L’Astrazione-Valore e L’Astrazione «Energia»
- di Sandrine Aumercier -
«L'energia non può avere lo stesso "status categoriale" del valore o del lavoro astratto (...). Ciò potrebbe essere concepito soltanto se il lavoro astratto fosse effettivamente la medesima cosa del lavoro fisico o dell'energia (come dire che una sonda che passasse vicino a Giove, per ricevene uno slancio di moto, eseguirebbe pertanto un lavoro astratto, o su di essa un lavoro astratto verrebbe fatto da Giove; la produzione di glucosio e ossigeno per mezzo della fotosintesi, insieme alle trasformazioni energetiche che lo accompagnano, sarebbe un lavoro astratto, ecc.). » ( Thomas Meyer, "Ignoranza o Realtà", exit-online.org, 2024).
La frase che ho riportato (e che si suppone dovrebbe criticarmi) costituisce un concentrato di interpretazioni errate che riguardano sia i rapporti tra il concreto e l'astratto, sia i rapporti tra energia e lavoro nel capitalismo. Il suo autore insiste nell'ignorare la dimensione astratta dell'energia e, per inciso, ne rifiutarsi di prendere posizione sul cosiddetto "comunismo high-tech" del suo compagno Tomasz Konicz. Di modo che la "critica radicale" possa prendere di mira l'intera società capitalistica pur continuando a escludere da tale critica la produzione industriale e il soggetto auto-cosciente dell'Illuminismo. Queste due co-estensioni del capitalismo vengono così salvate dalla critica. I comunisti del futuro saranno delle persone misteriosamente buone, illuminate e ragionevoli (così come lo sarebbe il filosofo-re di Platone, in versione comunista) i quali sapranno come fare a ordinare e gestire l'infrastruttura industriale capitalistica in maniera vantaggiosa. Saranno talmente altruisti da gestire questa infrastruttura senza che serva alcun sistema di remunerazione(cosa che costituisce l'unica condizione per cui il sistema industriale globale sia stato in grado di svilupparsi nel capitalismo). Per questo marxista ridotto male, e per i suoi compagni, il lavoro morto non sarebbe un lavoro astratto! Non una sola obiezione che mi sia stata rivolta finora per spiegarmi come reggerebbe questo prodigio teorico: bisognerebbe abolire il lavoro astratto, ma conservare una parte del lavoro morto, il quale perciò smetterebbe di essere lavoro astratto coagulato. E così questo lavoro morto dovrebbe essere accuratamente selezionato da un'umanità miracolosamente illuminata che ha ottenuto,non si sa come, un consenso planetario. Una fantasia allo stato puro! Quando, invece, la mia base teorica mi porta a dire che, al contrario, una simile capacità soggettiva di smistamento illuminato e di consenso planetario non esiste; si tratta solo di una finzione morale propagandata fin dai tempi moderni. Del resto, non c'è dubbio che la crisi stia progredendo, e insieme a essa l'inevitabile fine del sistema che conosciamo. La critica negativa non deve servire a prometterci la luna, ma a rimuovere ogni illusione circa il reale funzionamento del sistema che ci ha portato a questa catastrofe; senza però cercare inutilmente di salvare alcune "parti" di esso. In assenza di argomentazioni, a Mayer non è rimasto altro che accusare ancora una volta i suoi avversari di "darwinismo sociale", senza mai rispondere agli argomenti che gli sono stati opposti. Ovviamente non gli rimane altro da esprimere, se non questo riflesso pavloviano. Accusare gli altri di "darwinismo sociale", su un dibattito scritto, gli consente di passare, in negativo, per un benefattore dell'umanità. Egli così ci assicura generosamente la sopravvivenza dell'umanità grazie a quei mezzi tecnici che la sua fantasia gli suggerisce come necessari. Nel frattempo, chiunque eserciti una critica categoriale e ben argomentata del sistema industriale, sarebbe invece un infame malthusiano che vorrebbe sacrificare al proprio destino la maggior parte dell'umanità! Eppure è oggi, e non in futuro, che il sistema industriale sta distruggendo milioni di vite umane e non umane, avvelenando il pianeta lentamente, e in gran parte in maniera irreversibile. Nessuna produzione industriale - intendo dire, proprio nessuna, - sfugge a questo verdetto. Allora Meyer mi indichi un solo prodotto industriale che non contribuisca a questa devastazione, e che meriti di essere mantenuto dopo una ragionevole cernita (della quale peraltro non è in grado di dirci quale sarebbe l'istanza soggettiva). Tutto ciò che viene prodotto industrialmente, senza eccezioni, richiede quantità fenomenali di acqua e di energia, distanze geografiche che fanno il giro più volte della Terra, estrazione devastante di materie prime, innumerevoli processi chimici distruttivi, ecc. Rimando al mittente l'insulto: infatti è lui stesso che si rivela per essere un "darwinista sociale", promuovendo astrattamente la fine del denaro e delle merci, senza prendere in considerazione la realtà materiale del sistema industriale che ne costituisce la sostanziale co-estensione. Questa infrastruttura materiale, è essenzialmente distruttiva, e lo è in tutte le sue parti costitutive, proprio come il sistema di produzione di merci che l'ha generata. E io dico che se si interrompe l'accumulazione di denaro e la produzione di merci, ecco che allora anche la produzione industriale, con le sue miriadi di differenziazioni e divisioni - così come lo scambio internazionale di merci - vengono di fatto interrotti; e milioni di persone vengono immediatamente gettate nella discarica dei rifiuti. È questo ciò che è accaduto durante il primo lockdown della crisi del Covid. Possiamo immaginare cosa produrrebbe la stessa cosa su una scala molto più ampia e definitiva. Pertanto la fine del capitalismo non sarà certamente una transizione graduale, fatta nella gioia e nel buon umore. Costerà vite umane. Possiamo essere dispiaciuti per questo, ma non dipende dalla nostra buona volontà. Questa è una delle tante conseguenze della catastrofe nella quale ci troviamo e che non finirà all'improvviso il giorno in cui il capitalismo esalerà il suo ultimo respiro. Le persone dovranno reimparare a organizzarsi, e ovviamente dovranno farlo in un contesto sociale ed ecologico totalmente deteriorato, senza precedenti storici, a meno che il feticcio della merce non ci precipiti tutti, fino all'ultimo, in una fine spaventosa, simile alla processione dei ciechi di Brueghel. Nessuno può dire quale sarà il percorso collettivo che verrà intrapreso. La cosa non ha nulla a che vedere con le categorie che oggi pretendiamo di criticare, o con le "intenzioni generose" che il teorico crede di poter portare dietro! Del resto, difendere l'illusione secondo cui una parte del sistema industriale potrà essere salvata, modificata, migliorata e riorientata per un futuro post-capitalistico, rappresenta un inganno intellettuale e un incrollabile attaccamento al feticcio della merce; cosa assai problematica nel momento in cui si pretende di criticare le categorie fondamentali del capitalismo. Il fatto che Thomas Meyer e altri credano di poter sostituire le filiere produttive industriali globalizzate con un'organizzazione industriale comunista egualitaria, efficiente ed ecologica (e probabilmente cibernetica, ma in modo non esplicito), e tutto questo senza soldi, testimonia, tra l'altro, un'ignoranza imperdonabile di tutti quei dibattiti sul "calcolo socialista" che hanno così tanto agitato il XX secolo, e che Robert Kurz ha giustamente deriso. Tutti questi dibattiti ci portano necessariamente alla soluzione cibernetica, e hanno come condizione di possibilità l'astrazione "energetica", la quale rimane alla base della produzione industriale. La cibernetica è infatti la figlia legittima della termodinamica. Non mi lascerò coinvolgere in una polemica così insensata, e a un simile livello di malafede. Ho solo preso semplicemente l'affermazione citata nell'epigrafe, come un pretesto per uno sviluppo che, spero - per i lettori meno ostinati - possa essere più proficuo. Il fatto che tutte queste interpretazioni errate siano universalmente diffuse, non le giustifica, né le rende più ammissibili. Viceversa, esse devono essere necessariamente confutate, con la frequenza e la metodicità necessarie. A differenza dei miei interlocutori, replico più di una volta alle obiezioni che mi vengono rivolte.
