mercoledì 29 gennaio 2025

Brando parla…

«Ho sempre considerato la mia vita una questione privata, che non doveva interessare nessuno, tranne la mia famiglia e le persone che amo. Fatta eccezione per alcuni temi morali e politici che mi hanno spinto a prendere una posizione, per tutta la vita ho cercato di restare in silenzio. Ora ho deciso di raccontare la mia vita per separare la verità da tutte le leggende inventate su di me, perché questo è il destino di chiunque sia travolto dal vortice distorto della celebrità.» Questa è la storia di Marlon Brando, l’ultimo mito del cinema: brutale Stanley Kowalski in Un tram che si chiama desiderio, ribelle nella giacca di pelle di Fronte del porto, implacabile e maestoso Don Corleone nel Padrino, scandaloso e sconfitto in Ultimo tango a Parigi, dannato come il colonnello Kurtz in Apocalypse Now. L’attore che ha cambiato per sempre il modo di recitare davanti alla macchina da presa, interpretando ruoli leggendari attraverso una carriera avventurosa, racconta la storia della sua vita in un’autobiografia feroce e sincera. Dai ricordi commoventi dell’infanzia al suo impegno da attivista che ha sconvolto l’America puritana, dai rapporti focosi e incostanti con le donne agli scontri con gli studios di Hollywood, fino al sogno di un paradiso incontaminato su un atollo della Polinesia. Un libro senza concessioni, brillante, seducente e magnetico come il suo autore.

(dal risvolto di copertina di: Marlon Brando & Robert Lindsey, "Le canzoni che mi insegnava mia madre". La nave di Teseo, pagg. 400, € 20)

Fragili memorie di una star selvaggia
- di Goffredo Fofi -

Marlon Brando è morto a ottant’anni nel 2004, e scrisse nel 1988, o meglio dettò, quest’autobiografia con l’aiuto di Robert Lindsey, un giornalista dello staff del «New York Times» di cui nel risvolto si dice che collaborò anche con Ronald Reagan (qui scritto Regan) alla stesura dell’autobiografia di quello. Come attori, la distanza tra Brando e Reagan è abissale: l’attore Reagan fu un decoroso e banale professionista. Anche come presidente degli Stati Uniti lasciò a desiderare, ed è più grave essere stato un presidente mediocre e decisamente di destra dall’essere un attore hollywoodiano di secondo grado. Brando si è affidato a Lindsey per stendere o dettare la storia della sua vita e carriera: molti amori, molta passione politica su posizioni di sinistra (in difesa per esempio dei nativi degli Usa), molti film davvero importanti, per Elia Kazan soprattutto (dopo Un tram che si chiama desiderio, che ne fissò l’immagine di maschio primario, non intellettuale, venne Fronte del porto e più tardi Viva Zapata, scritto per loro da Steinbeck: tre film che furono fondamentali per imporre la sua immagine, ben diversa da quelle abituali dei “divi”, e per caratterizzarlo, per definire un’immagine di maschio e di divo molto diversa da quelle abituali…). Ma dovette a Francis Ford Coppola e al suo Apocalypse now, un grande film sulla guerra del Vietnam cui Brando dette un tocco finale indimenticabile mutuato dal Cuore di tenebra conradiano. Ancora a Coppola dovette un ultimo Oscar con l’interpretazione del Padrino, nel ruolo di un crudele ma fascinoso mafioso siciliano in America, portatore di valori e disvalori assorbiti altrove. La migliore interpretazione di Brando, non premiata, fu a parere di molti quella, assai contorta, per John Huston in Riflessi in un occhio d’oro (dal romanzo breve di Carson McCullers), a fianco di Elizabeth Taylor: due “mostri sacri” di affascinante gigioneria. Ma di titoli importanti la filmografia brandiana è piena, perché dal suo debutto (Il mio corpo ti appartiene, sciocco titolo italiano deviante, al contrario del semplice e duro Uomini, The men, il film di Stanley Kramer dove era un reduce dalle gambe rotte e recitava in posizione perlopiù orizzontale) e soprattutto dalla rivelazione di Fronte del porto, grazie a un maestro dell’Actor’s Studio e circondato da attori della stessa scuola e bravi quanto lui, Brando divenne una delle più grandi “stelle” del firmamento hollywoodiano, con una serie di interpretazioni difficilmente dimenticabili. Oltre ai ruoli ricordati, fu Marco Antonio nel Giulio Cesare di Mankiewicz a fianco di John Gielgud e James Mason; fu Il selvaggio di Benedek, che gli valse l’ammirazione di miriadi di giovani irrequieti di prima delle grandi rivolte, un’ammirazione condivisa con il James Dean di Gioventù bruciata di Nicholas Ray, un ragazzo più normale e comune. (Dean, come Brando ricorda, lo imitò nella vita privata e lo venerò come attore…). La 20th Century Fox lo scritturò per un tempo costringendolo ad alcuni film sciocchissimi (perfino uno in cui era Napoleone!), con l’eccezione di I giovani leoni di Dmytryk, dove dava corpo a un tormentato soldato nazista che finiva per capire qualcosa del vero e del giusto pagando con la vita (nello stesso film recitava il terzo grande attor giovane degli anni Cinquanta: Montgomery Clift, di tutti il più tormentato e forse il più bravo). In Pelle di serpente di Sidney Lumet dovette tener testa a una Anna Magnani che sembrò a molti una caricatura della Magnani dei film romani. Tentò la regia, nel 1960, con un bel western, I due volti della vendetta, ma fu la sola volta, perché a far l’attore guadagnava di più e faticava meno rischiando ben poco. Dopo alcuni film mediocri, venne La caccia di Arthur Penn, dura requisitoria sugli stati del Sud. Più tardi fu ancora con Arthur Penn, rivale di Jack Nicholson in Missouri, un western originale, perfino bizzarro. Ma, Padrino e Apocalypse now a parte – e grazie a Puzo e a Coppola il primo ebbe molto a che fare con l’Italia e con la Sicilia in particolare – è a due registi italiani che dovette le ultime grandi interpretazioni, per Pontecorvo in Queimada e  per Bertolucci in Ultimo tango a Parigi. E fu certamente il giovane Bertolucci a scavare più a fondo nella complessa, ma non poi troppo, psiche di Brando, insieme al veterano Huston dei Riflessi. Ultime avventure: Il coraggioso di e con Johnny Depp (1997), e un tardivo ritorno di Charles Chaplin alla regia con La contessa di Hong Kong, dove Brando fu a fianco di una Sophia Loren che sembrò più di lui a suo agio nella commedia. Molti sono dunque i titoli significativi e alcuni davvero irrinunciabili nella storia del cinema americano e finanche europeo, su un’immagine sempre forte e virile, ma in modi nuovi e complessi: non il maschio alla Robert Mitchum o alla John Wayne, ma un maschio spesso debole (a partire dal finale del Tram, con l’invocazione alla moglie Stella; e col soldato martoriato assistito da una moglie fedele di Il mio corpo ti appartiene; e quasi tutti i suoi grandi ruoli ebbero risvolti di incertezza e tremore…).

