domenica 29 dicembre 2024

L’Apocalisse & la Rivoluzione

"Io annuncio cose inaudite." Con questo messaggio rivoluzionario Lucrezio irrompe nella conservatrice Roma repubblicana del I secolo a.C. Politica, religione e amore sono costruzioni della mente, forme di alienazione e fonti di infelicità: indossano una maschera e nascondono la realtà. Quale la via d'uscita? Lucrezio non ha dubbi: "la scienza della natura", la quale consente la "rivelazione", quella "apocalisse" che dalle tenebre dell'ignoranza ci porta alla luce della ragione e ci rivela verità rasserenanti: l'aldilà con le sue pene e paure non esiste; un'unica legge governa tutte le cose; l'universo, anzi gli innumerevoli universi stanno in equilibro grazie al bilanciamento di forze uguali e contrarie; il mondo è leggibile perché le singole realtà sono ordinate secondo i principi della scrittura e della grammatica; la forma più nobile di pietas è contemplare il tutto con mente serena. Capiamo perché il poema La natura, lo scandaloso poema di Lucrezio, a lungo vittima della congiura del silenzio, ha cambiato il volto della cultura europea e parla ancora di noi e a noi.

(dal risvolto di copertina di: Ivano Dionigi, "L’apocalisse di Lucrezio". Raffaello Cortina, pagg. 208, € 14)

Più natura, più libertà, il manifesto di LUCREZIO
- Classici rivisitati. Ivano Dionigi spiega che il «De rerum natura» è opera atea e rivoluzionaria di estrema potenza: nulla ci sottrae al «destino comune», ma c’è spazio per «una libera volontà» che ci responsabilizza. -
di Pietro del Soldà

«La nostra epoca è stremata e la terra, spossata dai parti, genera a stento piccoli animali, lei che aveva generato tutte le specie e dato alla luce fiere dai corpi giganteschi. Tutte le cose a poco a poco si estinguono e, stremate dal lungo cammino della vita, si avviano verso la bara». Troppo forte la tentazione di scorgere in questi versi del De rerum natura di Lucrezio i toni della profezia con duemila anni d’anticipo, se è vero che negli ultimi quarant’anni l’attività umana ha causato la scomparsa del 60% di mammiferi, rettili, pesci e uccelli presenti in natura. Ma non di profezia ecologica si tratta bensì, letteralmente, di apocalisse, cioè di svelamento della verità nascosta di ogni tempo storico: del presente dei suoi contemporanei, cives romani del I secolo a.C. destinati a interpretare la realtà secondo i canoni fuorvianti di una cultura repubblicana moralmente in crisi, ma pure di tutte le altre epoche compresa la nostra, segnata da una globalizzazione malandata e naturicida. L’apocalisse non anticipa cose che oggi non sono e che un giorno verranno, bensì apre gli occhi sulle cose che già sono, qui e ora, il cui annuncio tuttavia suona sconcertante e inaudito, novum, perché sono nascoste dal velo ingannevole del notum, della tradizione, del mos maiorum, di apparati politici e culturali che sulla rimozione di quelle res novae basano la propria egemonia. L’ultimo libro del latinista Ivano Dionigi, L’apocalisse di Lucrezio, è un formidabile atto d’amore frutto di un corpo a corpo durato una vita intera col misterioso e rivoluzionario Tito Lucrezio Caro, il poeta e filosofo (nato forse a Pompei o a Ercolano intorno al 94 a.C. e di cui null’altro sappiamo) formatosi sul pensiero di Epicuro (filosofia bandita in una Roma votata al conservatorismo politico di matrice stoica) ma in realtà eterodosso anche nei confronti di quella dottrina.

Destino enigmatico, quello di Lucrezio. Nessuno tra i suoi contemporanei, ad eccezione di Cicerone, menzionò mai il suo nome né i sei libri del suo capolavoro in 7.415 esametri. E un sostanziale oblio proseguì in età cristiana per oltre un millennio fino alla sua riscoperta, a metà del XV secolo, da parte dell’umanista Poggio Bracciolini. Da quel momento in poi il poema divenne un riferimento per i moderni, ispiratore della pittura di Botticelli e dell’imminente rivoluzione scientifica, letto e ammirato da Machiavelli, Giordano Bruno e poi da Goethe, Leopardi, Einstein. In virtù della sua passione per la scienza della natura, per quel suo «sentire cosmico e razionale» e per la spietata forza critica che con la grazia eccelsa dei suoi versi non fa sconti a nessuno, l’ateo Lucrezio – spiega con grande chiarezza Dionigi – smaschera le poderose sovrastrutture che l’umanità ha costruito al fine di difendersi dall’impatto con la verità della natura. La politica, il progresso, la religione e persino l’amore sono solo scudi protettivi: Lucrezio anticipa addirittura Lacan, suggerisce Dionigi, anche per lui infatti «il rapporto sessuale non esiste» ma è solo una lotta tra corpi e fantasmi, il tentativo impossibile di afferrare l’amato. Gli esseri umani sono dominati dalla paura della morte e da essa spinti all’avidità, alla competizione per il potere e a un attaccamento malsano alla vita, voltando le spalle a un cosmo infinito (infinitum, parola coniata da Lucrezio, è anche il numero degli universi possibili) di cui la terra è solo un frammento marginale. Nessun antropocentrismo e nessuna gerarchia tra gli essenti, quindi. Al contrario i fiocchi di neve, i sassi di fiume, gli esseri umani, il mare, il cielo, i nostri pensieri… sono tutti composti degli stessi atomi, eadem elementa, e governati dal medesimo principio, eadem ratio. «Tutto è in relazione – scrive Dionigi – anzi tutto è relazione e ha un destino comune; e quindi tutto ha la stessa dignità». Altro che anima immortale! Altro che divinità che dall’alto sovrintendono alle vicende terrene, altro che piante e animali al servizio dell’uomo e della tecnica, altro che popoli superiori votati per natura a dominare sugli altri!

Il De rerum natura è un manifesto ateo e rivoluzionario di estrema potenza, il cui impatto è difficile da reggere. Tutto muore, nulla sfugge alla mors immortalis. Ma in realtà nulla si distrugge né si crea, «nessuna cosa rimane uguale a sé stessa e tutto si trasforma», intuisce Lucrezio con due millenni d’anticipo su Lavoisier, a causa dell’infinito movimento degli atomi incorruttibili. Ciò non significa tuttavia, ecco l’altra intuizione folgorante, che l’esistenza sia guidata a ogni passo dal moto atomico secondo un ordine necessitante e inscalfibile: il clinamen (altro neologismo lucreziano), cioè la deviazione infinitesima e casuale nelle rotte degli atomi, segna il suo scarto da un materialismo assoluto. C’è spazio per la libertà, e dunque per l’etica, nell’universo lucreziano, Dionigi lo evidenzia in pagine avvincenti. Nulla ci sottrae al «destino comune», certo, e tuttavia resta lo spazio per «una libera volontà strappata ai fati» che ci emancipa e responsabilizza, ed è frutto non della conquista o del potere bensì, all’opposto, della «rottura dei decreti del fato», dell’irruzione imprevedibile di un cambio di traiettoria. Devianza e differenza come garanzie di libertà, insomma. Come riconoscerà Vladimir Jankélévitch sulla scorta di Lucrezio, la monotona vita di un impiegato è «non vita» finché non interviene il clinamen a interrompere il suo tragitto quotidiano tra casa e lavoro, innescando avventurosi mutamenti a catena che ne sconvolgono l’esistenza rendendola finalmente «vita». Una grande e vertiginosa lezione, quella di Lucrezio rilanciata da Dionigi, preziosa e urgente, davvero «apocalittica» per un’umanità che, assurdamente, divorzia dalla natura e compete per il potere mentre il suo arbitrio, ignaro, è sempre più intrappolato nella fitta rete degli algoritmi-

- Pietro del Soldà - Pubblicato su Domenica del 7/4/2024 -

Zia Carmela…

In uno dei suoi appunti, raccolti nel suo libro "Nero su nero", Leonardo Sciascia racconta una storia siciliana della Seconda Guerra Mondiale:

in un piccolo paese della provincia di Agrigento arriva la notizia della morte in battaglia, in Africa, di un giovane residente del luogo. Le autorità hanno deciso di onorarlo in maniera solenne, con una messa funebre, una parata militare e discorsi di dignitari; è stata la prima vittima registrata, sia in città che nella provincia. Ciònonostante, tuttavia, la madre del defunto continuava però ad ascoltare Radio Londra – cosa che all'epoca, in Italia, era severamente vietata dalla legge – su cui ogni giorno venivano annunciati i nomi dei soldati italiani che erano stati fatti prigionieri; e così ebbe la gioia di sentire non solo il suo nome, ma anche il suo cognome, insieme al luogo di nascita, la classe e la matricola. Nessuna possibilità di errore, era proprio lui.Ma insieme alla gioia, però, arrivò anche la preoccupazione: la madre non avrebbe potuto impedire il funerale senza confessare di aver ascoltato le trasmissioni radiofoniche del nemico. Sciascia scrive circa il modo in cui la donna visse la contrapposizione ,«Combattuta tra la superstiziosa paura del funerale, che sulla prigionia del figlio poteva avere influssi maleauguranti, e la concreta paura di andare a finire in galera». Dopo aver passato la notte sveglia a pensare, credette di aver trovato la soluzione: «Andò dal maresciallo dei carabinieri, che era un brav'uomo, e gli raccontò che quella notte aveva fatto un sogno: aveva visto il figlio, vivo, vivissimo; e il figlio le aveva detto che quel funerale non lo gradiva per niente, essendo bene in vita dentro un campo di prigionia inglese.» Il maresciallo ascoltò con attenzione e pazienza e disse (scrive Sciascia): «Zia Carmela, io stanotte ho fatto lo stesso sogno; ma proprio lo stesso, preciso... Però questo funerale si deve fare». «E si fece», aggiunge Sciascia.

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 28 dicembre 2024

Telecamere, algoritmi e Glock Mod.40 !!