Chi pensa in modo astratto?
Astratto, non significa "ideale" o "fittizio", e in contrapposizione a una presunta concretezza sensibile. L'astratto designa – seguendo Hegel – il risultato di quell'operazione che consiste nell'isolamento, vale a dire astrazione, di tutti quegli oggetti, qualità e fenomeni dalla totalità dei processi dinamici e storici, che tale totalità fondano, e ne sono alla base. In tal senso, si può fare riferimento al piccolo testo satirico di Hegel, "Chi pensa astrattamente?". Hegel voleva liberarsi di tutte quelle fissazioni sulla comprensione per mezzo della dialettica speculativa. Tali fissazioni si ripercuotono in ciò che la psicoanalisi chiama fantasia, e che la critica sociale chiama ideologia. Da parte sua, Marx poneva la radice di questo processo di astrazione nella separazione dei produttori privati dai loro mezzi di produzione. Ecco che così, la totalità che si forma alle loro spalle si presenta come qualcosa di estraneo, qualcosa in cui non riconoscono il frutto del proprio lavoro. Con Marx, a essere in grado di superare la frammentazione dei processi, indotta dalla divisione capitalistica del lavoro e dall'atomizzazione di tutte le attività, non è più la ragione. Se la critica dell'economia politica, intende fornire gli strumenti per tale superamento, ciò non sarà più in virtù della potenza del concetto - come in Hegel - quanto piuttosto in virtù della scoperta delle contraddizioni reali del modo di produzione capitalistico. Qui, non è possibile addentrarsi nella moderna e vertiginosa questione epistemologica relativa al rapporto tra il concetto (in senso hegeliano) e il reale (in senso materialista marxiano). Diciamo che l'operazione del materialismo dialettico, consistente nel «rimettere sui piedi la dialettica» non potrebbe consistere in nient'altro che nell'affrontare la dialettica da un altro punto di partenza, senza confutarla, dato che per Hegel la questione dell'inizio è irrilevante. Secondo questa ipotesi, l'unità speculativa del reale e del razionale, può effettivamente essere affrontata sia dal lato del reale che dal lato del razionale, senza che nell'approccio speculativo cambi nulla di sostanziale. L'insistenza su tutto il resto, sul negativo che non viene assorbito nel movimento dialettico, non costituisce la base di una confutazione della dialettica, poiché la dialettica - in quanto movimento del divenire - è sempre una dialettica negativa. La riconciliazione, denunciata dalla tradizione post-hegeliana, sia nella versione hegeliana (della fine della storia) che in quella marxiana (avvento di una società comunista di liberi produttori associati) continua a rappresentare le due versioni di quella che rimane una debolezza inclusa nella premessa del punto di partenza; vale a dire la fiducia riposta in un processo il cui futuro non è innocente (come direbbe Nietzsche) ma è determinato. contro l'intenzione teorica dei loro autori, sia nella sua premessa idealista che nella sua premessa materialista. Questa debolezza può essere contrapposta tanto a Hegel quanto a Marx senza che per questo venga inficiata l'essenza del pensiero dialettico, visto come l'unico in grado di cogliere negativamente la natura delle contraddizioni in gioco nella modernità. Ma torniamo a Marx. Per lui, l'esercizio del pensiero critico può mettere a nudo le contraddizioni reali, ma non può modificarle grazie alla comprensione astratta (una posizione che, del resto, non è in alcun modo in contraddizione con il pensiero hegeliano). La rappresentazione è sempre secondaria rispetto alle relazioni materiali in cui è radicata. Georg Lukács e Alfred Sohn-Rethel, hanno mostrato particolarmente bene le aporie della comprensione astratta, portate a un parossismo dall'idealismo trascendentale kantiano. Ma essi non hanno individuato il difetto nascosto della forma che si trovava ancora in Marx, e che è stato definitivamente confutato da Freud (senza fare riferimento a Marx): non è vero che la coscienza storica si sviluppa al ritmo naturale dello sviluppo delle forze produttive. Questo presupposto di Marx. costituisce un inganno idealistico, così come lo costituisce il suo prototipo hegeliano. Se questo fosse vero, allora più le forze produttive si sviluppano, più gli esseri umani – o la classe che si suppone portatrice degli interessi dell'umanità – svilupperebbero un'autocoscienza necessaria a qualsiasi progetto di emancipazione. Ma non esiste nulla del genere che ci possa permettere di convalidare empiricamente e teoricamente questa assurda tesi. L'opera di Freud, ci permette di capire il perché. Per mantenere il filo delle mie osservazioni, non mi occuperò nemmeno di tale argomento in questa sede. Torniamo pertanto alle condizioni poste dal modo di produzione capitalistico. Per produrre merci, il capitale costituisce la natura e gli oggetti del mondo in modo adeguato ai suoi bisogni. Così facendo, esso costituisce come "astratte", tanto le categorie più alte della scienza quanto gli oggetti più umili della vita quotidiana: per poterlo fare, li separa entrambi dai processi che ne sono alla base, e ce li presenta sotto forma di una falsa autonomia individuale. Li percepiamo come oggetti naturali, validi per sé stessi, capaci di soddisfare un bisogno naturale, e quindi di corrispondere a una "domanda" posta nel vocabolario della scienza economica. Gli oggetti apparentemente più concreti sono, in questo senso, i prodotti degli stessi processi di astrazione delle categorie intellettuali che organizzano questa separazione stessa. È la separazione dei propri processi a rendere astratti gli oggetti fisici e gli oggetti del pensiero. Non il loro contenuto che viene presunto come concreto o astratto. L'astrazione "democrazia", non è né più né meno astratta dell'astrazione "baguette". In entrambi i casi, siamo invitati a gestirli ignorando la totalità dei processi socio-storici che li rendono possibili. Li riceviamo come prodotti naturalmente destinati a noi, sul modello di un adattamento armonico della domanda e dell'offerta. Tutto ciò che contraddice questa presunta armonizzazione della domanda e dell'offerta, viene considerato un errore che può essere riparato, o migliorato sulla strada della perfettibilità. A prima vista, qualcosa di simile si potrebbe dire anche riferito a qualsiasi società antica che ignori i propri stessi fondamenti culturali. Ma la differenza è che una società altra dalla nostra, non ha la pretesa di separare scientificamente i suoi feticci e i propri miti dalla totalità della vita sociale. Al contrario, in quelle società diventano un tutt'uno con la totalità e si evolvono con essa. È solo in virtù dell'ambizione scientifica a spiegare "oggettivamente" e "razionalmente" ogni e qualsiasi fenomeno del mondo, estraendolo dal suo contesto storico per conferirgli l'idealità immobile dell'oggettività, che possiamo cominciare a parlare di astrazione, in quel senso in cui Hegel ha battezzato il termine. Ripetiamo: nella modernità, l'astrazione non designa il regno delle idee, né quello degli spiriti, o quello di una nuova metafisica. L'astrazione designa qualsiasi oggetto studiato isolatamente dalla totalità delle sue condizioni di esistenza. Gli oggetti della ricerca e della produzione, vengono resi astratti dalla loro atomizzazione funzionale che li trasforma in elementi separati dall'intero processo storico-sociale che li aveva resi possibili. Vengono separati – fino alla microparticella nanometrica – per il solo e unico vantaggio dell'ottimizzazione, diretta o indiretta, dei processi produttivi capitalistici. Il guadagno che ne risulta, in termini di conoscenza fondamentale, non è - come avviene per ogni valore d'uso - nient'altro che un prodotto di scarto del modo di produzione preso nel suo insieme. Per la scienza, questo "beneficio secondario" non può essere valido come giustificazione assoluta. Ma va da sé, che l'operazione che segue a questa astrazione è la ricerca permanente per re-inscrivere a posteriori l'oggetto separato nel contesto sistemico da cui è stato prima strappato. Questo, implica la progressiva costituzione di una teoria sistemica del mondo, la quale viene a essere costituita dalla successiva reintegrazione di tutti quei fenomeni che sono stati isolati e studiati separatamente. Ciò che è sistemico soi trova costretto a disattendere ancora una volta le qualità intrinseche dell'oggetto, e studiare solo i suoi scambi con il suo ambiente. Torneremo su questo punto.
