Isole contese, abbandonate, conquistate e riconquistate, vendute e amate, incantate e stregate, plasmate dal vento che le abbraccia e le sferza, luoghi dell’origine e dell’utopia, inaccessibili, invisibili, isole che non sono isole, appena affioranti, quasi penisole: da Cipro ad Alcatraz, da Tortuga alle Galápagos, quando parliamo di isole – secondo il narratore di questo libro – parliamo di profezie, messaggi in bottiglia affidati alle acque. Che cosa vogliono comunicarci, le isole, con la loro presunzione di pensarsi come centro del mondo, di credere che tutto giri attorno a loro, come in realtà fanno solo le correnti e i pesci? La cosa piú difficile di fronte a un’isola è semplicemente leggerla, capire quale lingua parla e quale inesauribile racconto mormora il mare frangendosi sugli scogli. Storie fantastiche di isole vere descrive l’incontro di due personaggi. Il primo è un narratore, il Pilota, un marinaio che ha navigato su ogni rotta ed è sbarcato in ogni porto, e possiede perciò la saggezza dell’esperienza, quella vera, che si deposita lentamente nel corso di una vita. Sorseggiando un bicchiere di vino Pigato o di rum, fumando una delle sue sigarette papier maïs, pescando nella baia a bordo di una lampara o osservando il mare dall’alto della collina, con il suo affabulare ipnotico e avvolgente il Pilota irretisce chi lo ascolta, lo piglia all’amo, lo cattura, iniziandolo all’insulomania, il culto, o malattia, degli ultimi discendenti di Atlantide. Il secondo personaggio si limita per lo piú ad accogliere e raccogliere i racconti dell’altro, ma senza chi ascolta non esisterebbe chi narra, senza lettore non ci sarebbe scrittore. Il porto in cui i due si trovano è quello di Genova, dove «quando vedi una nave enorme sfilare piano in fondo alle vie, ti chiedi se sta salpando lei o se sta salpando la città»; il molo su cui passeggiano è «una rampa verso l’ignoto, una macchina della fantasia: se non salpi con una nave, lo fai con il desiderio o con i ricordi». E il testo che compongono insieme è un isolario, ovvero un libro anfibio, per metà vero e per metà fantastico: un inno al mistero e all’inquieta bellezza delle isole, e quindi all’arte del racconto, e all’oceano delle storie.
(dal risvolto di copertina di: Ernesto Franco, "Storie fantastiche di isole vere". Einaudi, pagg.136, €17,50)
Le vere isole sono sempre immaginarie
- di Alberto Manguel -
Questo è un libro meraviglioso sotto più di un aspetto: meraviglioso per la pregevole scrittura, meraviglioso per la sua potenza creativa, meraviglioso grazie alle generose possibilità offerte alla mente del lettore in cerca di nuovi orizzonti. Forse ogni lettore però, in un certo senso, un viaggiatore immaginario, come quelli concepiti da Ernesto Franco. Forse i luoghi immaginari nascono dal semplice desiderio di vedere oltre l'orizzonte. Sappiamo che viaggiatori intrepidi provenienti dall'Islanda, dalla Cina e dall'Africa partirono ben prima di Colombo all'esplorazione di mari sconosciuti; altri, ugualmente intrepidi, ma meno inclini all'azione concreta, rimasero in patria e i paesi inesplorati cercarono di immaginarli. Una cronaca medievale narra di un nobiluomo a cui il confessore aveva raccomandato di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme per espiare i suoi peccati. Detestando l'idea di affrontare le duemila miglia di distanza tra la sua residenza e la Città Santa il nobiluomo fece per vari anni ogni giorno un giro completo attorno al suo castello, dopa averne calcolato la circonferenza, fino a coprire la distanza richiesta, costruendo una cartografia immaginaria sulla geografia reale circostante.