Per una critica dell'identitarismo: seri problemi con l'identitarismo benintenzionato
- In ultima analisi, rimane legato alla dinamica del “non ci sono alternative”, in quanto reattivo e di nicchia. La ricerca di sé ostacola il senso di appartenenza e la lotta comune, cosa che fa comodo al capitalismo, soprattutto nel XXI secolo. Inoltre, i suoi striscioni possono essere molto redditizi -
di Douglas Barros

È evidente che il colonialismo, in quanto costituzione immaginaria, si sia perpetuato nelle forme che organizzano la nostra vita contemporanea. Nel corso del XX secolo,tuttavia, sono state fatte numerose scommesse circa il fatto che la modernizzazione sarebbe stata in grado di superare le disuguaglianze razziali o di genere, sanando quindi le ferite aperte dalla tragedia coloniale. Oggi, nel ventunesimo secolo, si può dire che queste promesse sono ormai diventate illusioni perdute. Con lo sviluppo del capitalismo, il carattere escludente della macchina del mondo moderno è sempre più cresciuto. Per legittimare questa esclusione, la nozione di razza è diventata dappertutto l'olio che lubrifica la macchina di un inconscio che ormai ha naturalizzato la separazione umana tra le razze. Basta guardare alla rivolta di estrema destra nel Regno Unito, avvenuta la scorsa settimana, per capire come la nozione di razza continui a essere sempre la leva privilegiata del fascismo. E come se non bastasse, il capitalismo del XXI secolo ha imparato che, lontano dalla tensione tra padrone e schiavo, il lavoratore può essere portato a collaborare. A tal fine, il dirottamento della loro domanda, legandola al consumo, sarebbe stato fondamentale, allo stesso tempo in cui, nella gestione della vita sociale, sarebbe stato necessario riconoscere in maniera unilaterale tutte quelle rivendicazioni di appartenenza a gruppi che sarebbero servite a nascondere la dimensione concreta delle lotte. È forse per rispondere a un simile quadro che può essere importante ricordare una critica dialettica che si è verificata almeno a partire dalla metà del secolo scorso, nel corso della quale si percepiva che il razzialismo e il razzismo formavano già un insieme dinamico. Il razzialismo in sé, non solo genera la sua controparte, come ha detto Stuart Hall; è la razza che produce il razzismo, mentre per mantenere il suo significato essa dipende dal razzismo. È stato così che, a mio avviso, il tema dell'identità, sequestrato dalla logica neoliberale, ha subito uno svuotamento quando si è adeguato ai limiti necessari di quella gestione. Qui abbiamo dei problemi fondamentali e non possiamo evitare di discuterne. Comincerò con quanto segue:

1) - Dal momento che non possiamo dubitare del fatto che l'identità - assunta come fine ultimo del soggetto - costituisca un'oggettivazione di sé stessi, non possiamo fare a meno di osservare il modo in cui l'orizzonte storico della modernità abbia favorito l'identificazione dei vari gruppi umani. Ed è stato questo, nel colonialismo, a stabilire la nozione di razza.
2) - È in questa terribile contraddizione che si costituisce la storia moderna: in una dialettica nella quale l'affermazione del singolo, in quanto esclusa dai processi di organizzazione dello status quo, ha il potenziale per annullare la logica sociale che organizza il rapporto di riproduzione della vita, responsabile di tale esclusione.

Il problema attuale è che gli impatti della gestione neoliberista necessitano di essere osservati, poiché la nozione di identità che si basa sull'idea di incontrare un in-sé di sé stesso del tutto trasparente, costituisce una violenza oggettivante che calza come un guanto in una società di nicchia come la nostra. Per cui, non è assurdo affermate che nella forma di gestione del capitalismo del XXI secolo, l'identità viene definita come se si trattasse di qualcosa di privato; una zona di riserva del mercato nella quale si impongono i modi corretti di esprimersi. Possiamo anche lamentarci del nostro dolore, purché esso non si globalizzi nel tessuto sociale, purché rimanga appannaggio di gruppi specifici. E pertanto l'altro rappresenta solo l'identificazione dell'io con sé stesso, in quanto esprime in maniera fantasiosa ciò che io sono, e tale incontro viene mediato dal nostro rapporto con il mercato e con la sua concorrenza. Tutto si riduce al campo della giurisdizione, e pertanto l'identità viene dirottata sul terreno del management, e riattivata sotto forma di modalità di appartenenza organizzata per mezzo del mercato. Ma la cosa più problematica, è che la mobilitazione identitaria diventa profondamente reattiva, dal momento che essa elimina non solo la necessaria mutazione soggettiva, che si può trovare nell'esperienza umana, ma ripristina anche lo status quo a partire dall'organizzazione di una competizione, delimitata dal mercato, di tutti contro tutti. Per avere un'idea di un tale processo, basta osservare l'antirazzismo identitario, il quale non cerca mai di superare in maniera definitiva la razzializzazione. La cosa curiosa è che non lo fa per una scelta consapevole, ma proprio perché il razzismo si è trasformato nell'unica ragione della sua propria stessa sopravvivenza. Vale a dire che è il razzismo ciò che rende possibile la sua stessa esistenza in quanto significato e azione; per non parlare del fatto che l'agenda razziale è diventata molto redditizia ... Si tratta, perciò, di un antirazzismo razzialista, totalmente legato alla dinamica del "non ci sono alternative". Ciò che rimane a questo antirazzismo, è solamente la disputa interna per poter dirigere quello che sono i presupposti logici del capitalismo contemporaneo. Come mostra Haider: l'espressione "politica identitaria" è partita da un gruppo di militanti nere e lesbiche che avevano come orizzonte il socialismo rivoluzionario [*1]. Secondo le argomentazioni di "Combate River" – un collettivo nero e femminista – diventa esplicito marcare l'identità in quanto costruzione, e non semplicemente come una scoperta. Per loro si tratta di identificazioni che, pur non evocando alcuna essenza, non per questo smettono di dare un senso alla pratica politica del collettivo: «non siamo solo donne, non siamo solo nere, non siamo solo lesbiche» si legge nel manifesto, che poi prosegue, «non siamo solo appartenenti alla classe operaia».

Che cosa sono? «Persone che incarnano tutte queste identità» [*2]. Se nessuna identificazione determina l'essenza di un soggetto, allora ciò che il soggetto è risiede nella sua capacità di transitare attraverso tutte le identificazioni [*3], e il collettivo rivendica tali identificazioni in modo da dare materialità alla trasformazione che propone. Come ha fatto questa posizione così ricca e complessa a trasfigurarsi nel suo opposto? In che modo la trasformazione sociale nel capitalismo ha reso la nozione di identità un fine in sé? Si tratta di un problema che è ancora fondamentale. Nonostante tutta la sua fantasia, l'identità designa un problema concreto le cui implicazioni nella vita soggettiva sono centrali. Nella società odierna, tuttavia, c'è la falsa percezione secondo cui il razzismo e il sessismo sarebbero problemi che si riferiscono solo ed esclusivamente all'identità/differenza. La conclusione, che si nasconde dentro una simile idea, è che la risoluzione dei conflitti della differenza avviene nella gestione del capitalismo stesso. In questa convinzione continua a esistere il mantenimento di un immaginario che garantisce lo status quo neoliberista; cioè, si dimentica che il problema dei neri risiede nell'ingiustizia razziale necessaria alla disuguaglianza sociale; per cui la radice del loro problema risiede solo nello sfruttamento radicale a cui sono stati sottoposti; per collegarlo così alla negritudine e alle forme di riconoscimento statale. A questa prospettiva – una risoluzione del "conflitto sociale" che avviene a livello di un'identità che viene esclusa dai processi sociali e storici – si contrappone il paradigma fanoniano che non si riduce all'idea di un'analisi secondo cui è l'oppressione che genera la resistenza. Il martinicano va ben oltre; la resistenza è soltanto un momento della riorganizzazione simbolica del razzializzato, al quale essa fornisce un'identità evanescente. Diventa il ponte che il razializzato attraversa, al fine di superare radicalmente quella stessa struttura sociale che divide l'umanità in razze.

L'identità è solo un rapido passaggio che consolida velocemente l'esperienza della soggettività, e fa dell'individuo un soggetto capace di dare senso alle sue azioni. Nell'attuale spazio ideologico, tuttavia, la sofferenza - che ha cause materiali e simboliche - viene ridotta alla nozione narcisistica individuale. La persona identitarizzata vive la propria sofferenza come se fosse qualcosa di esclusivo, e la gestione di questa sofferenza a sua volta opera un'estetizzazione politica che si lega alle nozioni di competizione e di meritocrazia. Nell'ingegneria sociale di oggi, l'identità deve avere un carattere essenzialista. Essa viene pertanto a essere strombazzata quotidianamente, in una società iperconnessa, dove l'immagine appare immediatamente come se fosse la verità. Pertanto, allora, la voce che umanizza questa sofferenza viene oggettivata, e quindi ridotta alla difesa del proprio luogo. All'interno dell'operazionalizzazione del luogo, in quanto luogo protetto, la gestione della sofferenza avviene passivamente, incarnata nel rappresentante in quanto vincitore che appare come un'eccezione. Si tratta di una riduzione all'ideologia dell'efficacia, la quale smorza e oscura l'oscenità della violenza che sostiene l'ordine grazie a quei pochi neri che hanno vinto. E così alla logica dell'ideologia del capitalismo ora vengono offerti gli strumenti necessari: l'idea che il problema stia nel management e che, perciò, è necessario creare spazi e strumenti per poter assorbire la differenza. Si creano spazi liberi dall'ostilità del contraddittorio, si propaga una trasgressione, si calcola statisticamente, e si forniscono elementi per la soddisfazione di non venire negati. Il corpo diventa qualcosa in cui si esprime una divinità fantasticata, e la gestione dell'identità diventa la neutralizzazione di eventuali movimenti potenzialmente rivoluzionari, in nome della nomina di dirigenti e rappresentanti di un gruppo specifico. Per comprendere questa ingegneria sociale, è necessario tornare al colonialismo. È in questo che l'identitarismo, inventato dai colonizzatori, si basava: la costruzione di un'identità racchiusa in un'identificazione esterna, al fine di controllare il processo di colonizzazione schiavista dei vari territori. Il fatto che questa chiusura sia necessaria per l'attuale amministrazione, la dice lunga su ciò che Mbembe chiama, giustamente, neo-schiavitù. La novità è che questo processo ha talmente tanta sottigliezza che passa quasi inosservato dalla critica. La chiusura dell'identità - sostenuta narcisisticamente dall'identificazione di sé attraverso un gruppo, senza la necessità della differenza vista come mediazione del sé - esprime radicalmente il modo in cui l'ideologia identitaria abbia preso il sopravvento sulle forme di lotte che, invece, partivano dall'identità per mettere in discussione l'insieme sociale. L'identitarismo,  più che un'opzione, è in realtà un modello di gestione, e ci attraversa da cima a fondo. In questo modo, i gruppi, storicamente subalternizzati, diventano ostaggi di questa logica, la quale è, soprattutto, una logica di sopravvivenza drammatica in una crisi permanente e in mezzo all'eterna sorveglianza delle telecamere, degli algoritmi e della Glock Mod.40 del poliziotto.