L'astrazione crea una sfera intellettuale astratta, e una sfera materiale altrettanto astratta. Queste due sfere insieme, costituiscono il processo metabolico del lavoro astratto. Il lavoro astratto, a sua volta, è l'insieme dell'attività concreta della produzione di merci (secondo quelli che sono i criteri stabiliti dal tempo medio di lavoro sociale raggiunto a un dato livello di sviluppo della produttività) e dell'attività, altrettanto concreta, relativa a conoscere, organizzare e sviluppare scientificamente tale produzione che presiede alla metafisica tecno-scientifica del progresso. È questo è il motivo per cui nell'espressione marxiana del «dispendio produttivo di materia cerebrale, muscoli, nervi, mani, ecc. [*1]», la mano e il cervello, sebbene appaiano distinti alla coscienza dualistica, non costituiscono funzioni separate. Soggettivamente, la coscienza si attribuisce un suo status separato. Crede di essere al di sopra dei fenomeni di cui si occupa, e ignora totalmente le proprie determinazioni inconsce. La scissione della coscienza ,tra una funzione intellettuale astratta e una funzione manuale astratta, riflette la divisione sociale del lavoro in funzioni direzionali ed esecutive. Ma in realtà queste funzioni sono inseparabili nel processo complessivo combinato del lavoro astratto. La forma sociale si riflette tanto in un gesto manuale, o in un processo standardizzato, quanto in un habitus intellettuale, o in un'ideologia. Tutti quanti loro sono ugualmente ignoranti della loro comune origine sociale. In tal modo, la merce "concreta" non è meno astratta delle idee più astratte. Il lavoro "concreto" non è meno astratto del lavoro astratto, poiché il primo viene a essere semplicemente l'altra faccia del secondo. Su questo punto, l'apparente materialità concreta della merce e della sua produzione materiale - la dimensione fisica, percepibile e tangibile del valore d'uso - ingannano e ci fanno assumere come "concreto", ciò che invece è il risultato di un movimento di astrazione indispensabile al processo globale di produzione capitalistica. L'apparente immediatezza dell'oggetto è il prodotto di questo movimento di astrazione, dimenticato nell'oggetto stesso [*3]. Questo vale nel capitalismo, e vale per tutte le categorie apparentemente naturali, come l'economia, la politica, i processi di produzione, il lavoro, i bisogni, gli impulsi, la riproduzione sociale, le relazioni di genere, le dinamiche della popolazione, gli oggetti scientifici, ecc. Nessuno di questi oggetti di indagine, di discorso o di intervento, costituisce minimamente un oggetto naturale, ma vengono tutti costituiti come naturali, a partire dal modo di produzione capitalistico, il quale si basa su un'ontologia naturalista (Philippe Descola). Allora, chi è che pensa in modo astratto? Ogni processo di produzione, ogni processo di ricerca, ogni visione del mondo che scomponga il mondo stesso in elementi isolati, per interessarsi poi, solo in una seconda fase, agli "scambi" che essi intrattengono tra loro nella modalità intersoggettiva di dialogo tra individui separati (scambi di materia, di energia, di valore economico, ecc.) costituisce un pensiero astratto. Ciò che l'economia standard fa, nella modalità dell'analisi puramente circolatoria degli scambi tra produttori separati, la psicologia lo fa nel suo campo riducendo tutti i fenomeni a scambi intersoggettivi; e la scienza lo fa, riducendo tutti i fenomeni del mondo, precedentemente atomizzati, a scambi di materia ed energia. Gli storici e gli antropologi hanno dimostrato, tuttavia, che questa divisione della realtà in sfere o processi apparentemente indipendenti, le cui fasi sono segmentate in modo sempre più sottile, è assolutamente e del tutto moderna. Le persone che vivono nel capitalismo hanno l'astrazione sotto la pelle come se la respirassero. Come già detto, non si tratta del fatto che la condizione umana si basi sempre sull'ignoranza delle condizioni che la costituiscono, ma è l'operazione specifica della produzione moderna che richiede l'atomizzazione e la razionalizzazione di tutti gli elementi e di tutti i fenomeni della realtà, per poi reintegrarli in una visione sistemica; già denunciata da Hegel, a suo tempo, in quanto promozione del falso infinito. Potremmo chiamare questa concezione, la concezione del puzzle del mondo: ogni pezzo precedentemente isolato deve alla fine trovare il suo posto nel nuovo prodotto sintetico, il quale costituisce l'immagine del mondo capitalistico. Questo nella speranza di invertire il processo di sradicamento sociale che isola ogni pezzo del puzzle dal resto. Deve essere configurato, per adattarsi a un set sintetico a posteriori. È un po' come se dopo averti strappato la mano – o qualsiasi altro organo, oggetto, funzione – lavorassero sodo per attuare un trapianto d'organo, che deve magicamente equivalere a far sì che non sia successo nulla. In tal modo la totalità del mondo sarebbe stata allora sintetizzata dal rapporto di capitale, cancellando persino le cicatrici della sua istituzione; cosa che fortunatamente non è riuscita del tutto.