Non è poco, soprattutto per la storia del costume ma anche, ovviamente, per la storia del cinema. Parla molto Brando, in questo libro, cosciente della sua fama e attento a mescolare con una certa sapienza e un ottimo fiuto il pubblico e il privato. Ma si può parlare di privato per un attore di cui tutti sapevano ben presto tutto, e che non nascondeva proprio niente? Fu in qualche modo un’avanguardia delle “confessioni” strappate con la loro complicità da tanti giornalisti a personaggi famosi o che ambivano a diventarlo, spendendosi assiduamente nella cronaca, anche con l’aiuto di abili uffici stampa, di abili agenti. Le memorie di Brando non rivelano nulla che già non si sapesse del suo privato e del suo pubblico, delle sue passioni tanto politiche (la causa dei nativi americani, per prima) che private (l’ideale dolcezza del vivere, dalle parti della Polinesia)... Fu e si volle attore e personaggio, come certi “mattatori” scespiriani dell’Ottocento, ma per sua e nostra fortuna seppe spesso scegliere con chi lavorare e che figure impersonare. La sua parte “pubblica”, infine, a distanza di anni, finisce per interessare molto più di quella privata. Con il fiuto di un vero “eroe del proprio tempo” egli ha saputo mescolare abilmente i due aspetti, ben più di Marilyn o di Dean suoi contemporanei, che, per dire, non sono morti nel loro letto. In queste memorie essi compaiono come personaggi di contorno, fragili vittime dello star system, al contrario di un Brando perfetto mediatore tra pubblico e privato, e perfetto uomo d’affari a partire dalla costruzione e vendita della propria immagine, un’immagine tuttavia impressionante e per qualche tempo nuova e  rivelatrice.

- Goffredo Fofi - Pubblicato su Domenica del 28/4/2024 -

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