La perversione del processo consiste nel rendere parte degli identitarizzati (neri, latini, musulmani, LBGTQIA+, ecc.), non solo impegnati nel processo di identificazione, ma spesso persino nelle sue forme di controllo. È importante ricordare come l'identitarismo sia stato l'omicidio dell'alterità, a partire dal momento in cui l'Europa ha fabbricato l'identità per tutte quelle popolazioni che all'inizio della modernità si trovavano di là del mondo. Lo svuotamento delle potenzialità trasformative dell'identità, si è poi lentamente consolidato, in epoca contemporanea, con il capitalismo del ventunesimo secolo, re-identificando le identità per gestirlo. Scommettere sull'identitarismo come via d'uscita dai problemi attuali - che comprendono anche il massacro attuato in nome della razza -  più che di ingenuità, parla di collaborazione con tutto ciò che si è detto. Contro questa posizione si erge Fanon, che ci impone la necessità di pensare al nero, non per ridurlo a ciò che viene organizzato dall'identitarismo coloniale, ma per comprendere in maniera radicale la fonte delle sofferenze e dei disagi perpetuate e mantenute dall'eredità coloniale, per superarle, superando il modo in cui riproduciamo la nostra vita sociale. Questa posizione può essere assunta solo ragionando su tutto ciò che è dialettico nella logica dell'identità, tenendo presente che essa, oltre a essere una fantasia, ha bisogno di essere caratterizzata. Per fortuna, molti prima di noi hanno analizzato questo problema, non si tratta di un problema nuovo. Asad Haider, ad esempio, ci parla di una singolare conversazione con Malcolm X in cui egli avrebbe detto nel 1964: «non si può avere capitalismo senza razzismo». Mettere a nudo la struttura che organizza il razzismo vedendola come gestione della razzialità, consente a Malcolm di orientarsi verso l'uscita dall'identità che gli viene offerta dalla riproduzione sociale che organizza gli spazi razziali. Malcolm X è stato ucciso proprio perché voleva andare oltre i limiti dell'identità. Tornare alla sua risposta, è più che necessario è urgente in un mondo in cui il futuro del capitalismo minaccia di portarci all'estinzione. Se il razzismo sarà sconfitto grazie a una nuova forma di socialità... questo non lo so. Quello che so per certo è che nel modo in cui viviamo, non lo sarà mai, dal momento che esso è una parte fondante del sistema e in questo momento sta attuando un orribile genocidio a Gaza. In effetti, è quello il luogo in cui l'identitarismo si mostra in tutte le sue potenzialità catastrofiche.

- Douglas Barros  - Pubblicato il 16/8/2024 - fonte: Outras Palavras -

NOTE:

1 - HAIDER, Asad. Armadilha da identidade: raça e classe nos dias de hoje. Tradução Leo Vinicius Liberato. São Paulo: Veneta, 2019, p.31

2 – HAIDER Asad , 2012, p.32

3 - BEAUVOIR, S. O segundo sexo: fatos e mitos. Rio de Janeiro: Nova Fronteira, 2016

venerdì 27 dicembre 2024

I Dannati !!???

Nella prefazione al secondo volume di "Mito E Tragedia Nell'antica Grecia. La Tragedia Come Fenomeno Sociale Estetico E Psicologico" (Einaudi, 1977), Vernant e Vidal-Naquet commentano brevemente una traduzione francese dell'Edipo Re di Sofocle. «Quando, nell'Edipo Re di Sofocle» - scrivono - «il servo di Laio capisce che l'uomo che ha davanti a sé, sovrano di Tebe, è proprio quel bambino, con i piedi feriti, che ha consegnato al pastore del re di Corinto, egli gli dice - secondo la traduzione di Jean e Mayotte Bollack - "Se tu sei l'uomo che egli (il pastore di Corinto) dice che sei, sai anche che sei nato dannato"» (versi 1180-1181). Ora, il problema sta proprio nella parola "dannato". Che cosa ci fa qui questa parola, si chiedono Vernant e Vidal-Naquet, insieme alla sua "teodicea cristiana" che trasmette, e alla sua approssimazione in direzione di una "predestinazione agostiniana, o calvinista" che non ha niente a che fare con "l'angoscia tragica".

La traduzione (che troviamo qui e altrove; ma Vernant e Vidal-Naquet qui ne denunciano il dannoso anacronismo) rappresenta di già un'interpretazione e uno spiazzamento: porta Sofocle verso Dante, ci porta per mano dai dannati dell'Inferno, del peccato, della colpa e della paura, così come sono stati costruiti dalla tradizione cristiana. «Il testo greco dice» - ce ne informano, semplicemente, Vernant e Vidal-Naquet, «sappi che sei nato per un destino funesto». Poi, in una nota a piè di pagina, Vernant e Vidal-Naquet ce ne forniscono altri esempi: nel verso 823 - che essi traducono come «Nacqui per il male?» - i coniugi Bollack invece ci danno la traduzione: «Sono un uomo dannato dalla nascita?»; «Notiamo infine», aggiungono, «l'uso del termine "dannazione", che è stato usato per tradurre nel versetto 828 il greco ômos daimôn, vale a dire "una divinità selvaggia"».

fonte: Um túnel no fim da luz

Bestiari…

Quando nel 1980, in uno scantinato polveroso, Joan Fontcuberta e Pere Formiguera portarono alla luce gli archivi a lungo persi dello zoologo tedesco Peter Ameisenhaufen, non potevano immaginare lo straordinario contenuto che questi avrebbero rivelato: animali incredibili e sconosciuti, tutti dettagliatamente descritti e fotografati, si svelavano ai loro occhi tra le pagine rovinate dei faldoni. Il dottor Ameisenhaufen aveva dimostrato l’esistenza di questi animali con prove che includevano note dettagliate sul campo, radiografie e fotografie degli esemplari sia nei loro habitat naturali sia in laboratorio. Fauna, per la prima volta in edizione italiana, è il volume che presenta queste eccezionali fonti e che riporta alla luce uno degli studi più controversi della storia della zoologia.

(dal risvolto di copertina di: Joan Fontcuberta e Pere Formiguera, "Fauna", Trad. di Francesca Di Renzo, Mimesis, pagg. 128, € 25)

La fantastica zoologia di Fontcuberta
- Fauna fotografica -

di Paolo Albani

Non so se lo sapete ma nel 1930 in Sicilia, nelle vicinanze dell’Etna, viene scoperto e osservato per due settimane un animale incredibile, ritenuto estinto, una leggenda diffusa dai contadini siciliani secondo la quale sarebbe stato un drago abbandonato dagli invasori catalani nel XVI secolo. Una ricerca minuziosa condotta nel giugno 1930 dallo zoologo Peter Ameisenhaufen (1895-1955?), di cui dirò fra poco, sgombra ogni dubbio: l’animale, il cui nome scientifico è Pirofagus Catalanae, è esistito davvero, altro che leggenda, appartiene alla famiglia dei grandi sauri, imparentato in linea diretta con il drago dell’isola indonesiana di Komodo. Fra le caratteristiche del Pirofagus Catalanae, la cui lunghezza oscilla tra i 150 e i 380 cm, una grande pinna dorsale, rigida, e un sistema di ingestione-espulsione del fuoco, prodotto dai gas gastrici la cui combustione si scatena a contatto con l’aria. Il Pirofagus Catalanae è aggressivo e pericoloso, si sposta in modo rapido, è onnivoro e arrostisce gli alimenti prima di mangiarli. Animale dallo spirito gregario, poco incline alla solitudine, si mostra apatico durante le ore di sole e attivo dopo il tramonto. Queste notizie, come pure altre su una serie di animali sconosciuti, dall’aspetto mostruoso, provengono dall’archivio dello zoologo Ameisenhaufen, nato a Monaco nel 1895, figlio di Wilhelm, cacciatore e guida di safari, e dell’irlandese Julia Hill, concertista e maestra di musica, morta di parto. Ameisenhaufen studia medicina e biologia alla Ludwig Maximilian Universität di Monaco, sotto la supervisione di Conrad Vogels, il più insigne zoologo dell’epoca. Affascinato dallo studio di ibridi, mutazioni e deformità congenite, Ameisenhaufen è personaggio discreto ma misterioso. C’è chi, geloso del suo talento, fa battute crudeli paragonandolo al dottor Frankenstein. Viene licenziato in circostanze oscure nel 1932 dopo che gli studenti si lamentano della sua presunta esecuzione di innesti e trapianti di tessuti, pratiche proibite a quei tempi. Così Ameisenhaufen emigra negli Stati Uniti, compie numerose spedizioni attraverso i cinque continenti. Dopo di che conosce Helen, una ragazza scozzese che diventa l’amore della sua vita. Insieme a Helen, si stabilisce a Glasgow. Il 7 agosto del 1955 compie da solo un’escursione nel nord della Scozia. Tre giorni più tardi, la sua auto viene avvistata in cima a una scogliera, il suo corpo non è mai stato ritrovato, ufficialmente è dichiarato disperso. L’archivio di Ameisenhaufen, opera monumentale intitolata Neue Zoologie (Nuova Zoologia), memoria visiva e scritta di una fauna insolita, per lo più estinta, viene scoperto durante le vacanze estive del 1980 in un ripostiglio umido e maleodorante, adibito a bed & breakfast, sulla costa scoscesa di Capo Wrath, nel nord della Scozia. Gli scopritori del prezioso “tesoro” sono due straordinari fotografi catalani: Joan Fontcuberta, le cui opere fotografiche, esposte in numerosi musei nel mondo, sono improntate a un approccio surrealista della realtà, e Pere Formiguera (1952-2013), altrettanto famoso quanto il suo complice in avventure artistiche. I due fotografi pubblicano negli anni 80 del secolo scorso parte del favoloso archivio di Ameisenhaufen, in un libro intitolato Fauna, ora tradotto anche in italiano, in occasione dell’omonima mostra tenutasi a Kosmos - Museo di Storia naturale dell’Università di Pavia dall’8 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024. Nel libro sono riprodotte le schede “autentiche”, ingiallite dal tempo e spesso con tracce di macchie e sbavature dovute all’acqua, degli appunti stilati a mano da Ameisenhaufen, insieme a schizzi anatomici e fotografie riguardanti i sorprendenti animali studiati dallo zoologo tedesco. Quelli della Nuova Zoologia sono animali che assemblano, nello stesso corpo, organi di bestie diverse, come il Cercopithecus Icarocornu, trovato nella foresta amazzonica brasiliana, una scimmia a coda lunga dotata di grandi ali, o il Solenoglypha Polipodida, vissuto nel sud dell’India, una combinazione di rettile e uccello non volatore. Questi meravigliosi animali combinatori, bizzarri ircocervi, sarebbero certamente piaciuti a Georges Perec. Quasi nello stesso periodo in cui Fontcuberta e Formiguera si adoperano a sistemare il materiale dell’alluvionato archivio della Nuova Zoologia, lo scrittore francese, insieme a Fabrizio Clerici (1913-1993), pittore visionario, lavora a una sorta di bestiario fantastico, ottenuto combinando parti di animali eterogenei.

