anni '90. Quattro aspetti di questo processo, sono caratteristici dell'involuzione liberale della democrazia capitalistica. Si tratta di un cambiamento specifico negli interessi e negli atteggiamenti rappresentati al centro del sistema politico democratico, dalla formazione di un corrispondente modello di domanda e offerta politica, e dall'aumento dei conflitti relativi allo status dello Stato-nazione di fronte ai crescenti interessi volti al ripristino di una politica di protezione e di redistribuzione. In primo luogo, nei sistemi politici standard del dopoguerra, i partiti conservatori di centro-destra – che nell'Europa continentale avevano spesso un orientamento cristiano-democratico – si erano assunti il compito di conciliare il tradizionalismo sociale con la modernizzazione capitalista. Ma sotto la pressione della globalizzazione, questo è diventato sempre più difficile. La fine del socialismo realmente esistente, non significava solo la scomparsa dell'antitesi del conservatorismo borghese, la cui esistenza aveva fino ad allora facilitato la riconciliazione del tradizionalismo con il capitalismo. Avevamo anche delle nuove pressioni competitive sui partiti di centro-destra, affinché essi abbandonassero il loro equilibrio tra progresso e conservazione, e si schierassero invece dalla parte dei distruttori creativi, e della modernizzazione culturale, in nome della competitività economica nazionale. (Un esempio tra i tanti è quello di una transizione politicamente promossa che vada in direzione di una struttura sociale di partecipazione universale al mercato del lavoro; cosa che ha gravemente indebolito la ricettività della società alle politiche familiari conservatrici). Segmenti sempre più crescenti dell'elettorato culturalmente conservatore sono in tal modo rimasti politicamente senza casa. In secondo luogo, c'è stato uno sviluppo corrispondente anche all'interno dei partiti, soprattutto quelli socialdemocratici, che si trovavamo nell'altra metà, a sinistra del centro politico. L'apertura accelerata delle economie nazionali, li aveva privati politicamente dello strumento più importante che avevano nella loro cassetta degli attrezzi: la politica economica keynesiana, nella sua versione post-bellica. La stessa cosa può essere detta a proposito del rapido aumento del debito pubblico avvenuto dopo gli anni '70, e del fatto che, nell'apertura dei mercati internazionali, i costi di una politica sociale demoralizzata su base nazionale minacciavano di diventare uno svantaggio competitivo. Se i partiti conservatori del centro sono diventati i gestori del progresso capitalista, i loro omologhi socialdemocratici ne sono diventati dei facilitatori, garanti e propagandisti, che mostravano con entusiasmo ai loro elettori la luce di una rinnovata prosperità alla fine del tunnel della globalizzazione. In Germania, per esempio, ai tradizionali elettorali socialdemocratici è stato detto che avrebbero fatto meglio a reinventarsi come imprenditori individuali – qualcosa tipo Egos, Inc. – anche con l'appoggio dello Stato, se necessario. È stato anche detto loro che un'epoca moderna avrebbe richiesto una politica sociale orientata agli investimenti, anziché una orientata al consumo; che l'adattamento flessibile era preferibile al pensionamento anticipato; e che ora la solidarietà internazionale avrebbe significato sottomettersi alla concorrenza dei mercati internazionali. Anche questo non è stato accolto bene. Mentre i vincitori, grazie ai loro sostenitori, si sono sentiti in parte rappresentati - ma solo in parte, visto che molti di loro si sono spostati verso i nuovi partiti verdi di centro-sinistra - i perdenti della globalizzazione, ritenendo tutto ciò troppo gravoso, hanno abbandonato la bandiera della modernizzazione socialdemocratica, dapprima non recandosi alle urne, poi rivolgendosi a una nuova destra, lontana dal percorso democratico-capitalista. In terzo luogo, nell'unirsi al fronte unico del globalismo, sia il centro-destra che il centro-sinistra hanno perso le loro identità