Conseguenze dell'astrazione scientifica sul trattamento degli oggetti della scienza
Le categorie scientifiche della produzione capitalistica sono così profondamente radicate nelle nostre abitudini di pensiero, che si manifestano nell'evidenza attraverso cui il realismo ingenuo ontologizza il mondo. Gli oggetti del mondo sembrano così adattarsi perfettamente alle nostre categorie immediate, proprio come il pane sembra adattarsi ai nostri bisogni, mentre invece esso non viene prodotto per soddisfarli, ma per alimentare l'accumulazione capitalistica. Questi oggetti sembrano parlarci del mondo così com'è, mentre in realtà ci parlano solo del mondo così come noi lo produciamo senza saperlo. I processi fisici che stanno alla base della costituzione storica dell'astrazione moderna, sono stati in grado di imporsi solo grazie all'aiuto delle nuove astrazioni scientifiche emerse con il capitalismo. Storicamente, a tutti i soggetti il lavoro astratto appare come un'imposizione a sottomettersi alle nuove condizioni di produzione. La loro dinamica, è dettata dal livello di produttività determinato dall'insieme delle attività produttive, le quali competono sul mercato a un determinato livello storico di sviluppo. L'astrazione è la conseguenza della separazione di tutti i produttori privati, i quali vengono socializzati solo a posteriori attraverso la vendita sul mercato dei loro prodotti; allo stesso modo in cui gli oggetti scientifici sono reintegrati, a posteriori, in una visione sistemica del mondo che viene vista come se fosse sempre più fluida e integratrice. La dimensione astratta del lavoro astratto, deriva da questa atomizzazione sia dei produttori che dei processi produttivi, così come dalla combinazione, a posteriori, dei prodotti del lavoro immessi sul mercato al servizio di quel "soggetto automatico" che i liberali traducono nella finzione della mano invisibile, o dell'equilibrio perfetto. Parlare degli oggetti della natura come se fossero oggetti naturali, è caratteristico di questa operazione inaugurale della scienza moderna, la quale inventa una nuova oggettività, risultante dai suoi stessi processi di astrazione. Gli oggetti della natura, ci vengono presentati, spiegandoci che essi sono al di fuori di essa, che non hanno nulla a che fare con il suo funzionamento, che noi ci limitiamo solo a trovare ciò su cui operiamo. Ma la scienza non è solo questo. Poi, in seguito, continua a spiegarci instancabilmente che essa stessa si limita solo a prolungare l'azione della natura, impadronendosi degli oggetti della natura allo scopo di trasformarli. La condizione della scienza moderna, è quindi quella di «porsi sia al di fuori della natura che dentro la natura». Dapprima, si separa dalla natura costituendola in quanto oggettività inerte; secondariamente, essa si reintegra in una tale natura oggettivata, naturalizzando le proprie operazioni all'interno del grande sistema naturale del mondo, di cui l'ecologia è il prodotto più emblematico. Lungi dall'essere un'obiezione all'economia, l'ecologia è una sua co-estensione storica, cosa che ci spiega perché è impossibile cambiare la traiettoria dell'una per modificare l'altra [*4]. I pezzi del puzzle, come effetto dell'astratto schiacciamento dell'esperienza del mondo, risultante in miriadi di oggetti separati che devono essere a loro volta reinscritti nel grande sistema "naturale" del mondo. Questo progetto trova il proprio culmine nell'ipotesi vitalista di una biosfera, che la tecnosfera dovrebbe soltanto imitare perfettamente, in modo che così tutto finisca un giorno per armonizzarsi perfettamente, secondo la teleologia tecno-scientifica. La scienza si costituisce in quanto eccezione alla natura, che essa riduce all'inerte raccolta dei suoi oggetti di indagine, mentre allo stesso tempo naturalizza tutti i prodotti dislocati da questa operazione, tra i quali annovera anche l'operazione soggettiva che viene messa sullo stesso piano i ogni e qualsiasi altro oggetto. Nasconde così la propria ontologia. È questa, infatti, la vera e propria condizione del suo funzionamento moderno. Il cervello che compie una simile frammentazione, viene esso stesso concepito come funzione naturale – tra le altre – del mondo. Il cervello umano rimane sempre, al tempo stesso, il vertice della creazione che sottomette il mondo alla sua "intelligenza", oltre a essere un prodotto della natura uguale a qualsiasi altro, capace di riflettersi nella natura, tanto quanto qualsiasi altro oggetto. Se non prendiamo in considerazione queste due fasi dell'operazione tecnoscientifica – l'oggettivazione della natura esterna da una parte, e la successiva reintegrazione del soggetto della scienza in questa nuova natura dall'altra – non capiamo nulla delle contraddizioni moderne e rimaniamo instancabilmente invischiati nei suoi paradossi e nelle sue aporie. Per questa ragione, la questione metafisica della relazione tra parola e cosa, tra pensiero e realtà, diventa un'ossessione della filosofia moderna. Sottratta all'operatività universale della produzione tecno-scientifica, la questione della relazione tra spirito e materia, riemerge in relazione ai problemi filosofici dei quali si dimentica la genesi storica. L'ossessione postmoderna di volersi sbarazzare della metafisica, come se fosse una patata bollente, continua tuttavia ad attribuire carattere metafisico sia alle forme che ai contenuti del pensiero, e non a quelle astrazioni reali che governano gli atti sociali. Riassumendo: l'intervento scientifico minaccia e compromette la propria operatività in due fasi. Comincia, postulando una natura al di fuori di sé stessa, come se ci fosse un mondo di oggetti distinti dalla propria natura, che poi ne diventano i suoi oggetti di conoscenza; poi finisce per riunire ciò che ha separato infilando tutto nel falso continuum naturale degli oggetti della natura, nei quali include anche sé stesso, per addizione. Si comporta come quella bambina che dice: «Ho tre fratelli: Pierre, Ernest ed io» [*5]. E alla fine di tutto questo, trova il risultato della sua operazione, decurtato sotto forma di antinomie insolubili tra spirito e materia, soggetto e oggetto, concreto e astratto, ecc.. Il mondo viene così diviso in unità discrete, le quali diventano altrettanti oggetti scientifici studiati per sé stessi, indipendentemente l'uno dall'altro; si popola di un'infinità di oggetti "naturali", i quali costituiscono le diverse branche della scienza, siano essi esatti o umanizzati, ecc. Ecco perché la scienza non è più l'antica ricerca della verità che era ancora per Hegel, e che ha attraversato due epoche. La scienza diviene la collezione di tutte le branche di studio degli oggetti discreti del mondo naturale. La filosofia perde pertanto ogni carattere speculativo; anch'essa diventa, come tutte le altre, un'attività a sé stante svolta da filosofi professionisti e da singoli dilettanti. A questo positivismo scientifico, Hegel oppone una concezione della scienza in quanto movimento storico delle forme della mente, e che sono tutti momenti della verità del tutto. Egli afferma il movimento speculativo della filosofia, e lo fa nel momento stesso in cui diventa obsoleta. Crede di rimediare alle aporie della scienza moderna in un momento in cui esse sono in procinto di imporsi sulla realtà. Egli diventa così, con la sua determinazione a invalidarli, il più grande testimone delle impasse della scienza moderna. Ma la storia degli ultimi due secoli respinge nel reale il tentativo di Hegel, poiché lo scopo della scienza non è più la ricerca della verità (che rimane il progetto di Hegel) ma la ricerca dell'operatività. In tal modo, il pragmatismo teorizza come rilevante non ciò che è vero, ma ciò che funziona, ciò che ha effetti nella pratica [*6]. Il fatto che i calcoli matematici diano risultati che funzionano nel mondo reale, basta a convalidare la loro accuratezza. La questione della loro verità è irrilevante. La ricerca dell'operatività, si manifesta nell'alleanza tra scienza e ingegneria, e la cosa ha luogo fin dagli albori dell'era moderna, vale a dire ben prima che si iniziasse ufficialmente a parlare di "tecno-scienza" o di pragmatismo in filosofia. La scienza moderna è diventata essenzialmente tecnoscienza assai prima di avere la parola: è una conoscenza operativa degli oggetti della natura che rende possibile estendere indefinitamente le loro applicazioni tecniche e la padronanza locale dei loro effetti, senza alcuna considerazione per la questione della verità. Più aumenta questo controllo locale, più esso sfugge alle conseguenze globali. Tuttavia, esso ritiene di poter raggiungere la padronanza globale, continuando a estendere il regno aggiuntivo delle sue operazioni locali. Il pensiero speculativo è relegato a un'attività soggettiva, tra le altre, allo stesso modo della musica o della poesia. Non ha alcun impatto sul corso della realtà sociale, contrariamente a quanto immagina quando maneggia gli universali e crede di avere il mondo nelle sue mani.