- Paolo Albani - Pubblicato su Domenica del 7/4/2024 -

giovedì 26 dicembre 2024

Mangia il Ricco !!

Violenza sacrificale e punizione
-  di "Collettivo” da CrimethInc. -

Nell'analisi che segue, vengono esplorate quelle che sono delle risposte a due diverse uccisioni extragiudiziali, come se fossero un modo per comprendere le diverse forme di violenza che stanno venendo alla ribalta, nella nostra società, in questo momento. Quasi ogni giorno, negli Stati Uniti, più di cinquanta persone vengono uccise a colpi d'arma da fuoco. Il 4 dicembre 2024, uno di loro è stato Brian Thompson, CEO di UnitedHealthcare, la società di assicurazioni sanitarie più redditizia del paese. Nelle settimane successive, abbiamo tutti sentito parlare di quel particolare CEO, assai più che di qualsiasi altro, tra le centinaia di persone uccise in questo mese. Nel contempo, si è assistito a una simultanea ondata di sostegno all'attacco, nonostante gli sforzi delle piattaforme mediatiche e dei datori di lavoro al fine di sopprimerla. Il 13 dicembre, il presidente eletto Donald Trump e il vicepresidente eletto JD Vance hanno invitato Daniel Penny a unirsi a loro alla partita di football tra esercito e marina; l'invito gli è stato rivolto solo in quanto egli abbia ucciso una persona di colore a caso, venendo assolto [*1]. In questo caso, vediamo che due tra le figure politiche più potenti del mondo stanno cercando di suscitare entusiasmo per le esecuzioni extragiudiziali, a condizione però che esse siano rivolte solo contro gli emarginati. Pertanto, la risposta popolare all'uccisione del CEO di UnitedHealthcare va capita nel contesto di una società nella quale la vita è sempre più a buon mercato. Dopo che l'estrema destra ha idolatrato George Zimmerman e Kyle Rittenhouse; dopo che in tutto il paese milioni di persone hanno partecipato a una rivolta chiedendo che la polizia smettesse di uccidere persone nere e marroni, solo per poi vedere i politici di tutto lo spettro politico raddoppiare il  loro sostegno alla polizia, con la conseguenza che la polizia ha continuato a uccidere persone di colore a un ritmo in costante accelerazione; dopo il sostegno bipartisan al genocidio di Gaza; dopo centinaia di sparatorie nelle scuole, dopo centinaia di migliaia di overdose da oppioidi e milioni di decessi per COVID-19, per non parlare delle innumerevoli morti evitabili, e causate a scopo di lucro dalle industrie sanitarie e assicurative, è davvero così sorprendente che una persona abbia sparato a un dirigente? A essere sorprendente, piuttosto, è che in quasi tutti gli altri casi, gli assassini abbiano preso di mira coloro che erano assai meno potenti di loro.La decisione di Trump di ospitare Daniel Penny rappresenta un adempimento letterale del dettame di Frank Wilhoit secondo cui: «Ci devono essere dei gruppi interni, che la legge protegge ma non vincola, e dei gruppi esterni, che la legge vincola ma non protegge.». Al contrario, l'uccisione dell'amministratore delegato di UnitedHealthcare suggerisce che la legge non sempre può proteggere i gruppi interni da quelli esterni. Ma qui non si tratta solo di una questione di violenza rivolta verso il basso nella gerarchia sociale, contro quella della violenza rivolta verso l'alto. Stiamo parlando di due tipi di violenza completamente diversi. Chiamiamole violenza sacrificale e punizione.

Violenza sacrificale
Che cos'è la violenza sacrificale? Secondo René Girard, in "La Violenza e il Sacro", «La violenza inappagata cerca e finisce sempre per trovare una vittima sostitutiva. Alla creatura che eccitava il suo furore, ne sostituisce improvvisamente un'altra che non ha alcuna ragione particolare per attirare su di sé i fulmini del violento, tranne quella d'essere vulnerabile e di capitargli a tiro.» Girard fa parte di una lunga tradizione di antropologi europei le cui speculazioni si riducono a una serie di racconti sull'umanità [*2].Ma non è necessario accettare l'intero quadro di riferimento per riconoscere ciò di cui sta parlando: «l sacrificio serve a proteggere l'intera comunità dalla propria violenza; spinge l'intera comunità a scegliere vittime al di fuori di sé. Gli elementi di dissenso sparsi nella comunità sono attratti dalla persona della vittima sacrificale ed eliminati, almeno temporaneamente, dal suo sacrificio». La violenza sacrificale, in breve, è un capro espiatorio portato fino all'omicidio, che funziona come mezzo rituale per preservare una società in cui ci sono enormi tensioni interne irrisolte. Se non placata, la violenza si accumulerà fino a traboccare dai suoi confini e inondare l'area circostante. Il ruolo del sacrificio è quello di arginare questa marea montante di sostituzioni indiscriminate e di reindirizzare la violenza verso canali "propri". E chi è il capro espiatorio ideale? «Tutti gli esseri sacrificabili [...] si distinguono dai non sacrificabili per una qualità essenziale, e ciò avviene in tutte le società sacrificali senza eccezione. Tra la comunità e le vittime rituali è assente quel certo tipo di rapporto sociale che fa sì che non si possa ricorrere alla violenza contro un individuo, senza esporsi alle rappresaglie di altri individui, i parenti, che si sentono in dovere di vendicare il loro congiunto». Questa equazione spiega perché i banali soggetti bigotti cercano i loro bersagli tra i più emarginati; quelli che nessuno vendicherà. Ma il modello di Girard va oltre, mostrando come tutto ciò possa contribuire a proteggere lo Stato in tempi di crisi. Forse questo spiega perché Trump sia riuscito a vincere le elezioni del 2024 promettendo di compiere violenze gratuite contro le persone prive di documenti e le persone trans. Portare avanti «la più grande operazione di deportazione nella storia americana», come Trump si è esplicitamente impegnato a fare, distruggerà l'economia degli Stati Uniti e non porterà alcun guadagno materiale alla stragrande maggioranza dei suoi sostenitori, i quali per lo più beneficiano proprio del lavoro sottopagato dei clandestini, e del conseguente basso costo delle merci. Da un punto di vista puramente economico, lo sfruttamento del lavoro dei clandestini all'interno dei confini degli Stati Uniti offre più vantaggi ai sostenitori di Trump di quanto potrebbe mai fare la loro deportazione. In ogni caso, si tratta comunque di uno spreco di risorse: deportare un milione di persone in un anno costerà diciotto volte di più di quanto il mondo intero spende ogni anno per la ricerca sul cancro. Detto in altri termini, le deportazioni di massa sono un lusso costoso che i sostenitori di Trump considerano degno di nota solo perché sperimentano così intensamente il bisogno di violenza.La propaganda menzognera che sostiene falsamente che i trans siano autori di sparatorie di massa o che gli immigrati senza documenti stiano contribuendo a un'ondata di criminalità non viene accolta dal pubblico a cui si rivolge come se fosse una fredda indagine statistica, ma rappresenta piuttosto l'assecondamento del loro desiderio di fare violenza alla verità stessa, in quanto passo in avanti verso la violenza nei confronti di coloro che immaginano possano essere danneggiati “senza timore di rappresaglie”. Non sono stati ingannati da notizie false; è il loro desiderio di violenza che ha creato un mercato per le falsità. Come abbiamo sostenuto durante la prima amministrazione Trump, Trump non è diventato popolare promettendo di redistribuire la ricchezza, ma promettendo di redistribuire la violenza. Questa redistribuzione della violenza, serve a creare una valvola di sfogo per tutta una serie di risentimenti. Per citare ancora una volta Girard: «Il desiderio di violenza verte sui congiunti, ma non può appagarsi di questi senza comportare ogni sorta di conflitti, si deve dunque sviarlo verso la vittima sacrificale, la sola a poter essere colpita senza pericolo dato che non ci sarà nessuno a sposarne la causa». Perché le società possono essere spinte a desiderare la violenza sacrificale? Se è vero che la violenza sacrificale serve a incanalare la rabbia lontano da coloro che la suscitano, allora possiamo dedurre che più ingiustizia esiste in una società - più le persone sono oppresse e sfruttate e umiliate da coloro che hanno più potere e più privilegi di loro - più forte sarà l'impulso alla violenza sacrificale [*3]. E questo ci riporta alla decisione di Trump di celebrare Daniel Penny. In un'epoca in cui la rabbia è sempre più diffusa, il ruolo svolto dalla violenza sacrificale, che incanala la violenza lontano da coloro che sono responsabili del danno, si rivela essenziale al fine di mantenere la stabilità dell'ordine dominante. Si tratta del mondo di Hunger Games, diventato reale. Cosa farebbero tutte queste persone arrabbiate se la loro rabbia non si saziasse attraverso la violenza contro chi è più vulnerabile di loro?