politiche, per quanto vaghe fossero state prima. Nel processo di adattamento al mercato mondiale, la politica democratica del dopoguerra ha smesso di essere alla ricerca, a lungo termine, dei diversi modelli di società ideale – un modello paternalistico-gerarchico, da un lato, e un modello egualitario-senza classi, dall'altro – per mostrarsi come una serie di reazioni pragmatiche, e a breve termine, a delle condizioni di mercato mondiali in costante cambiamento e imprevedibili. I politici e la politica sono diventate meno ideologici che mai, senza prospettive e, pertanto, indistinguibili l'una dall'altra. Sotto questa forma, la democrazia potrebbe finire per trasformarsi in post-democrazia, trattando gli elettori come se fossero degli spettatori passivi, coinvolgendo così, per progettare le politiche, spin doctor e tecnici delle pubbliche relazioni. Il comportamento di voto – tanto le intenzioni su cui contavano gli strateghi elettorali, quanto le scelte attuate dagli stessi elettori – è cambiato di conseguenza: non più orientato verso un ideale sociale collettivo, un futuro comune cui tendere come cittadini, ma sganciato dalle posizioni di classe e dalle ideologie, reagendo sul momento, anziché rivolto a un futuro ideale. Di conseguenza, la rotazione degli elettori tra i partiti è aumentata, mentre i partiti del vecchio modello standard, ora avrebbero potuto contare sempre meno sul sostegno stabile di una base consolidata. In quarto luogo, la depoliticizzazione pragmatica della politica determinata dalla globalizzazione - specialmente nella sfera dell'economia politica - unita all'emergere di una politica economica uniforme e conforme al mercato, ha posto fine allo strutturarsi del conflitto partitico-politico lungo l'asse capitale-lavoro, dal momento che aveva modellato la differenziazione politica e l'integrazione sul modello standard. Il vecchio conflitto, è stato sostituito da una nuova spaccatura che ha attraversato la struttura clientelare del vecchio sistema, dividendola tra una maggioranza in contrazione, che si sentiva ampiamente rappresentata nella politica post-democratica, e una minoranza in crescita che si sentiva esclusa. Tra l'altro, questo si è riflesso in un calo dell'affluenza alle urne, e in un elevato grado di volatilità elettorale, nonché in un drastico calo della fiducia e delle aspettative dei cittadini nei confronti della politica e dei partiti in tutti i gruppi. Negli anni dell'internazionalismo e delle sue crisi, si è cristallizzata un'altra spaccatura: tra un orientamento nazionale e uno internazionale che ha riguardato gli interessi politici percepiti. Coloro che sentivano di aver beneficiato della globalizzazione, in un modo o nell'altro, si sono trovati nella ristretta fascia della politica della Terza Via. Al contrario, tra i perdenti economici e culturali della globalizzazione, tra coloro che non si sono trovati rappresentati dal centro politico riorganizzato, si è sviluppata una preferenza, a lungo inarticolata e politicamente sommersa, per una restaurazione dell'autonomia politica e della capacità dello Stato-nazione. Questa preferenza potrebbe finire per essere sempre più mobilitata da dei partiti e dei movimenti orientati verso un nazionalismo di destra o di sinistra e, per questo motivo, esclusi in quanto "populisti" dallo spettro mainstream.

La crisi del 2008 ha segnato la fine del periodo di massimo splendore del neoliberismo. Troppo era stato promesso, troppo poco mantenuto. I dubbi sulla democrazia, se non sul capitalismo, cominciarono a crescere tra la gente comune, che si riscopriva e si ricostituiva politicamente in varie forme e colori, sia come manifestanti che come elettori. Una perdita di stabilità e fiducia, una distribuzione sempre più ineguale della ricchezza, in crescita sempre più lenta, e la stagnazione economica malgrado le richieste di cambiamento strutturale, insieme alla crescente insicurezza culturale, e al disprezzo dell'élite per coloro che sono rimasti indietro, hanno dato origine, dal basso, a dei