L'astrazione "energetica" adeguata al metabolismo sociale del capitalismo
Che "l'energia" appaia come una cosa concreta – per esempio, fossile, solare o atomica – fa parte del processo di astrazione sopra descritto, per quanto i fisici spieghino instancabilmente che l'energia è un'astrazione. Infine, prendiamo sul serio i risultati del lavoro di matematici, fisici, sociologi e storici dell'energia [*7], i quali non solo analizzano l'invenzione moderna dell'astrazione “energia”, ma valutano anche la sua congruenza con le esigenze specifiche del capitalismo! La quantità "concreta" di energia necessaria a eseguire un lavoro "concreto", è astratta quanto lo è il processo storico che ha portato al suo emergere sotto forma di una delle ultime categorie della scienza moderna. Il marxismo si ferma sulla soglia della definizione scientifica dell'energia, mentre rifiuta una simile ingenua relazione quando studia, ad esempio, la categoria "denaro". E questa è davvero una cosa inaudita. Dato che il denaro è un mezzo di pagamento neutro materializzato dalla moneta, tanto quanto l'energia è una quantità oggettiva materializzata in un certo numero di kilowatt! Marx almeno intuiva questo problema, sebbene non lo teorizzasse come tale. Pertanto, dobbiamo cominciare tornando alle categorie di Marx. Se Marx parla del lavoro come di un «metabolismo con la natura» [*8], e così come parla altrove del «metabolismo sociale», lo fa per situare l'astrazione-valore in quello che è il suo rapporto con la produzione concreta di merci. Ma questa produzione concreta, è solo l'altra faccia del movimento astratto della valorizzazione del valore. L'astrazione-valore non è il movimento etereo che il termine astrazione potrebbe suggerire. "Astratto" non significa: «slegato dal concreto». Il carattere dell'astrazione - che è una caratteristica sociale - è la riduzione dei processi sociali alla loro grandezza fisica. Concreto e astratto, fisico e categoriale, non sono due sfaccettature che possono essere contrapposte l'una all'altra. Non esiste un buon lavoro concreto, che possa essere contrapposto al lavoro astratto, più di quanto non esista una buona energia concreta (per esempio, l'energia innocente del vento!) che possa essere messa in contrapposizione al suo concetto astratto di energia. La quantità di energia necessaria a effettuare un lavoro fisico, non è perciò una quantità concreta indipendente dalla sua astrazione, contrariamente a quanto ci suggerisce invece la frase di Thomas Meyer citata in apertura, e che ha tutta l'aria del luogo comune secondo il quale la fotosintesi non sarebbe un lavoro astratto. Così facendo, Meyer occulta quell'operazione capitalistica, la quale è tuttavia l'oggetto della sua critica. Egli, in tal modo, istituisce il lavoro astratto, rendendolo intercambiabile con tutto il lavoro fisico: dai fenomeni della natura alle prestazioni della macchina, e passando per il lavoro umano. Questa intercambiabilità costituisce il risultato di una riduzione di tutto il "lavoro" alla quantità astratta di energia necessaria per svolgerlo, e questo indipendentemente dalla sua determinazione sociale. È proprio in questo modo, che la creazione di valore attraverso il solo dispendio di energia umana viene occultata dalla teoria economica. Meyer agisce come se si potesse affermare una sorta di verità scientifica oggettiva sulla "energia", indipendentemente dal suo emergere capitalistico; come alcuni fanno a partire dalla presunta realtà eterna del "lavoro". Il «metabolismo con la natura» è un metabolismo sociale che costituisce teoricamente e scientificamente una natura adeguata alla sua efficacia. Non è che si trova la natura già bell'e pronta, ci si inventa il suo incontro con essa in una duplice operazione, in cui prima ci si estrae da essa per poi considerarsi come si fosse una parte ontologicamente identica a ciò da cui si viene estratti. Nel capitalismo, la scienza non è una falsa proiezione della natura che potrebbe essere rettificata grazie a una teoria più corretta, contraria al mito della sua perfettibilità indefinita. La scienza, praticamente inventa la natura, in modo che diventi impossibile modificare questa relazione pratica con essa, mediante il solo esercizio della critica intellettuale. Quest'ultima è condannata alla sua immanenza. Il pensiero, per quanto acuto possa essere, diventa esso stesso un'appendice del regno degli oggetti frammentati della conoscenza, ereditando un'operazione di separazione dimenticata. Le sue raziocinazioni filosofiche e politiche, possono riempire gli scaffali delle biblioteche pur senza toccare nulla di ciò che avviene in pratica nell'organizzazione globale della produzione, nella ruota di cui è un ingranaggio, inconsapevole di sé stesso. In questo contesto, la categoria dell'energia è la più alta astrazione, risultante dal tentativo di unificare i fenomeni frammentati della natura ai fini delle esigenze dello sfrenato sviluppo industriale del capitalismo (conseguente, come si è detto, all'operazione universale dell'astrazione scientifica di tutti i fenomeni coinvolti nella produzione capitalistica). La separazione degli oggetti nel mondo in unità discrete, ci costringe a studiare le loro interazioni misurando gli scambi di materia ed energia che hanno con il loro ambiente. Si tratta quindi di costituire questi oggetti in tanti sistemi e sottosistemi che possono poi essere suddivisi e messi in relazione indefinitamente come tante scatole nere. Lo studio sistematico delle loro interazioni, la necessità di ricostruire l'unità perduta della natura, fecero della termodinamica la scienza ormai essenziale dei fenomeni naturali, mettendola al posto della vecchia metafisica. La messa in funzione di tutto ciò che esiste, ci impone di calcolare il suo costo energetico, postulando pertanto una legge di conservazione dell'energia, che sarebbe come la riserva naturale di un ipotetico movimento perpetuo del capitale! È questo è il motivo per cui la nozione di energia informa tutte le branche della scienza moderna, e arriva fino contaminare ideologicamente dei campi in cui essa non ha alcuna rilevanza. L'Energitismo (con William Rankine, Wilhelm Ostwald e Pierre Duhem in particolare) e l'atomismo (con Ludwig Boltzmann e Willard Gibbs in particolare), aprirono un dibattito che coprì la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento; un dibattito che si risolverà a favore dell'atomismo e della meccanica statistica. Tuttavia, la meccanica statistica portò solo il progetto energetico a un livello superiore, cosa che avrebbe richiesto poi una deviazione, attraverso una successiva teoria dell'informazione e dell'entropia dell'informazione (Claude Shannon). Nell'uno o nell'altro dei campi contrapposti, in quel momento, l'energia è alla base di tutti i fenomeni fisici, sia intesa come la natura ultima del reale, sia intesa come la nostra apprensione matematica e la misura del nostro grado di ignoranza di una realtà inconoscibile in sé stessa. L'importante è notare che essa costituisce in tutti i casi una forma di metafisica, alla quale si attribuisce la capacità di unificare tutto l'intero campo frammentato della scienza: sia con una teoria unificata della realtà, sia con una teoria unificata della misurazione dell'informazione che abbiamo di questa realtà. Si tratta fondamentalmente del risultato dell'atomizzazione di oggetti scientifici, e della traduzione di fenomeni atomizzati in procedure meccanizzabili e formalizzabili. Questa preoccupazione, che sembra essere una ricerca puramente fondamentale, e che tocca questioni filosofiche ultime, si trova pertanto a essere sotto l'influenza di un nuovo vincolo sociale, la sistematizzazione di tutte le attività produttive sotto il capitalismo. Il lavoro fisico era divenuto misurabile nel diciannovesimo secolo, con la nozione di energia. Tutti i processi della natura e della società diventano così un lavoro fisico che può essere razionalizzato nella produzione. Il lavoro umano e il lavoro delle macchine sono resi commensurabili dal concetto di energia. La natura bifida del lavoro astratto consiste in una doppia astrazione, quella di un dispendio di lavoro fisico rappresentato nel suo costo energetico; e quella di una creazione di valore che si suppone sia rappresentata nei prezzi e nei salari. Il carattere dell'astrazione non riguarda solo la logica del valore, ma ovviamente anche il lavoro fisico coinvolto nella produzione di valore. Il lavoro fisico è astratto, in quanto è assegnato al suo costo energetico. Crea valore nella misura in cui tutta l'attività sociale viene ridotta alla realtà del suo processo fisico. Quanto più il lavoro è considerato come un dispendio fisico "concreto", tanto più esso occulta la logica del valore su cui si fonda. Non c'è nulla di più astratto che ridurre un processo di produzione – che è una relazione sociale – a un dispendio di energia. Questo riduzionismo energetico, è quello del capitale stesso. Non è quello di Marx (tranne nei suoi momenti di debolezza)! Il dispendio del cervello, dei muscoli, dei nervi, delle mani, è il modo in cui il capitale si avvicina alle funzioni atomizzate del corpo umano; così come si avvicina a tutti gli altri oggetti della natura divisi in fenomeni isolati. Affinché il gesto manuale diventi quello di una macchina che lo sostituisce, affinché l'operazione intellettuale diventi quella di un computer che la sostituisce, bisogna che tutti i fenomeni debbano essere stati ridotti al comune denominatore del loro dispendio di energia. È questo ciò che permette di eludere sistematicamente la logica del valore, e continuare a far credere che sia indifferente – persino emancipatorio – il fatto che il lavoro venga svolto da una macchina, piuttosto che da un essere umano. Ciò non è cosa da poco, dal momento che la creazione di valore globale si esaurisce gradualmente, precipitando l'intera società capitalistica in una crisi irreversibile di valorizzazione. Pertanto, dal punto di vista del capitalismo, il lavoro astratto è identico al lavoro fisico. Contrariamente a quanto affermato nella frase evidenziata, il lavoro astratto e il lavoro fisico costituiscono le due facce – astratte e concrete – di un unico processo di astrazione capitalistica. Da questo punto di vista, sono identici.
È questo il motivo per cui il capitalismo inventa il lavoro nello stesso identico momento in cui inventa l'energia. Al di fuori del capitalismo, le due categorie non hanno alcun senso: criticare il lavoro e voler mantenere il concetto di energia, equivale a criticare il capitalismo e voler mantenere il denaro e le merci. "Lavoro astratto", è il nome dato dalla critica dell'economia politica a tutto ciò che il sistema capitalistico può intendere solo come una quantità intercambiabile e razionalizzabile di lavoro fisico, nella completa ignoranza del rapporto sociale che organizza la logica del valore. Robert Kurz non ha mai smesso di portare avanti questa intuizione, sottolineando il fatto che l'astrazione risiede proprio nella riduzione del lavoro concreto a un astratto dispendio di energia umana (cervello, muscoli, nervi, mani) [*9]. Questo lo ha persino portato a essere erroneamente criticato per la sua concezione energetica del lavoro. Marx stesso, è stato talvolta letto in questo modo. Ma Kurz risponde bruscamente a Lohoff, Meretz e Heinrich su questo punto [*10]. Il principale fraintendimento riguardo la questione energetica risiede nel non comprendere che l'astrazione ha luogo nel riduzionismo fisicista del capitalismo stesso. In tutti i suoi scritti, Kurz su questo è inequivocabile. Citerò solo un passaggio, tra le decine di passaggi di questo tipo, in cui Kurz si oppone a Michael Heinrich: «Heinrich nega la determinazione marxiana della sostanza intesa come energia umana astratta reale, come una "astrazione fisiologica" specificamente capitalistica, volendo vedere in essa una "interpretazione naturalistica", vale a dire un "fondamento che non sia affatto sociale, persino quasi naturale". Heinrich vuole contrapporre all'astrazione fisiologica reale il sociale , come se il momento naturale dell'uomo non fosse astratto precisamente in modo capitalistico, come se non fosse lì che risiede la qualità negativa realmente reificante del feticcio del capitale, il quale è esso stesso socialmente costituito. Heinrich, tuttavia, rimane incapace di indicare quale sia il contenuto della sostanza del valore [*11]». Ripetiamo: astrazione non è sinonimo di qualcosa di ideale o di non concreto, ma traduce il risultato dell'operazione reale di astrarre un fenomeno dalla totalità delle sue determinazioni storiche per ridurlo alle sue prestazioni meccaniche. Questo, è ciò che il capitalismo fa con l'attività umana. Comprendere il lavoro come semplice dispendio fisiologico, è reso necessario dalla ricerca permanente di una combinazione più efficiente e competitiva dei fattori produttivi. Riduce il lavoro umano e meccanico al loro comune denominatore energetico. Meyer invece, commette esattamente l'errore opposto a quello che Kurz rimprovera a Heinrich. Heinrich non vede che il riduzionismo energetico non è quello di Marx, ma quello del capitale. Meyer, da parte sua, naturalizza la categoria dell'energia, ponendosi così sullo stesso piano del capitalismo. Egli equipara il dispendio energetico a un concetto scientifico secondario, che secondo lui potrebbe essere staccato dall'emergere storico del lavoro astratto, e reso valido di per sé stesso, quando invece il concetto di energia rappresenta la condizione stessa dell'emergere del lavoro astratto. Senza la nozione di energia, non esiste alcuna "contraddizione in processo". In assenza di tale nozione, a nessun'altra società è mai venuto in mente di concepire come identici, dal punto di vista del loro dispendio energetico, l'esecuzione di una carrucola e lo sforzo di un essere vivente per sollevare un peso. Tutta la produzione industriale si basa su una tale identità astratta. Per il capitalismo, il lavoro non è altro che un'attività meccanica che può essere sostituita e razionalizzata all'infinito, sia in termini energetici che economici. Non c'è alcuna società, ci sono solo delle quantità astratte di energia, la quale viene spesa al fine di mantenere o di aumentare il tasso di produttività sul mercato competitivo. La produzione industriale funzionalizza, automatizza e ottimizza tutte le fasi della produzione, sia quelle meccaniche (la catena di montaggio) che quelle intellettuali (l'algoritmo). Tale riduzionismo meccanicistico, trasforma la totalità del mondo umano e non umano in un mero serbatoio di materia e di energia,in un sistema disincantato di forze produttive universali e combinate, privo di qualsiasi mediazione simbolica. Ma il sistema capitalistico non sa quello che fa: per esso non esiste il lavoro astratto e pertanto non c'è alcun valore-lavoro. Non conosce altro se non il lavoro meccanico atomizzato e ridotto alle sue funzioni ottimizzate e razionalizzate. Il capitalismo non chiama questo tipo di lavoro, "astratto", ma lo chiama concreto e naturale. E' essenziale dover insistere su questo, in modo da evitare così qualsiasi inutile disputa sulle parole. Secondo questa nuova visione, a "funzionare" è l'intero universo, vale a dire, che esso si trasforma spendendo una certa quantità di energia, la quale, miracolosamente, rimane globalmente costante. Chiamare astratto questo riduzionismo fisicalista, costituisce già un risultato di quello che è un approccio critico, il quale sottolinea la falsa evidenza della categoria di energia. Non si tratta più della categoria naturale celebrata dai liberali, dai neoliberisti e dagli ingegneri, ma è la condizione materiale necessaria alla sostituibilità del lavoro fisico nel capitalismo (che mira costantemente alla combinazione ottimale dei fattori di produzione). In virtù di questa astrazione, l'energia umana e l'energia meccanica subiscono un riduzionismo che le rende commensurabili e sostituibili l'una all'altra. L'energia è il più alto livello di astrazione scientifica che il sistema capitalista si concede al fine di poter universalizzare il lavoro. Il che gli permette di rendere commensurabili tra loro tutte le attività produttive, in base alla loro riduzione meccanica e a un quanto energetico che costituisce la faccia materiale della logica del valore. È la controparte materiale dell'astrazione, che ora la critica dell'economia politica scopre insieme alla teoria del valore. Proprio allo stesso modo in cui il termine "economia" assume un'estensione massima, in modo da poter così designare finalmente qualsiasi idea di gestione e di organizzazione, ecco che il termine energia viene presupposto, in ultima analisi, come rappresentante l'intera struttura della realtà. Pertanto, con tutto il rispetto per le divagazioni degli specialisti dell'energia, la categoria dell'energia non ci dice nulla sulla natura in sé. Qualsiasi tentazione di naturalizzare questa categoria e gli oggetti della natura che la scienza moderna accarezza, equivale a un'approvazione acritica del processo di astrazione che costituisce la produzione industriale moderna. Importare tale categoria in un mondo pre o post-capitalista, equivale a generalizzare gli occhiali capitalistici che mettiamo sul naso del mondo. In questo modo - per fare un esempio - la fotosintesi non è un lavoro astratto più di quanto non lo sia il "lavoro" fisico, tranne che per il capitale stesso. Assimilare la pianta a un convertitore di energia, è esattamente ciò che fa l'agricoltura industriale. Quando l'agricoltura industriale prende il sopravvento sul processo di crescita delle piante, produce semi, suolo, fertilizzanti, ingegneria genetica, ecc. vale a dire, "mezzi di produzione" come tutti gli altri, per mezzo dei quali deve razionalizzare e ottimizzare l'economia e l'energia che produce. Per questo motivo nel settore delle biotecnologie è comune parlare dell'impianto come di una piccola fabbrica biochimica, che poi può essere riprodotta anche nei cosiddetti processi industriali biomimetici. Il seme standardizzato svolge un lavoro morto allo stesso modo della gallina che depone le uova in batteria: un essere vivente trasformato in una macchina di produzione, come tutte le altre macchine di cui il capitalismo ricopre il mondo, a eccezione degli esseri umani. Sotto il capitalismo, la fotosintesi è lavoro morto, come tutti i fenomeni della natura requisiti dal capitale nella sua inestinguibile sete di nuove aree di espansione e risorse energetiche. E solo perché il lavoro morto non produce direttamente valore, ciò non significa che esso non sia parte integrante della logica del lavoro astratto!
