lunedì 6 gennaio 2025

Una Ragionevole Astrazione ?!!???

Metafisica del lavoro
- La carriera storica di un termine apparentemente sovrastorico -

di Robert Kurz

Nella storia del pensiero occidentale e soprattutto moderno, il linguaggio della filosofia e della scienza si è allontanato sempre più dal linguaggio della gente comune, di modo che così esso è diventato il linguaggio segreto di una casta sacerdotale elitaria del sapere, separata da tutto il resto della società. Ci sono ben pochi concetti che appartengono simultaneamente sia alla sfera della riflessione teorica che a quella della vita quotidiana. "Lavoro", è uno di questi termini; ed esso da un lato rappresenta una categoria filosofica, economica e sociologica, mentre dall'altro viene usato in modo confuso, e in maniere diverse in quella che la pratica delle vite quotidiane di tutte le persone. Questa caratteristica speciale del significato sociale di "lavoro", indica quella che nel mondo moderno rappresenta una connessione universale. Nessun'altra parola che a prima vista sia più chiara, nel mentre che non esiste nessun'altra parola che, a una seconda vista, sia meno chiara. In filosofia e nella teoria sociale, nessuno ha fatto del concetto di "lavoro" la base del suo pensiero più di quanto lo abbia fatto Karl Marx. Ed è stato il marxismo ad aver risolutamente assunto il punto di vista del "lavoro", al fine di legittimare, nella storia moderna, il grande movimento sociale dei lavoratori salariati. Filosoficamente - per il marxismo - il "lavoro" appare come se fosse una condizione sovrastorica dell'esistenza umana nel suo rapporto con la natura. Economicamente, secondo questa dottrina, il "lavoro", in quanto forma universale dell'attività umana è stato degradato, dal dominio dei proprietari capitalistici, a un rapporto di sfruttamento. Sociologicamente, è la "classe operaia" che deve formarsi politicamente sotto forma di "partito del lavoro", per poter così porre fine ala relazione sociale di "sfruttamento dell'uomo sull'uomo", e arrivare a ottenere una "liberazione del lavoro". Questa teoria, apparentemente autosufficiente e incrollabile, della società e della storia oggi ha perso la sua verità; essa appare decisamente antiquata e polverosa. Ma ciononostante, è il concetto in sé stesso di "lavoro" ad aver conservato la sua validità e la propria auto-ovvietà.

Come si spiega questo strana situazione? Il marxismo ha sempre cercato di rivendicare il "lavoro", vedendolo in quanto ideale positivo di per sé stesso, e distinguerlo pertanto dal presunto "non-lavoro" del mondo borghese e dei suoi rappresentanti. La stampa socialista del XIX secolo, nelle sue caricature,  amava dipingere i capitalisti come dei parassiti obesi, o come dandy e flâneur che facevano una vita comoda e "disoccupata" a spese della classe operaia. "I fannulloni dovranno sloggiare", recita la famosa "Internazionale", l'inno del movimento operaio. In realtà a diventare visibili in questa rozza immagine del nemico, sono solo i vecchi signori feudali e coloro che vivono delle rendite delle grandi fortune finanziarie, e non certo i moderni dirigenti. Questo, dal momento che i magnati dell'industria sono magri, fanno jogging tutti i giorni e hanno meno tempo libero di uno schiavo delle piantagioni, oltre dover andare in terapia perché sono diventati dei "maniaci del lavoro". Quindi, in realtà, il "lavoro" è sempre stato un ideale borghese-capitalistico, e questo assai prima che il socialismo scoprisse per sé questo concetto. L'elogio del "lavoro" lo sentiamo cantato dalla dottrina sociale cristiana, con dei toni assai più alti; anche il liberalismo ha canonizzato il "lavoro" e, come fa il marxismo, ne promette la "liberazione"; anche tutte le ideologie conservatrici e radicali di destra adorano il "lavoro" come se fosse un Dio secolarizzato. "Arbeit macht frei" stava scritto sopra la porta di Auschwitz. Ovviamente, la religione del "lavoro" rappresenta il quadro di riferimento comune a tutte le teorie, tutti i sistemi politici e tutti i gruppi sociali moderni. In questa religione, essi sono in competizione tra loro per vedere chi dimostra maggiore devozione, e chi riesce a suscitare nei lavoratori il massimo rendimento.