contro-movimenti popolari plebei. A questi movimenti, il regime neoliberista post-democratico ha reagito con orrore. Sia che siano nati dall'esperienza della quotidianità globalizzata, o fomentati opportunisticamente da dei nuovi attori politici, ciò che li accomunava era, ed è, una profonda diffidenza nei confronti di ogni tipo di "apertura" a eventi incerti - dal libero scambio alle migrazioni - accompagnata da una riscoperta della solidarietà locale e della giustizia locale, su un piano regionale, con base nazionale e di classe, e in tutte le sue combinazioni immaginabili. Già negli anni precedenti la crisi, la globalizzazione era stata oggetto di proteste; in seguito, attraverso una moltitudine di deviazioni, questo ha portato a una ri-politicizzazione di una vita politica che era rimasta ferma per un po', culminata in una disputa fondamentale, più o meno articolata, su quale, nella società, fosse il posto giusto e legittimo della politica, della democrazia e della solidarietà. Oggi, in tutti i paesi del capitalismo dell'OCSE, alcuni dei resti sopravvissuti del modello standard di democrazia del dopoguerra vengono oggi riscoperti e utilizzati come risorse istituzionali per una resistenza popolare contro l'accelerazione della modernizzazione capitalista e culturale, e contro il cambiamento strutturale politicamente depotenziante guidato dalla globalizzazione. Ciò equivale a un'aspra lotta riguardo al carattere futuro della statualità, sia interna che internazionale: centralizzata e integrata per salvaguardare la globalizzazione, o decentralizzata e suddivisa per impedirne l'ulteriore avanzamento; elitario o egualitario; (piccolo) borghese o plebeo; tecnocratico o democratico? Negli anni precedenti il Covid, si cominciavano a delineare i contorni di un'inversione di tendenza al ribasso della partecipazione politica, con un aumento delle proteste e degli scioperi più frequenti. I partiti modello standard abbandonati, e i loro alleati dei media hanno avuto poco a che fare con tutto questo. Di fatto, hanno combattuto la nuova ondata di politicizzazione con tutto l'arsenale di armi a loro disposizione – propagandistiche, culturali, legali, istituzionali – spesso soffiando involontariamente vento proprio nelle vele di coloro che avevano inquadrato come nemici, non solo della democrazia, ma anche dello Stato. La dinamica di questo sviluppo può essere vista nell'inversione del lungo declino dell'affluenza alle urne negli anni 2000. In precedenza, l'affluenza alle urne nelle democrazie europee era stata su una traiettoria discendente, continuando una lunga tendenza iniziata alla fine degli anni '60. Ciò è stato più pronunciato nell'estremità inferiore dello spettro sociale ed economico. A metà degli anni Duemila, tuttavia, c'è stato un aumento dell'affluenza alle urne di circa tre punti percentuali, accompagnato da un rapido aumento della quota media di voto dei cosiddetti partiti populisti di destra fino al 17 per cento, dall'11 per cento che era. Mentre i partiti della nuova destra, favoriti dalle condizioni politiche ed economiche della post-democrazia neoliberista, sono stati inizialmente in grado di mobilitare i non votanti apatici o scontenti, mentre il loro successo, a sua volta, ha aiutato i vecchi e i nuovi partiti di centro a mobilitare, se non nuovi simpatizzanti, almeno gli oppositori dei loro avversari. L'inversione del tanto lamentato disimpegno di ampi segmenti dell'elettorato dalla politica è dovuta principalmente all'ascesa dei nuovi partiti di destra, che sono stati diagnosticati come antidemocratici, o addirittura antidemocratici, dai governanti in carica. Questa scomoda svolta degli eventi, ha costretto pertanto i commentatori liberali a passare da una teoria partecipativa a una revisionista, della democrazia, come quella di Seymour Martin Lipset, secondo cui un'alta affluenza alle urne sarebbe espressione di malcontento politico che rischierebbe di portare alla radicalizzazione politica, mettendo così in pericolo, piuttosto che rafforzare, la democrazia.