Punizione
La punizione è fondamentalmente diversa dalla violenza sacrificale. Come bersaglio, cerca la persona maggiormente responsabile di una particolare ingiustizia, a prescindere dalla sua posizione nella gerarchia sociale. Come regola generale, quelli che sono maggiormente responsabili dell'ingiustizia di solito si trovano tra coloro che possiedono il maggior potere, altrimenti come potrebbero avere l'opportunità di fare così tanto danno? Negli Stati Uniti un cittadino medio ha molto più da temere dai dirigenti d'azienda che dagli immigrati irregolari. A rappresentare la più grande minaccia per gli altri, sono i potenti: questo è praticamente sotto gli occhi di tutti, malgrado gli sforzi compiuti dai media di proprietà dei miliardari, e dalle piattaforme di social media, per umanizzare i ricchi e disumanizzare i poveri.Quando, in una situazione di disuguaglianza che è la peggiore da generazioni, vediamo che le persone concentrano la propria rabbia su chi non ha potere, questo è un segnale inequivocabile del fatto che sono state ingannate. È emblematico che il movimento populista incentrato sull'uomo più ricco che sia mai diventato presidente degli Stati Uniti si presenti come una “rivolta contro le élite” anche quando raduna le persone per adorare oligarchi come Trump ed Elon Musk. È ormai impossibile mobilitare le persone senza almeno fingere di prendersela con qualche sottoinsieme della classe dirigente. È terrificante rendersi conto che i propri nemici sono molto più potenti di sé stessi. Risulta molto più facile scaricare le proprie disgrazie su chi sta ancora peggio. Più facile - e del tutto inutile - e spregevolmente vile. L'uccisione dell'amministratore delegato di UnitedHealthcare ha suscitato una risposta così forte perché ha posto la domanda in modo estremamente chiaro: la violenza deve essere esercitata contro i più vulnerabili o contro i più responsabili? Ha parlato a milioni di persone perché, in tutto lo spettro politico, tutti hanno capito che i profittatori assicurativi sono responsabili della loro sofferenza o della sofferenza delle persone con cui entrano in empatia. Proprio perché era leggibile come una punizione, la sparatoria ha messo in luce che l'ingiustizia ha avuto luogo su larga scala.  Girard ci mette in guardia contro la vendetta, e lo fa sostenendo che un singolo atto di vendetta può innescare una reazione a catena: «La vendetta costituisce dunque un processo infinito, interminabile. Ogni volta che affiora in un punto qualunque di una comunità essa tende a estendersi e a raggiungere l'insieme del corpo sociale. Rischia di provocare una vera e propria reazione a catena dalle conseguenze rapidamente fatali in una società di dimensioni ridotte. Il moltiplicarsi delle rappresaglie mette in giuoco l'esistenza stessa della società». Metterebbe a repentaglio l'esistenza stessa di questa società, come minimo. Certamente, una società in cui i capitalisti sono in grado di accumulare miliardi sfruttando spietatamente tutti gli altri - una società che può rimanere stabile solo destinando sempre più persone alla violenza sacrificale - comporta già una certa dose di rischio. In effetti, ciò che i capitalisti temono di più, è che questo singolo atto di vendetta possa arrivare a coinvolgere l'intero corpo sociale, che possa innescare una reazione a catena. Per questo Luigi Mangione, l'accusato di aver sparato all'amministratore delegato di UnitedHealthcare, è accusato del medesimo reato, sia a livello statale che federale, e inoltre anche di terrorismo. Ha ragione Girard sui rischi della vendetta? Si può ammettere che esistono così tante persone che hanno convinzioni sincere ma errate su chi sia responsabile delle loro sofferenze, e questo a prescindere dall'inclinazione alla violenza sacrificale che i potenti cercano di promuovere ai fini della loro propria protezione. Ma forse sarebbe meglio vivere in una società in cui i potenti possono infliggere qualsiasi quantità di morte e sofferenza agli impotenti senza temere conseguenze, fino al genocidio vero e proprio? È davvero questo il modo migliore per proteggere la società? Possiamo anche arrivare ad ammettere che è molto meglio risolvere i conflitti in modo soddisfacente per tutte le parti, piuttosto che cadere in interminabili faide di sangue [*4]. Ma in realtà lo Stato non esiste per risolvere i conflitti. L'apparato giudiziario, e le centinaia di migliaia di poliziotti che lo servono esistono per garantire che i conflitti non debbano essere risolti in modo soddisfacente per tutte le parti. Esistono per imporre alle persone dei risultati insoddisfacenti, quasi sempre a vantaggio dei ricchi, perpetuando così quelle condizioni che alimentano il desiderio di violenza sacrificale. Infatti, se Girard ha ragione sul fatto che la violenza sacrificale è sempre diretta contro coloro che possono essere «esposti alla violenza senza timore di rappresaglie», allora diventa ovvio che, una volta scatenata la violenza sacrificale, l'unico modo per tenerla a bada sia la punizione. Opporsi alla punizione, e accettare al suo posto la violenza sacrificale, non è un mezzo per evitare spargimenti di sangue; è semplicemente un mezzo per garantire che il bagno di sangue non minacci l'ordine sociale. Oggi, la stragrande maggioranza di noi è più vicina a essere tra quelli che possono essere uccisi “senza timore di rappresaglie” piuttosto che a diventare dirigenti la cui morte verrà compianta sui media a livello nazionale; e quanto meno agiamo in solidarietà gli uni con gli altri, tanto più questo sarà vero. Se non si vuole rischiare di essere un giorno noi stessi oggetto di violenza sacrificale, allora bisogna diventare capaci di fare causa comune con chi sta peggio di noi per difenderci da chi cerca di sfruttarci e opprimerci. In assenza di efficaci modelli collettivi per l'autodifesa e per il cambiamento sociale, nell'immaginario popolare la punizione rimane l'unico modo per opporsi all'ingiustizia. La violenza sacrificale, corrompe e svilisce tutti coloro che ne traggono sollievo; viceversa, la punizione esprime quantomeno un desiderio disperato di un mondo senza ingiustizie. E proprio come ammette lo stesso Girard, «è proprio perché ne sono convinti che si sentono in dovere di vendicarla».

Oltre il martirio
Nell'iconografia della violenza sacrificale e della punizione, il capro espiatorio e il martire sono archetipi gemelli. Il primo viene sacrificato per stabilizzare l'ordine esistente, il secondo serve a santificare un nuovo ordine, dando la vita per esso. Sacrificando sé stesso, il martire dimostra che il nuovo ordine ha un valore trascendente, che vale più della vita stessa. Questi archetipi hanno migliaia di anni; la loro influenza su di noi è più profonda di quanto comprendiamo. Naturalmente, la maggior parte delle persone è attratta dal martirio solo come sport da spettatore. I sacrifici dei martiri si rivelano spesso molto utili a coloro che non hanno intenzione di rischiare la propria vita per nessuna causa. La risposta popolare all'uccisione dell'amministratore delegato di UnitedHealthcare mostra quanto milioni di persone siano disilluse nei confronti del capitalismo e dei suoi beneficiari, ma questa risposta è anche un sintomo di disperazione e smobilitazione diffuse. La sparatoria ha suscitato una tale ondata di frustrazioni represse proprio perché queste persone non sono state in grado di capire cosa possono fare da sole per porre fine all'ingiustizia e allo sfruttamento. Naturalmente, la maggior parte delle persone è attratta dal martirio soltanto come sport per gli spettatori. I sacrifici dei martiri spesso si rivelano più utili per coloro che non hanno intenzione di rischiare la propria vita per nessuna causa. La risposta popolare all'uccisione dell'amministratore delegato di UnitedHealthcare mostra la disillusione da parte di milioni di persone nei confronti del capitalismo e dei suoi beneficiari, ma questa risposta rappresenta anche un sintomo di disperazione e di smobilitazione diffusa. La sparatoria ha suscitato un tale sfogo di frustrazioni represse proprio perché queste persone non sono state in grado di capire cosa possono fare esse stesse per porre fine all'ingiustizia e allo sfruttamento. Spetta a noi dimostrare che esistono modi per resistere all'ingiustizia e allo sfruttamento che non finiscono con il martirio. Se non diffondiamo modelli collettivi di cambiamento sociale, se lasciamo che le persone scelgano tra la passività e il martirio, la grande maggioranza sceglierà la passività. Chi non approva né la violenza sacrificale né la punizione dovrebbe dimostrare di avere un'alternativa efficace. Argomentare contro la punizione senza fare nulla per cambiare le condizioni che la provocano può solo creare le premesse per una violenza sacrificale ancora maggiore. Non ci si illuda, con l'intensificarsi delle crisi economiche ed ecologiche, assisteremo a sempre più violenza sacrificale e vedremo sempre più personaggi pubblici che arriveranno a considerarla necessaria, sebbene non osino chiamarla con il suo nome. La retorica violenta di Trump non è un eccesso temporaneo; è solo la manifestazione più visibile di un meccanismo che ha già riacquistato il ruolo essenziale che svolge per stabilizzare l'ordine sociale in ogni epoca di disordini [*5]. In quanto anarchici, l'economia spirituale della colpa e della punizione che sta alla base del modello retributivo ci è estranea. Calcolare la colpevolezza e distribuire la sofferenza è il lavoro dello Stato, del suo sistema giudiziario e del suo Dio; noi abbiamo altre ambizioni. Non vogliamo che i colpevoli siano puniti in quanto fine a sé stante, ma cerchiamo di eliminare i mezzi attraverso i quali essi opprimono. Rinunceremmo al compimento di qualsiasi vendetta se potessimo in tal modo realizzare l'abolizione del capitalismo, anche se ciò dovesse significare permettere a ogni ex miliardario di essere libero. Non cerchiamo di spingere gli altri a diventare martiri per conto nostro. Aspiriamo a modellare quel tipo di coraggio, umiltà e attenzione che speriamo gli altri esprimeranno al nostro fianco, in modo che insieme potremo cambiare il mondo. Ma finché non ci riusciremo, ci sarà violenza sacrificale e punizione.

Appendice
Secondo un sondaggio, oltre il 40% dei giovani intervistati ritiene "accettabile" l'assassinio di Thompson. Fotografie di graffiti, striscioni e cartelloni pubblicitari alterati che esprimono sostegno a Luigi Mangione, la persona attualmente accusata dell'omicidio dell'amministratore delegato, sono diventate virali e hanno generato titoli. Il "Comitato Legale 4 Dicembre" sta collaborando alla realizzazione di una campagna di raccolta fondi a sostegno della difesa legale di Mangione; le interviste con i portavoce Sam Beard e Jamie Peck sono state pubblicate su canali come la CNN, attirando centinaia di commenti di supporto. Al momento della stesura di questo articolo, la raccolta fondi online ha raccolto oltre $ 186.000.

NOTE:

1 - Quando lo hanno invitato alla partita di football, Penny era appena apparso su Fox News descrivendo il "senso di colpa" che "avrebbe provato se qualcuno si fosse fatto male", chiarendo esplicitamente che non considerava Jordan Neely un essere umano.

2 - Ad esempio, Girard sostiene che il desiderio emerge imitativamente, e che questo provoca inevitabilmente tensioni violente tra le persone, in quanto le induce a competere per gli stessi oggetti scarsi. Si potrebbe obiettare che, mentre alcune delle cose che le persone desiderano sono effettivamente soggette a scarsità, il desiderio imitativo potrebbe anche dare origine alla cooperazione, producendo abbondanza al posto della scarsità e diminuendo l'impeto verso la violenza, sacrificale o di altro tipo. In breve, Girard fa un lavoro convincente nel descrivere il ruolo della violenza sacrificale nelle società afflitte, ma non riesce a dimostrare che sia inevitabile.

3 - Questo spiega perché alcuni dei nuovi elettori che Trump ha raccolto alle elezioni del 2024 sono immediatamente adiacenti ai dati demografici che si sta impegnando ad attaccare: posizionati ai margini, dalla parte ricevente dell'ingiustizia, sentono l'urgenza della violenza più di altri.

4 - C'è una lunga tradizione, che risale all'Orestea di Eschilo, di opere di filosofia e letteratura che sostengono che il potere statale e il relativo sistema giudiziario centralizzato sono stati inventati per porre fine al ciclo di violenza che Girard sostiene essere l'inevitabile risultato della ricerca della vendetta. Nella tradizione islandese, l'opera equivalente è probabilmente la Saga di Njáls, che racconta le faide di sangue e la risoluzione dei conflitti nell'arco di mezzo secolo, nei giorni prima che l'Islanda avesse un governo centralizzato. Tuttavia, il governo statale centralizzato prese piede in Islanda molto più tardi che nell'antica Grecia, quindi possiamo confrontare il mito presentato nell'Orestea con la realtà della storia islandese. In effetti, il governo centralizzato non è emerso spontaneamente in Islanda come mezzo per risolvere i conflitti; piuttosto, una volta che i conflitti tra le varie parti locali divennero irrisolvibili, il re di Norvegia fu in grado di sfruttare l'opportunità di portare l'Islanda sotto il suo controllo e imporre il suo dominio su di essa. Se questo esempio è indicativo, la realtà è esattamente l'opposto del mito: coloro che non riescono a risolvere i conflitti tra di loro finiranno per essere subordinati allo Stato, che è esso stesso il risultato di un conflitto irrisolto che si è metastatizzato in una condizione permanente, non la soluzione di un conflitto irrisolto.