Pensieri simili, possono far sì che la normale persona moderna si arrabbi. Qual è il punto? «Devi lavorare»! Forse che le persone non hanno sempre lavorato? Altrimenti non ci sarebbero cibo, vestiti, abitazioni e cultura. Nulla viene dal nulla. È questo è il motivo per cui l'etica del "lavoro" è nota perché dice: «Se non lavori, non dovresti mangiare». Indubbiamente, le persone hanno sempre prodotto cose e idee per vivere, divertirsi, esplorare e intrattenere. Ma per tutto questo, è "lavoro" il termine corretto, sovrastorico, universale? No. "lavoro" è un'astrazione, è una parola che veicola una generalità del tutto ambigua. Karl Marx difese questa generalità indefinita dicendo che si trattava di una “ragionevole astrazione” nota fin dai tempi più antichi. Ma è proprio così? Un'astrazione razionale dovrebbe essere un termine generico e significativo per cose qualitativamente diverse che tuttavia appartengono tutte insieme a un certo sistema. Per esempio, mele, pere, pesche, arance, ecc. vengono raggruppate a formare il termine generico "frutta". Ma se visto in questo senso, "lavoro", come termine generico per le attività umane, non è precisamente un'astrazione ragionevole. Sognare, camminare, giocare a scacchi o leggere romanzi sono anch'essi tutte attività umane, senza che normalmente vengano conteggiate in quanto "lavoro". Molte culture di cacciatori, pastori o contadini non conoscevano affatto il concetto astratto di "lavoro". Sarebbe sembrato loro altamente irragionevole, e decisamente folle, combinare attività come la caccia e la semina, la cucina e l'educazione dei figli, la cura dei malati ed eseguire degli atti cultuali, riassumendole tutte in unico medesimo termine astratto. Spesso in queste società arcaiche (nella misura in cui esse possono essere ricostruite, o ne esistono ancora dei resti) per i diversi ambiti della vita, per gli uomini e le donne, per i diversi gruppi sociali o le diverse abilità (agricoltori, artisti, guerrieri, ecc.), esistevano anche altri diversi concetti generici di attività riferiti ai diversi ambiti della vita e che non corrispondevano in alcun modo al moderno concetto universale di “lavoro”.

E allora, quando e in quale contesto questo concetto astratto-generale di attività sociale ed economica è emerso storicamente? In quelli che sono i diversi linguaggi culturali, la radice della parola “lavoro” riporta a un significato che indica la persona subalterna, dipendente o schiava. Il "lavoro", pertanto, non è stato in origine un'astrazione neutra e razionale, quanto piuttosto sociale: esso era è l'attività di chi aveva perso la propria libertà. Non importava quello che fanno queste persone possono fare, che sudino in miniera o in piantagione, che servano cibo in casa come domestici, che accompagnino i bambini a scuola o sventolino l'aria della padrona: è sempre l'attività di qualcuno che viene definito servo. Il contenuto dell'astrazione "lavoro", consiste nell'essere un servo. Pertanto, non c'è da stupirsi se nell'antichità, questo termine astratto abbia assunto (come ad esempio nella lingua latina) la connotazione metaforica di sofferenza e disgrazia. Si tratta della sofferenza dell'uomo che è attivo nel senso negativo e che perciò sta “barcollando sotto un carico”. Questo fardello può anche essere invisibile, dal momento che in realtà è il fardello sociale della dipendenza. È anche questo, in ultima analisi, ciò che si intende quando, nell'Antico Testamento della Bibbia, "Lavorare" viene interpretato come una maledizione comminata all'uomo da Dio. L'equiparazione tra sofferenza e "lavoro" non si riferisce solo al significato del mero sforzo. Anche una persona libera, in certe occasioni,  può impegnarsi nel mettere in atto uno sforzo, e può persino provare piacere nel farlo. Ecco perché è del tutto sbagliato fraintendere il "non-lavoro" dei liberi e degli indipendenti, nell'antichità, come se fosse pigrizia, e un “dolce far niente”; come spesso emerge nella letteratura marxista volgare. Nell'opera di Omero, l'eroe Ulisse è orgoglioso del fatto di aver costruito il proprio letto da solo. Ad essere disonorevole, non era l'attività in quanto tale, e non lo era neppure il lavoro manuale, ma lo era la subordinazione (la sussunzione) dell'uomo ad altre persone, o sotto una "professione". Un uomo libero poteva occasionalmente costruire un letto o un armadio, ma non gli era permesso di fare il falegname di professione; poteva commerciare occasionalmente, ma non gli era permesso di essere un mercante; occasionalmente, poteva scrivere poesie, ma non gli era permesso di essere un poeta (soprattutto non poteva farlo per guadagnare soldi). Chiunque, formalmente libero, avesse dovuto sottomettersi per tutta la vita a un lavoro retribuito in qualche ramo della produzione, sarebbe stato considerato "immaturo",nei confronti di quella attività, diventando così poco più di uno schiavo. Di conseguenza, l'attività di un dilettante libero non doveva essere necessariamente meno competente, o di qualità inferiore rispetto a quella di un “professionista” non libero. Praticare e acquisire conoscenze nelle varie arti era di certo considerato onorevole; e dalle storie favolistiche delle varie culture possiamo apprendere che nelle società antiche talvolta i figli dei re e dei principi dovevano imparare un mestiere; ma non per “essere” un artigiano e sottostare così alle sofferenze del “lavoro”.