Tre decenni di centralizzazione e di unificazione politico-economica neoliberista hanno cambiato le democrazie occidentali fin nel loro nucleo: con la ripresa dell'affluenza alle urne, i partiti politici centristi sono diminuiti, mentre  i sindacati hanno perso membri e status politico, e i nuovi partiti di destra, o le correnti populiste all'interno dei partiti esistenti, hanno eroso il conservatorismo centrista, ivi compresa la socialdemocrazia tradizionale. Entro il 2023, in tutti i paesi occidentali, la nuova opposizione si è trasformata in una forza politica più o meno influente e da non sottovalutare, diventando in alcuni di essi un partner informale o formale nel governo, a volte persino come forza politica dominante. Questo vale per gli Stati Uniti e per la Gran Bretagna, così come per l'Italia, la Francia, l'Austria e tutta la Scandinavia, per non parlare della Polonia, dell'Ungheria e dell'Europa centrale e orientale in genere. Qualunque cosa possa dividere i nuovi nazionalisti di destra, ciò che hanno in comune è l'opposizione all'internazionalizzazione e alla centralizzazione, e all'integrazione della governance che ne deriva, portando allo scoperto e politicizzando così una linea di conflitto, nelle democrazie capitaliste, inerente al Nuovo Ordine Mondiale post-1990 del neoliberismo globale. Oggi, le pressioni all'autogoverno locale – per il decentramento della governance attraverso il ripristino della sovranità nazionale – e la questione di come rispondere a esse, sono una questione centrale dei politici e della politica nei contesti politici ed economici nazionali e internazionali. Le forze politiche che insistono sulla sovranità dei loro Stati-nazione – sia nei confronti di altri Stati imperiali, che nei confronti delle organizzazioni internazionali dominate da questi ultimi, o dei mercati globali o continentali – possono affermare di difendere una condizione indispensabile della democrazia nazionale, anche se la vogliono solo per sé stessi, e non anche per i loro avversari. Coloro che cercano di preservare la democrazia liberale del periodo neoliberista, tendono a sottovalutare il potere dell'opposizione a essa, mentre sopravvalutano invece la capacità di governare, politicamente e tecnicamente, delle organizzazioni sovranazionali e dei paesi egemonici imperiali. La democrazia neoliberista non è stata in grado di prevenire una profonda perdita di fiducia nelle sue istituzioni da parte dei cittadini; il che è un altro drammatico risultato a lungo termine di quelli che sono stati i tre decenni neoliberisti dai primi anni '90. Né il centralismo neoliberista è stato in grado di sostenere istituzioni nazionali o internazionali che fossero in grado di stabilizzare un'economia di mercato globale. Così come i mercati hanno fallito, anche la politica neoliberista, che aveva scommesso sulla loro infallibilità, era destinata a fallire. La rivoluzione neoliberista aveva completamente fatto a pezzi quello che era l'ordine politico e sociale del compromesso del dopoguerra, distruggendolo ed escludendo così un semplice ritorno ad esso. Ciò rende ancora più necessario comprendere le cause precise del fallimento del centralismo sovranazionale, al fine di comprendere anche i possibili contorni di una democrazia post-globalista e post-neoliberista. Solo in questo modo possiamo sperare di colmare il vuoto politico, lasciato dal neoliberismo, con un equivalente funzionale del modello standard del dopoguerra. Come il suo predecessore globalista, anche un modello post-globalista di democrazia decentralizzata dovrebbe essere incorporato in un ordine internazionale accomodante, il quale rispetti l'autonomia politica locale e la sovranità statale nazionale in quanto condizioni fondamentali per la democrazia nella società e nell'economia. A questo proposito, il destino dell'Unione Europea offre lezioni sulla fragilità dell'internazionalismo statalista, su quali sono i limiti di una governance centralizzata sovranazionale, e sull'integrazione come unificazione; in breve, sull'inutilità dei tentativi più o meno ben intenzionati di consegnare lo stato-nazione come luogo di sovranità distribuita alla pattumiera della storia. Guardando in particolare allo stato dell'Unione Europea così com'era alla fine del neoliberismo e all'inizio del post-globalismo, si possono conoscere le forze di resistenza a un ridimensionamento gerarchico-tecnocratico sovranazionale della politica, come quelle che hanno allontanato quegli Stati membri dell'UE che invece avrebbero dovuto crescere negli Stati Uniti d'Europa. Inoltre, il modo in cui le redini sono state rafforzate, e la centralizzazione ripristinata, nel corso della guerra in Ucraina, suggerisce che l'unificazione sovranazionale degli stati-nazione sovrani viene meglio perseguita con l'aiuto di un nemico, o alleato comune, o di uno stato imperiale che agisce come un unificatore esterno definendo, o addirittura creando, un problema di sicurezza internazionale comune da affrontare a livello sovranazionale sotto la guida imperiale: una questione di vita o di morte, assai ben diversa da una rinuncia volontaria alla sovranità nazionale, fatta per il bene della prosperità economica e del benessere cosmopolita, e per giunta estremamente pericolosa.

- Wolfgang Streeck - Pubblicato il  28/11/2024 su "Compact" [*] -

[*] Nota: Questo saggio è l'adattamento dall'ultimo libro dell'autore, "Taking Back Control?: States and State Systems After Globalism", pubblicato nel novembre 2024 da Verso.

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