5 - Al fine di fornire al pubblico americano una violenza sacrificale, la precedente generazione di politici repubblicani ha ripetutamente invaso l'Iraq. Era un periodo più gentile, in cui le vittime sacrificali erano principalmente ricercate al di fuori dei confini degli Stati Uniti. Proprio come l'odierna guerra contro i clandestini, quelle invasioni sono state giustificate con pretesti palesemente falsi e allarmismo. Il risultato è stato una sorta di baldoria di ubriachezza da cui i politici di entrambi i partiti sono emersi con rimpianti, per aver completamente destabilizzato il Medio Oriente e reso il mondo un posto considerevolmente più pericoloso.

mercoledì 25 dicembre 2024

NON CORRERE…

Per una teoria del "correre": posti di lavoro vacanti e vita precaria    
di Douglas Barros

Presupposti della questione
La flessibilizzazione, causata dalla destrutturazione del mondo del lavoro, ha eliminato qualsiasi speranza relativa alle aspirazioni che tale mondo, come ideologia, ancora riusciva a mantenere. La formazione, necessaria nella modernità classica, è stata sostituita dalla specializzazione. Non abbiamo più il lavoro, ma piuttosto dei lavori che in generale servono solo che il lavoratore possa continuare a riprodursi in quanto manodopera precarizzata, flessibile e in quanto potenzialmente consumatrice. Il centro di questa crisi, che permane all'orizzonte, si sviluppa a partire da quello che Marx ha chiamato valore. Per riuscire a comprendere un tale  processo, è necessario tener conto del fatto che il capitale riduce ogni attività umana alla sua necessità di continuare a crescere. Nella sfera sociale, secondo un imperativo che gli è intrinseco, il capitale, spinto a cercare sempre più denaro in quella che è una caccia appassionata, astrae tutto ciò che viene prodotto nella vita sociale verso il valore che può essere realizzato solo nello scambio. Così, il processo di quantificazione che gli è necessario, tende a un'astrazione della realtà concreta, riducendo così ogni cosa a un denominatore comune che possa essere scambiato. Questo fatto trasforma il denaro in un potere sociale la cui capacità cumulativa è infinita; il problema è che le risorse naturali sono limitate e scarse, e dal moneto che il capitale ha bisogno del movimento di accumulazione, ci troviamo di fronte a una contraddizione distruttiva che oggi mostra il suo volto con la crisi climatica. L'astrazione del valore, tuttavia, avviene prima nella produzione di lavoro, che opera in potentia. Questo processo cerca di realizzare il capitale attraverso una differenza quantitativa tra il denaro che viene inizialmente gettato nella produzione e il denaro che viene prelevato da essa quando la merce viene realizzata. Da qui la domanda: se il valore opera già nel rapporto di spesa della forza lavoro umana, cosa succede quando questa forza diventa superflua? Questo è il nocciolo della crisi: con l'elevata produttività segnata dal processo di automazione, c'è un cortocircuito.

Due dita sul valore
Per seguire il filo della matassa, bisogna tener conto che il mantenimento del valore è possibile solo con mezzi di lavoro svolti in due movimenti: a) un lavoro morto denominato da un'astrazione quantitativa (lavoro umano indifferenziato) la cui espressione si concretizza negli edifici, nelle fabbriche, nelle strade, ecc. (valore come realizzato, passato, potenziale morto); e b) un lavoro concreto realizzato dal dispendio di forza-lavoro in una temporalità cronometrica (potentia). Ed è proprio perché il lavoro in Marx è pensato con questi due movimenti – come concreto e astratto (valore) – che possiamo comprendere l'emergere della logica del capitale e dell'organizzazione industriale attorno a un processo di quantificazione in cui il denaro, liberato all'inizio del processo, diventa più denaro con l'espropriazione del tempo speso dalla forza lavoro. Ciò significa che il valore deve apprezzarsi in una ricomposizione della crescita che porti al reinvestimento del capitale ottenuto. La logica del capitale risponde alla ricerca del profitto in maniera radicalmente diversa da come faceva in altri tempi: viene reinvestito nella produzione di merci, con l'intenzione che il denaro investito diventi altro denaro e, quindi, capitale. (Lo schema fondamentale ideato da Marx: D-M-D'). Per la vecchia Barba - ben oltre l'ottenimento del profitto attraverso giochi usurai, come avviene, ad esempio, nel commercio, nel contrabbando, nella tratta o nell'usura (D-D') - la trasformazione di una quantità iniziale di valore in una quantità ancora superiore, come condizione di possibilità della logica del capitale, può avvenire solo attraverso una merce speciale che crea valore: il lavoro che per mezzo del tempo socialmente speso, e non retribuito, realizza il plusvalore. Ma come si realizza il valore? Marx ritiene che il fondamento del valore risieda nel lavoro che produce la merce; tuttavia, ciò che costituisce la sua forma non è il tempo trascorso individualmente, bensì il tempo socialmente necessario. In tal modo, la forza-lavoro sociale, su scala cronologica, trasforma la materia morta in materia vivente, e il valore si impone come un potere che può essere realizzato nell'atto dello scambio. Il valore costituisce la sostanza della merce. Quindi «la forma semplice di valore della merce, è anche la forma-merce elementare del prodotto del lavoro, e quindi lo sviluppo della forma-merce (impressa dal lavoro) coincide con lo sviluppo della forma-valore» [*1]. Questo è il valore espresso come condizione per la possibilità della realizzazione della merce. È lì, mediato e deve essere svolto sul mercato.Questo processo di astrazione (inteso come riduzione a un denominatore comune che può essere realizzato come scambio), operato dal valore, riduce gli innumerevoli lavori spesi nella produzione della merce, equiparandola ad un'altra merce (il denaro). In altre parole, il valore riduce tutto a una forma apparente, nella quale la manifestazione generale del lavoro astratto si esprime come «una semplice gelatina di lavoro umano indifferenziato, cioè dispendio della forza-lavoro umana, senza riguardo alla forma del suo dispendio» [*2]. Un'osservazione stimolante che fa Marx, e che è stata un po' trascurata: «nella circolazione del capitale questo valore si rivela improvvisamente come una sostanza che ha uno sviluppo, un movimento proprio e di cui la merce e il denaro sono solo le mere forme» [*3]. Pertanto, il valore abbraccia tutta l'attività sociale, e diventa una forza attrattiva che riduce tutte le nostre azioni al suo imperativo. Per mantenersi, ha bisogno di diventare una progressione quantitativa a un ritmo sempre più accelerato, rendendo così ogni relazione sociale dipendente dalla sua continua espansione. Se come direbbe Goethe, «un'attività senza limiti finisce sempre con il fallimento!», allora la grande domanda è  quella che se la forza produttiva del lavoro aumenta, si possono fabbricare più prodotti, riducendo il tempo di lavoro socialmente necessario e, quindi, riducendo anche l'entità del valore. Ecco uno dei modi per spiegare la crisi: la crisi attuale può essere vista come una crisi di valorizzazione del valore.

La crisi
Se Marx ha ragione (risate), il problema nella riproduzione del valore inizia con l'alta produttività tecnologica: una relazione su scala globale che elimina il dispendio di lavoro vivo pur non essendo riassorbibile. Gli anni '70 segnano un punto di svolta: modificando il panorama industriale delle economie sviluppate, le nuove tecnologie ridefiniscono l'organizzazione della vita sociale. Quegli anni sono diventati il luogo di intersezione della rivoluzione tecnologica dell'informazione, della trasformazione delle idee economiche per mezzo della ristrutturazione produttiva e l'emergere di un discorso che guida una nuova visione sociale del mondo. Questo processo viene imposto da una crisi della valorizzazione del valore, resa operativa a partire dalla diminuzione del dispendio della forza lavoro umana. Ciò ha forzato la rottura dei legami di occupazione, e l'esercito di riserva – i lavoratori disoccupati – è diventato così un esercito di inassorbibili dal momento che il dispendio di forza lavoro umana per unità di merce viene sostituito da una continua automazione, la quale a sua volta genera sempre più una diminuzione dell'entità del valore. L'accelerazione dei flussi di merci, il dominio radicale del tempo dell'individuo e la trasformazione della produzione, con spazi trans-nazionalizzati, hanno portato all'implosione di quella che era stata la stabilizzazione del mondo del lavoro fordista. Ora, se la logica del capitale si basa sulla valorizzazione del valore, delle due l'una: o quella che stiamo vivendo è una crisi permanente del capitale o è già una nuova logica. Credo fermamente che sia necessaria un'indagine radicale di questo processo senza cedere al dogmatismo [*4]. È importante, tuttavia, notare come questo cataclisma nel capitale sia andato di pari passo con la determinazione delle identità come problema e come preoccupazione per la gestione dello Stato. E cosa c'entra tutto questo con il "correre"?  Il vecchio mondo del lavoro stabile, viene sostituito dalla flessibilità in quanto comandamento sociale, il curriculum diventa il luogo del destino – rafforzarlo e aggiornarlo significa correre continuamente dietro all'adattabilità al mercato – ed ecco che così la specializzazione in tutto diventa un orizzonte comune. Nell'economia, i lavori informali stanno occupando uno spazio sempre più rilevante e si sta costituendo una nuova temporalità dello sfruttamento: con un aumento radicale della produttività attraverso la tecnologia, e con la ristrutturazione della produzione su scala globale, siamo passati dal tempo cronologico fordista a un tempo presente 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Le tecnologie dell'informazione diventano quindi fondamentali per le dinamiche di un tempo sociale che ha bisogno di essere integrato con il profitto. La connessione fa parte della nuova logica. Con lo sviluppo radicale dell'informatica, omologa all'informalizzazione dei lavori, la gerarchizzazione delle probabilità per mezzo di algoritmi fa sì che gli smartphone oggettifichino i loro utenti, riducendoli a un sistema organizzato da un fattore di incertezza e calcolato dai clic alla ricerca di profitto. «Se non paghi, allora vuol dire che sei effettivamente la merce». La necessità dell'ingaggio di ciascuno è fondamentale per il successo delle operazioni organizzate dall'algoritmo, il quale, attraverso le piattaforme, ha cominciato a guidare il nuovo mondo del lavoro [*5]. In questo impegno 24 ore su 24, 7 giorni su 7, non c'è più spazio per il cameratismo; sul posto di lavoro siamo solo dei visitatori, e possiamo essere licenziati, o andarcene, in qualsiasi momento.Se tutto ciò che resta è una specializzazione, se non abbiamo più tempo per contemplare i luoghi che attraversiamo, se tutta la nostra capacità di osservare è diretta da un algoritmo di affinità elettive, allora si può anche arrivare alla conclusione che l'accelerazione produttiva tecnologica non ha portato a un'abbondanza di tempo libero, ma alle catene di una iper-connettività che richiede costantemente il nostro impegno. Questo dimostra che, in termini assoluti, è aumentata la necessità di lavoro, soprattutto di quello precario. In questa distopia, la precedente aspirazione a una comunità di identificazioni comuni è stata intercettata e ridefinita come riserva di mercato. A fronte di questa liquidità della realtà contemporanea, emerge una crescente tendenza alla ricerca di un gruppo di appartenenza. È questa, una delle ragioni per cui, nel postfordismo, l'identità diventa una forma preponderante: il legame di solidarietà, organizzato dall'esperienza di condivisione dell'ambiente sociale e del luogo di lavoro nelle attuali dinamiche capitalistiche, viene sostituito dalla narrazione visivamente costituita dalle "reti sociali". Si tratta del perfetto compimento di una tendenza: la cultura giuridico-democratica, nata dalla razionalità neoliberale, che ha dovuto ridurre il potenziale delle identità a criteri identificabili dagli apparati di controllo, si è tradotta nella riduzione dell'esperienza comunitaria all'identificazione identitaria. Così, le nostre relazioni hanno cominciato a inscriversi in una singolare temporalità di diffusione istantanea delle nostre pratiche via internet, per ricordare Paul Virilio. E ora, con l'interconnessione virtuale, paradossalmente non ci sono più ostacoli fisici che ci separino, né relazioni spaziali che ci uniscano: la mediazione sociale viene realizzata per mezzo della virtualità di Internet , la quale impedisce l'incontro. Per questo motivo, la crisi del valore, fondamentalmente una crisi del lavoro produttivo, ha rivoluzionato la vita in società. Per sopravvivere, è diventato necessario adattarsi e tenere il passo con la concorrenza di un mercato del lavoro che si precarizza sempre più, a velocità vertiginosa. O siamo lavoratori full time che agiscono come imprenditori nel mondo degli affari (cestini per il pranzo, hamburger, autostop, moto, divani, consulenze, attivismo, corsi, ecc.) o dobbiamo unirci alla schiera dei famosi stakanovisti, ormai diventati la regola piuttosto che l'eccezione. A quanto pare, questa necessità di adattamento è andata di pari passo con lo smantellamento del mondo del lavoro, portando inoltre al dominio del tempo individuale nella sua totalità, cosa che ha portato il capitale a colonizzare ogni momento della nostra vita. Ecco quindi perché si corre.