A ridefinire, per primo in positivo, l'accezione negativa di "lavoro" come sofferenza e sventura, è stato il cristianesimo. Dal momento che la sofferenza di Cristo sulla croce avrebbe redento l'umanità, credere in essa ci impone in ogni caso di “seguire Cristo”; e questo significa accettare con gioia la sofferenza. In una sorta di masochismo della fede, il cristianesimo ha nobilitato la sofferenza e quindi il “lavoro” come obiettivo per cui vale la pena lottare.  I monaci e le monache dei monasteri si sottomettevano consapevolmente e volontariamente all'astrazione del "lavoro", al fine di condurre una vita da "servi di Dio", nel senso della sofferenza di Cristo. In termini di storia della mentalità, della disciplina e dell'ordine monastico, la rigida divisione della routine quotidiana e l'ascetismo monastico furono i precursori della successiva disciplina di fabbrica e del calcolo astratto e lineare del tempo della razionalità aziendale. Ma questa missione del "lavoro" si riferiva solo al significato metaforico del termine, in quanto accettazione religiosa della sofferenza in vista dell'aldilà; con essa non si perseguiva alcuno scopo positivo terreno. Fu solo poi, con il protestantesimo, soprattutto nella sua forma calvinista, che il masochismo cristiano della sofferenza divenne un oggetto terreno: il credente non doveva prendere su di sé le pene del "lavoro"come "servo di Dio" - in un isolamento monastico - ma doveva avere successo nel mondo terreno profano, al fine di dimostrare di essere stato prescelto da Dio. Naturalmente, non gli era consentito godere dei frutti del successo in nessun caso per non giocarsi la grazia divina rappresentata dalla ricerca di Cristo; doveva quindi fare del frutto del “lavoro” il punto di partenza per un sempre nuovo “lavoro” caratterizzato da un'aspra espressione di sofferenza e accumulare incessantemente ricchezze astratte senza goderne. Questa mentalità protestante si combinò con la fame di denaro degli Stati assolutisti della prima età moderna, e con la loro militarizzazione dell'economia. Mentre l'originario percorso cristiano di sofferenza verso il “lavoro” era stato scelto volontariamente, lo Stato lo trasformò invece in una legge sociale generale di costrizione. Il motivo religioso della sofferenza positiva mutò nel fine sociale secolarizzato del “lavoro”, mascherato da “razionalità economica”. In questo modo, le persone formalmente libere della modernità furono tutte sussunte sotto la forma immatura di attività che nell'antichità era apparsa come esistenza di servitù e quindi come sofferenza. L'attività libera e autodeterminata è stata ricondotta allo spreco temporale del cosiddetto “tempo libero”. La sfera centrale del “lavoro”, che era stata purificata nella sfera funzionale del fine astratto in sé, ora scindeva da sé le sfere della casa, della cultura, dell'istruzione, del gioco e della vita in generale. Andare al lavoro” divenne gradualmente un significato simile a quello che aveva “andare in chiesa”, anche se la società moderna dimenticò ben presto le origini storiche e religiose del “lavoro”. Ciò che è rimasto è il carattere positivamente ridefinito di un fatto in realtà negativo e spiacevole. Le persone si sono abituate a sacrificare la propria vita sull'altare del “lavoro” e a considerare come felicità la sottomissione a un “posto di lavoro” determinato dall'esterno.

Il liberalismo e il marxismo, hanno ripreso questa religione del "lavoro" dal protestantesimo e dai regimi assolutisti, e ne hanno completato la loro secolarizzazione. Nella totalità globale di un'attività in continuo movimento, la servitù è diventata libertà e la libertà è diventata servitù, vale a dire l'accettazione volontaria di una sofferenza che non ha altro significato che sé stessa. Il “lavoro” ha preso il posto di Dio, e in questo senso tutti gli uomini sono ora “servi di Dio”. Anche il management fa parte del “lavoro”, e assume su di sé la croce terrena della sofferenza al fine di trovare in essa la sua forza masochistica. L'eroe omerico Odisseo avrebbe disprezzato i cosiddetti governanti di oggi come dei miserabili servi, perché essi stessi si piegano sotto il giogo del “lavoro” e si collocano così nella forma sociale della immaturità. Anche il misero “tempo libero” oggi non è altro che la continuazione del “lavoro” con altri mezzi, come dimostra l'industria del tempo libero. La logica del “lavoro” si è nel frattempo impadronita delle aree scisse ed è penetrata nella cultura, nel gioco e persino nell'intimità. Allo stesso tempo, però, lo sviluppo delle forze produttive scientifiche ha portato ad absurdum sia la metafisica liberale che quella marxista del “lavoro”. Il principio della sofferenza, che è diventato positivo, non può più essere sostenuto, perché il capitalismo ha iniziato a liberare il “lavoro” dagli esseri umani. Così facendo, non solo disonora l'antropologia marxista, ma anche la propria. Con un concetto positivo di “lavoro”, l'emancipazione sociale non è più concepibile in futuro. Le persone non avranno altra scelta che invertire il risultato del capitalismo e liberarsi dal “lavoro”. Questa fine storica della sofferenza positiva non sarebbe la fine dell'attività umana nel confronto con la natura, ma solo la fine dell'immaturità non riflessa. Anche se i servi volontari vogliono assolutamente rimanere nella forma della sofferenza: il tempo del masochismo storico è finito.

- Robert Kurz - Pubblicato su Streifzüge Heft 2/1998  -

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