Ma un evento all'occorrenza fantastico è sufficiente a rendere fantastico un luogo? Tutta la geografia, sia quella che troviamo sulle enciclopedie e gli atlanti o la più ampia, visitata in sogno, esiste in uno spazio limitato solo dal nostro potere di definirlo fantasia o realtà. Le isole in particolare, poiché caratterizzate da quella perfetta metafora dell'infinito che è il mare, diventano luoghi in cui tutto è possibile. Ernesto Franco, con il gusto dell'antico esploratore, ha scelto di seguire questo percorso di metamorfosi. In questo libro delizioso, che avrebbe fatto invidia allo stesso Marco Polo, Franco si è scisso in due complici involontari che compongono un catalogo di isole, tratte senza dubbio dal mondo reale, ma trasformate in luoghi fatati: il Pilota, un vecchio marinaio astuto con un debole per il rum e il tabacco, che descrive queste isole non meglio identificate e il Cronista, che gli fa da amanuense. Spetta al lettore decidere se questi luoghi magici che sorgono dai flutti siano, ad esempio, «secche che si prendono per isole oppure isole che si mascherano da secche». Ogni isola esplorata da Franco è se stessa e anche la sua ombra. L'isola di Ons in Galizia, ad esempio, è un minuscolo puntino in mezzo al mare, ma siccome ospita un esercito di spettri gementi, a quanto pare anime in cerca del proprio posto nell'Aldilà, Ons è anche l'ingresso all'inferno o la porta del Paradiso. «Anche qui», ci vien detto, «un'entrata e un'uscita». Nell'isolario di Franco, l'isola può anche divenire la creatura che la abita, un orso nel caso dell'isola di Kodiak, detenuti per Alcatraz o il Minotauro per Creta. L'identità dell'isola muta non solo in presenza di tale abitanti, ma anche dei viaggiatori che vi approdano per caso e in tal modo la caratterizzano, perché come spiega il Pilota, «Non c'è un labirinto uguale per tutti». Il Pilota racconta la vicenda di Atlantide, isola diventata una storia. L'intervento umano può influenzare il destino di un'isola, ma non è un destino senza appello. Le Galapagos di Darwin sono oggi «isole protette, cioè a rischio di distruzione». Certamente, e il Pilota aggiunge: «Ma i vulcani, in fondo la mare, non dormono».
Libri come questi riempiono di invidia il lettore spingendolo a desiderare di scrivere storie a sua volta. Se Ernesto Franco me lo consente, vorrei omaggiarlo di questa storia vera. Il 4 novembre 2003 quattordici rifugiati curdi e quattro marinai indonesiani a bordo di una piccola imbarcazione approdarono sull'isola di Melville, in acque australiane, 80 km a nord della città di Darwin, con l'intento di richiedere asilo politico. Informato del fatto, non essendo disposto a trattare con gli ennesimi richiedenti asilo, il primo ministro australiano John Howard assunse una posizione drastica: decise di rescindere i legami della nazione con Melville e, in nome del suo governo, "ripudiò" l'isola, assieme ad altri 4000 isolotti appartenente all'Australia. Melville è diventata immaginaria.
Ogni viaggio immaginario o reale che sia, ha le proprie, rigidissime regole., Una di esse, forse la più importante, è che ciascun viaggio è sequenziale, nel vero senso della parola. «Viaggiare», dice Franco (o forse uno dei suoi personaggi) «è forse solo un continuo mandar notizie a sé stessi nel luogo di partenza». Eppure non appena il viaggiatore è salpato il porto alle sue spalle cambia: nuovi edifici spuntano su strade modificate e nuove persone vengono ad abitarle, circondate da un paesaggio a sua volta mutato. Anche nella memoria del viaggiatore la nostalgia riconfigura il mondo abbandonato, trasformando catapecchie in palazzi e banalità in meraviglie. Il viaggiatore - il migrante, l'esule, il reietto - è condannato a ricordare un luogo che non esiste più. In questo senso la nostra geografia è tutta immaginaria. Amleto definiva la terra immaginaria verso cui noi tutti siamo diretti «il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno». Forse i nostri sono tutti viaggi di preparazione al paese che sta dall'altra parte, quello illustre, tanto atteso.
- Alberto Manguel - traduzione di Emilia Benghi - Pubblicato su Robinson del 21/4/2024 -
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