Cosa significa, forse, correre?
“Correre” può significare, tra le altre cose, rimanere pronti a cogliere le opportunità che si presentano; perché se non lo fate voi, lo farà qualcun altro. Nato in un terreno segnato dalla competitività come animus del mondo sociale, rappresenta il vero volto di quell'ideologia imprenditoriale che richiede il nostro impegno attivo in quella piattaformizzazione del lavoro che impone orari estenuanti 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. Naturalmente, il correre non è solo un atto soggettivo del cane pazzo che sale su una moto per “guadagnarsi da vivere”, ma si tratta di un'imposizione sociale su un mondo del lavoro che sta andando a rotoli. È necessario considerare che coloro che soffrono di questa “corsa” sono una parte fondamentale della classe operaia di oggi. La flessibilizzazione, necessaria a mantenere il profitto, ha imposto la rottura del regime lavorativo tradizionale. Pertanto, i flusso è ora determinato da quella mancanza di stabilità che occupa la totalità del tempo a disposizione dell'individuo: preoccupati per il domani, oggi stiamo spendendo il nostro tempo a fare i calcoli possibili per il prossimo semestre. Con la precarietà del lavoro, per l'individuo, l'unico scopo è quello di riprodursi come lavoratore precario e  come consumatore. Per questo, a fronte di relazioni corrose dalla disoccupazione strutturale e dai lavori precari, "correre" è diventata una necessità. Il lavoro precario, che viene garantito dai posti vacanti violati, è diventato un destino sociale, arrivando a colpire anche le classi intermedie; le quali così perdono quel prestigio che credevano di avere, e sono costrette a fare come gli altri: insegnanti, sociologhi, assistenti sociali, psicologi, insomma tutti i cani da guardia - per ricordare  Nizan - sono ora circondati dalla crisi del lavoro: «vieni fuori, con le mani in alto!». Nel frattempo, la gestione e la logistica diventano qualcosa di intrinseco alla vita individuale. Le scuole sostituiscono l'insegnamento della storia, della filosofia e della geografia con corsi imprenditoriali.Conoscere l'afflusso e il deflusso dei dividendi, organizzare le proiezioni per tutto l'anno ed essere in balia degli umori del mercato - oltre a imporsi come orizzonte individuale - sono anche causa di nuove patologie. Tra queste, l'ansia e il burnout sperimentati su scala pandemica in Brasile. Tuttavia, affinché tutto si svolgesse in una calma apparente, l'imposizione di classe fatta dai padroni non era sufficiente. Era necessario mobilitare gli affetti intorno alla forma di identificazione di gruppo (identitarismo) e all'impegno attivo della sinistra di governo impegnata nella salute finanziaria dello Stato. Il bilancio sistemico della crisi nel mondo del lavoro, è stato il deprezzamento dei salari che ha portato all'esplosione delle ore lavorate nei posti di lavoro frammentati, fatti di posti vacanti e di orari flessibili che hanno normalizzato la scala sul 6×1 (o in molti casi  sul 7×0).  Ciò si riflette in un dato curioso che dovremmo tenere come orientamento per ogni critica pertinente: attualmente, in Brasile, abbiamo 39,968 milioni di lavoratori nell'occupazione informale rispetto a 47,49 milioni di posti di lavoro formali, 7,6 milioni sono disoccupati e 3,2 milioni di persone hanno rinunciato a cercare lavoro a causa dello “scoraggiamento”. Possiamo notare che, in numeri assoluti, l'occupazione formale è quasi uguale a quella informale; se aggiungiamo quest'ultima al numero di disoccupati e di persone che hanno rinunciato, abbiamo un quadro della precarietà del lavoro. La domanda è: a cosa è dovuto questo scoraggiamento? Confido che voi conosciate la risposta!

Douglas Barros - Pubblicato il 7/12/2024 su Blog do Boitempo -

[1] Karl Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica, Libro 1
[2] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cit., p.116
[3] Ivi.
[4] Chi ha posto questo problema in modo interessante è stata McKenzie Wark.
[5] E. BUCCI, Incerteza, um ensaio: como pensamos a ideia que nos desorienta (e orienta o mundo digital). Belo Horizonte: Autêntica, 2023.

Piuttosto la Vita !!

IL LAVORO E LA VITA
- di Giorgio Agamben -

Si sente spesso elogiare la Costituzione italiana perché ha posto a suo fondamento il lavoro. Eppure non soltanto l’etimologia del termine (labor designa in latino una pena angosciosa e una sofferenza), ma anche la sua assunzione a insegna dei campi di concentramento («Il lavoro rende liberi» era scritto sul cancello di Auschwitz) avrebbero dovuto mettere in guardia contro una sua accezione così incautamente positiva. Dalle pagine della Genesi, che presentano il lavoro come una punizione per il peccato di Adamo, al brano tanto spesso citato dell’Ideologia tedesca in cui Marx annunciava che nella società comunista sarebbe stato possibile, invece di lavorare, «fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come ne viene voglia», una sana diffidenza verso il lavoro è parte integrante della nostra tradizione culturale. C’è, però, una ragione più seria e profonda, che dovrebbe sconsigliare di mettere il lavoro a fondamento di una società. Essa proviene dalla scienza, e in particolare dalla fisica, che definisce il lavoro attraverso la forza che occorre applicare a un corpo per spostarlo. Al lavoro così definito si applica necessariamente il secondo principio della termodinamica. Secondo questo principio, che è forse l’espressione suprema del sublime pessimismo cui giunge la vera scienza, l’energia tende fatalmente a degradarsi e l’entropia, che esprime il disordine di un sistema energetico, altrettanto fatalmente a aumentare. Quanto più produciamo lavoro, tanto più disordine e entropia cresceranno irreversibilmente nell’universo. Fondare una società sul lavoro, significa pertanto votarla in ultima istanza non all’ordine e alla vita, ma al disordine e alla morte. Una società sana dovrebbe piuttosto riflettere non solo sui modi in cui gli uomini lavorano e producono entropia, ma anche su quello in cui essi sono inoperosi e contemplano, producendo quella negentropia, senza la quale la vita non sarebbe possibile.

- Giorgio Agamben - 24 dicembre 2024 – fonte: Quodlibet -

martedì 24 dicembre 2024

Quasi in greco: 3 Pezzi Facili!!

1 - «La mia ignoranza del greco è perfetta come quella di Shakespeare», scrive Borges, alla voce "Epidauro" del suo Atlante.

2 -  Il 20 gennaio del 1965, Arnaldo Momigliano tiene una conferenza su Giambattista Vico all'Istituto Warburg (che verrà pubblicata l'anno successivo in "Storia e teoria"). Nella conferenza vengono recuperati quelli che sono due termini centrali ne "La  Scienza Nuova": "bestioni" ed "eroi", ossia, in un certo senso, "plebei" e "patrizi" (Vico sta discutendo le leggi agrarie della prima Roma). Momigliano, nel corso della conferenza, commenta una serie di idiosincrasie di Vico: come quando egli afferma di avere una capacità "quasi infinita" di citazioni errate e sciatte (cosa comprensibile per uno che lavorava circondato dai suoi "otto figli napoletani" - scrive Momigliano - oltre che dai soliti frequentatori abituali); poi afferma anche che Vico non leggeva né l'inglese né il francese, e che non aveva altro che alcuni rudimenti del greco, cosa che limitava significativamente la sua bibliografia («Non conosceva quasi il greco, e la sua conoscenza della storia greca era al di sotto degli standard che ci si aspettava da un uomo colto del XVIII secolo»).

3 - Nel saggio di apertura del suo libro "La Grecia rivisitata", Frederico Lourenço cita una copia dell'Iliade, in greco (un manoscritto di epoca bizantina), oggi conservata nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, appartenuta a Petrarca: tuttavia il poeta, però, «non lesse mai il libro che egli considerava fosse il più prezioso della sua biblioteca. E il motivo è presto detto: Petrarca non conosceva il greco. Sebbene abbia messo in atto uno sforzo tardivo per poter imparare la lingua di Omero e di Platone, egli non ne ha mai saputo abbastanza per arrivare a leggere l'Iliade in originale» (p. 23).

fonte: Um túnel no fim da luz

Martiri e Non

Tra l'Intimità e la Storia
- A proposito di un poster e Jean Genet -
di Jean-Luc DEBRY

Ho trovato questo poster appeso all'ingresso di un cinema che stava in fondo a un hangar, una specie di mercatino delle pulci, nel 2006 ad Aleppo (Siria), in mezzo a un capharnaüm di oggetti d'antiquariato, come direbbero i moderni. Questa allegoria, ispirata a sentimenti d'altri tempi, e il posto delle donne nella lotta così come simboleggiato da questa intimità durante un momento di relax nel quale un uomo e una donna, - due combattenti-soldati ovviamente - discutono come su come  flirti in qualsiasi luogo dovunque nel mondo, tranne dove l'Islam rigorista ha imposto la sua Legge. Da questo punto di vista, il contrasto era impressionante, in Egitto e in Siria, come ho visto negli anni '80, tra le città e le campagne. Anche in Algeria, del resto, dove l'odore del sangue stava già impestando l'aria viziata da un ritorno al rigorismo.Insomma, questo poster è una vestigia. Una traccia di un tempo in cui le lotte di liberazione nazionale avevano preso il sopravvento, con tutte le ambiguità che questo comportava per un immaginario ispirato al marxismo-leninismo e alla sua iconografia. Le figure mitiche della Rivoluzione, veicolate dalle lotte di liberazione nazionale, si chiamavano Che, Castro, Giap, Ho Chi Minh e Mao. Avanzavano sulla scia di un'ambizione "rivoluzionaria" che, dietro la maschera di un nazionalismo intransigente, militarizzava l'esercizio del potere sotto la sorveglianza pignola di una forza poliziesca al servizio del tiranno – il beneamato Leader– e di una burocrazia diventata un fine in sé stesso, con l'aggiunta - com'era inevitabile - di chi, in cima alla piramide, si ingrassava conferendo alla parola "valore" le due dimensioni del suo significato. I fedayin espulsi dalla Giordania e dal Libano, imbavagliati e  tenuti saldamente al guinzaglio da Damasco – che non aveva esitato a combatterli in Libano – furono "condannati a morte". Qualunque cosa facessero, qualunque cosa dicessero e ovunque si trovassero. La debolezza militare di questa "resistenza", la scadente qualità dei suoi strateghi, le loro incoerenze, la potenza e l'abilità – raramente ostacolate né dai loro scrupoli né dai loro alleati – degli israeliani. «Israele è un terrificante manipolatore di segni», notava a quei tempi Jean Genet, ed erano segni che avrebbero portato a una forma di nichilismo, a quest'altra maniera di creare disperazione. Egli ha tracciato un parallelo con il Black Panther Party, il quale ha reso visibile il “problema nero”. Azioni micidiali, ma che non riescono a piegare il nemico. Esaltazione della violenza. Lotta armata vista come modello di emancipazione. Il Kalashnikov diventava una metonimia della "giusta causa" e prendeva il posto del discorso. La figura del "martire" si sostituiva a quella dell'"eroe". Il tutto si basava su un ritorno alla repressione religiosa, alimentata da un comportamento che Genet ha definito “archeo-virile”. I “fratelli” (musulmani) hanno scavato il proprio solco in questa serie di disfatte - Giordania, Libano - con una litania di morti che non si potevano più contare. In quanto astrazione escatologica, la Rivoluzione non avrebbe più garantito la salvezza ai sopravvissuti che lasciavano Beirut sotto la protezione delle forze francesi. “ Vincere, morire o tradire”. Cosa resta di una simile scelta quando la vittoria è altrettanto illusoria del Paradiso? Le sconfitte sono delle vittorie, e nessuno può ingannarsi, perché la morte dimostra che ancora si esiste. Come in una ragnatela, l'insopportabile rigore del fondamentalismo religioso finirà per inghiottire il presente nelle sue ossessioni e per glorificare i suoi “martiri” fino a farne un culto. Già nel 1972, un ufficiale algerino che si era unito ai Fedayin in Libano avvertiva Jean Genet nei seguenti termini: «Che trionfino pure, faranno una guerra santa e voi non ci sarete più qui. I fratelli non vi tollereranno, o morti o convertiti». Cinquant'anni dopo, il suo monito troverà una tragica conferma e sconvolgerà i Paesi arabi e, più in generale, il modo in cui essi vivono il loro rapporto con la legge religiosa della “sottomissione”. Si sente l'odore dei cadaveri in decomposizione. Si sente la puzza dei progetti in decomposizione di un uomo morto che sognava un futuro radioso. Per purificare l'aria, allo stesso modo in cui si brucia l'incenso nei templi, la Morte viene sfidata in azioni di commando che sono tanti attacchi suicidi. La “terra”, che all'epoca era semplicemente il luogo in cui si viveva, in maniera parsimoniosa per generazioni e generazioni, è stata asfissiata dalla disputa per il controllo della “Terra Santa”. Nel corso di tutta la loro storia di guerre, i tre monoteismi hanno combattuto per il suo controllo e hanno spiritualizzato la legittimità della loro egemonia culturale. La Terra del Libro e la sua mistica della morte, e di conseguenza il martire, si sono fatti carico della speranza dell'eternità sacrificandosi senza dare molta importanza ai frutti del loro “sacrificio”. Nella morte, si trova la propria ricompensa.

In "Un captif amoureux", Jean Genet (1910-1986) scrive una "digressione" che è lo specchio di questo poster. E nel farlo rielabora la memoria articolandola con la finzione in una sorta di "memoria-specchio". Così ci immerge di nuovo in un'avventura umana dove ai morti verrà attribuita la qualifica di martiri, in modo che il sacrificio assuma un significato sacro. Dalle sconfitte alle distruzioni, dai massacri alle peregrinazioni, dal sangue alle lacrime, e senza alcuna prospettiva di vittoria, l'islam rigorista "sacralizza" tanto l'uccidere quanto l'essere uccisi. "Il sacrificio" non ci fa dimenticare la realtà di un odio disumanizzante sia per il carnefice che per le sue vittime. Israele e i regimi arabi, per delle ragioni differenti, saranno "sempre" i più forti. La legge del più forte consente la strategia del "fatto compiuto", e impone la sua volontà. Nei massacri di centinaia di abitanti dei villaggi, nel 1948, come a Deir Yassin, e nell'espulsione di decine di migliaia di palestinesi dalle loro terre, oppure, nel 1967, nell'occupazione illegale della Cisgiordania e la sua colonizzazione manu militari, lo spirito di giustizia, la sua assenza, si fa crudelmente sentire. Difensore di una Rivoluzione mitizzata dai suoi sostenitori, pur mantenendo una posizione critica ed esterna, che rimane ai margini della storia, pur vivendola, Jean Genet ci racconta un'esperienza intima: quella di un uomo e di un artista che si trova nel cuore di un popolo senza terra il quale, durante il Settembre Nero (12 settembre 1971), preferì attraversare il fiume Giordano per arrendersi all'esercito israeliano, piuttosto che arrendersi ai beduini dell'esercito reale giordano che erano rinomati per la loro crudeltà e per i loro metodi rapidi. E in questo, Genet si distingue. Egli non sarà un soldato perduto della rivoluzione mondiale. E non sarà neppure uno dei suoi pensatori. Piuttosto ne diventerà un osservatore, e un narratore. Dalla Giordania al Libano, dai campi dei rifugiati in tela o in lamiera ondulata, alle basi militari, e con un lasciapassare firmato da Yasser Arafat. Tra intimità e storia, tra emozione e dramma tragico. Nella cronaca dei giorni e nel suo odore di macelleria,nel vento maligno di un'epoca in cui la vittoria dei “fratelli” (musulmani) è legata alla scomparsa della vecchia retorica marxista. I commenti vendicativi e velenosi non aiutano nessuno. Dopo i massacri di Sabra e Shatila (1970), si imporrà un bavaglio, e tanti altri a seguire. Vomitare a stomaco vuoto diventa ancora più insopportabile quando, quasi in diretta tv, la banalità dei delitti non riesce più a suscitare alcuna indignazione e, alla luce della semplice umanità, inciampa sull'impossibilità di sostenere una delle parti. Il carattere mortifero di questi atti di cui ciascuno si vanagloria rende impossibile distinguere tra gli assassini e le loro vittime, tra giustizia e crimine. Il sangue versato senza alcun risultato militare tangibile si coagula in un immaginario basato sul “dono di sé ” trasformato in causa sacra. In un territorio così piccolo e così ricco di miti millenari, si dipana una storia che è iniziata nel 1917 con la Dichiarazione Balfour. Da molto tempo quindi. Leggere "Un captif amoureux", offre a questa tragedia shakespeariana quello che le mancava: lo sguardo di chi dice ai suoi amici palestinesi: «Sono cristiano, ma non credo in Dio». Diversi soggiorni nei campi palestinesi, avrebbero concesso allo scrittore di essere uno dei pochi occidentali a poter testimoniare sulla vita degli insorti, su quella delle loro madri e dei loro figli. Questa testimonianza, che è allo stesso tempo tanto un saggio quanto un'autobiografia, è assai lontana da quello che doveva essere lo sperato panegirico sulla "giusta lotta". Proprio al cuore dell'intimità, Genet si confronta con il “fatto” palestinese. Rielabora la memoria mettendola in relazione con le emozioni e con le sensazioni dei suoi “soggiorni”. Difensore di una rivoluzione, pur mantenendo una posizione critica ed esterna, ai margini della storia pur vivendola, Jean Genet racconta un'esperienza interiore, quella di un uomo e di un poeta che si trova nel cuore di un popolo che nessuno vuole ma che si ostina a esistere. Affascinato ma lucido, in un momento in cui un popolo senza terra stava minacciando tutte le terre, in un tempo in cui la resistenza è stata rivoluzionaria, laica, marxista, prima che la religione infiammasse la regione, Genet si è differenziato e distinto: «Non sono mai riuscito a capire se dovevo scrivere "Resistenza palestinese" o "Rivoluzione palestinese”». E, amputato del proprio futuro, il vento della morte aleggia sui sopravvissuti dei successivi massacri israeliani. Bisogna credere che l'obiettivo della Rivoluzione sia talmente distante al punto che il futuro è stato abolito e il culto della morte diventato desiderabile - questa morte che si dà o che si riceve. Un fine in sé che riassume il catechismo del perfetto martire.

- Jean-Luc DEBRY - Pubblicato il 23/12/2024 - fonte: A Contretemps -