Lo status categoriale della nozione di energia
Pertanto, i problemi energetici sono solo esclusivamente problemi capitalistici. Ma è già prevedibile che, se questi problemi saranno diventati nel frattempo insolubili, un mondo post-capitalista li erediterà. Questa eredità velenosa potrebbe costringere le società del futuro a continuare a pensare alla produzione in termini di energia, e questo nella folle speranza di mantenere, sulle rovine del mondo, gli spazi di produzione industriale. Ma questo avverrà sotto gli auspici di un inesorabile e fatale collo di bottiglia energetico. In tal caso si può dire che non solo il sistema attuale sta distruggendo il pianeta, ma ci sta anche derubando della possibilità di un nuovo rapporto con il mondo e di un'uscita dalle sue categorie. Una prospettiva emancipatrice, tuttavia, non può porre questa angosciante osservazione come se si trattasse di una necessità naturale. L'energia dei fisici e degli ingegneri non ha, immediatamente, lo stesso "status categoriale" del valore, dal momento che essa non costituisce di per sé una categoria critica, quanto piuttosto una categoria affermativa dei processi produttivi emersi all'interno del capitalismo. Questa categoria affermativa, viene ripresa come tale anche da Meyer. Tuttavia, nella prospettiva di un'analisi delle categorie operative del modo di produzione capitalistico, spetta solo alla teoria criticarlo, in particolare allo stesso modo in cui si critica lo Stato, la forma-soggetto, la metafisica della storia o la dissociazione sessuale. Questa critica è stata avviata dai molti autori che hanno evidenziato la dimensione entropica dell'economia (Nicholas Georgescu-Roegen, Herman Daly, Robert Ayres), ma è stata lasciata incompiuta a causa della loro naturalizzazione delle categorie di energia e di entropia, così come dalla loro naturalizzazione dell'economia. Spetta ora a noi, collocare l'energia nella sua genesi storica, in quanto «astrazione ideale che scaturisce da un'astrazione reale» [*12]. L'entropia designa - nel corso di un processo di trasformazione materiale - la produzione di energia "inutilizzabile" proveniente da energia "utilizzabile". Va da sé che questa energia è "inutilizzabile" solo nella prospettiva di una società del lavoro che tende a sfruttare al massimo tutte le energie disponibili. Una simile società è pertanto condannata a muoversi in direzione della massima entropia. D'altra parte, non ha senso parlare di energia "inutilizzabile" dal punto di vista dei continui processi di trasformazione che avvengono in natura. La natura ricicla i propri "rifiuti" (i quali, in realtà, è del tutto inappropriato chiamarli così) nel corso di quei processi universali che hanno impiegato miliardi di anni per differenziarsi. La produzione industriale non ricicla nulla, o quasi, non per mancanza di volontà, come ci piace dire, ma perché la cattura dell'energia materializzata nei convertitori di energia non può fare altro che portare a una spirale entropica. Catturare energia significa inevitabilmente prenderla da qualche altra parte ( dal momento che la sua quantità totale viene preservata). Significa anche, ad ogni turno di cattura, cioè durante ogni conversione di energia, aumentare il bilancio finale di entropia. A differenza di tutte le ideologie circolari, la produzione industriale non può essere resa "circolare" proprio perché si basa su convertitori di energia. Questi convertitori non hanno nulla a che fare con la natura [*13]. Sono legati al particolare telos della produzione capitalistico-industriale: catturare l'energia per produrre su scale sempre più grandi. L'entropia è quindi la nozione che spiega un limite incontrato dal capitale nella frammentazione funzionale e nella successiva ricombinazione degli elementi frammentati della produzione industriale, così come nella messa in funzione di tutto ciò che esiste. Solo il capitalismo industriale – basato sui convertitori di energia – implica per definizione un bisogno illimitato di energia, e una visione energetica del mondo. Spetta a una teoria critica dare conto di ciò, rifiutando di naturalizzare il concetto di energia, i processi energetici e, di conseguenza, la produzione industriale e lo sviluppo tecno-scientifico che da esso dipendono. La combustione del legno, che ha dominato quasi tutta la storia umana prima del capitalismo, non è qui un'obiezione: quei gruppi umani possono aver avuto bisogno di grandi quantità di legno, ma non hanno basato il loro rapporto sociale su una produzione espansa che richiedeva innumerevoli processi ad alta intensità energetica. L'attività muscolare - essa stessa subordinata a credenze e valori che la trascendevano - imponeva un limite assoluto all'espansione energetica, e ostacolava qualsiasi autonomia della categoria energetica. Quegli esseri umani avevano altri scopi sociali, oltre a ottenere energia! Dire che bruciando legna, consumando cibo o applicando la loro forza muscolare, stavano "consumando energia" non ha più senso che dire che stavano "lavorando". La critica del valore può incorporare nel suo corpus teorico la critica dell'energia, solo se vuole sviluppare un'analisi adeguata del degrado entropico del pianeta Terra, il quale potrebbe distruggere ogni prospettiva di emancipazione. Il pianeta spazzatura, il riscaldamento globale, la distruzione della biodiversità, sono fenomeni entropici generati dalla produzione capitalistica industriale, la quale si basa interamente sull'astrazione "energia" in quanto contropartita materiale dell'astrazione-valore. Tutta la produzione industriale richiede la nozione di energia come astrazione adeguata ai processi di commensurabilità di ogni lavoro fisico, compresi, come abbiamo detto, quelli del cervello umano e della sua replica artificiale. Va da sé, contrariamente a tutta un'ideologia post-operaista e neoliberale, che il settore terziario non è più "immateriale" di quanto lo siano i settori primari o secondari. Per quanto riguarda la distruzione quantificata dell'ambiente, essa suggerisce che si tratta di un impatto negativo che potrebbe essere controllato. Tuttavia, questa distruzione non è di natura tale da poter essere controllata in una società industriale, dal momento che essa è consustanziale alla società del lavoro e al suo corollario, la categoria astratta dell'energia. Una società industriale post-capitalista è quindi una contraddizione in termini. Le "leggi della natura", e la "natura umana" (di cui nessuna antropologia è in grado di dare una definizione definitiva) non hanno nulla a che fare con questi fenomeni. Ci si arrende alla moderna metafisica dell'energia - tanto più perché ci si ostina a descrivere l'energia come se fosse una quantità fisica concreta e senza tempo, o a descrivere il dispendio di energia come una realtà antropologica e trans-storica, proprio allo stesso modo in cui alcuni parlano di merci, di lavoro, di denaro o di economia per descrivere le società non capitaliste. Finché la produzione industriale continuerà, l'energia sarà considerata come una quantità positiva da razionalizzare e risparmiare, trascinando l'umanità in una strozzatura termodinamica attribuibile solo ai rapporti di produzione capitalistici-industriali e in nessun modo a una presunta natura umana. Anche se l'umanità odierna fosse irreversibilmente feticizzata da queste categorie e quindi condannata alla sua rovina, ciò non costituirebbe in alcun modo la prova della naturalezza di questo destino.
- Sandrine Aumercier, 8 gennaio 2025 - Pubblicato su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -
NOTE:
[1] Karl Marx, Il Capitale, Libro I.
[2] Kornelia Hafner, Gebrauchswertfetichismus, in Diether Behrens (a cura di), Gesellschaft und Erkenntnis. Zur materialistischen Erkenntnis- und Ökonomiekritik, Friburgo, ca ira, 1993.
[3] Vedi Theodor W. Adorno, "Soggetto e oggetto", in Modèles critiques, Parigi, Payot, 1984.
[4] Come mostra brillantemente Daniela Russ in "Produktivistische Ökologie: Der Energiebegriff der klassischen Moderne und seine Implikationen für eine kritische Soziologie", Berliner Journal für Soziologie, 2023.
[5] Jacques Lacan, Il seminario, Libro VI, Il desiderio e la sua interpretazione, Parigi, Éditions de la Martinière, 2014, p. 92.
[6] Pacal Engel, Richard Rorty, À quoi bon la vérité?, Paris, Grasset, 2005, p. 59.
[7] Alcune suggestioni tra le altre: Henri Poincaré, La science et l'hypothèse, Paris, Flammarion, 2014 [1902]; Richard Feynman, in The Feynman Lectures on Physics, vol. I: Mainly Mechanics, Radiation, and Heat (New York: Basic Books, 2011 [1964], p. 33; Cara New Daggett, La nascita dell'energia, Londra, Duke University Press, 2019; Werner Kutschmann, "Die Kategorie der Arbeit in Physik und Ökonomie", in Leviathan, Sonderheft 11, 1990, tradotto in francese sul sito Grundrisse; François Vatin, Le travail. Économie et physique 1780-1830, Parigi, PUF, 1993; Anaël Marrec, "Incroci di vedute con Alain Gras e Charles-François Mathis: approcci sistemici nella storia dell'energia", Cahiers François Viète, III/12, 2022.
[8] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., p. 199.
[9] Si vedano, ad esempio, le parole inequivocabili di Robert Kurz in "Der Unwert des Unwissens", Exit! 5; v. anche The Substance of Capital, Parigi, L'échappée, 2019 [2004-2005], in particolare il capitolo 3. Si veda in particolare p. 55: "Il lavoro astratto è quindi un certo stato dell'identità formale feticistica moderna, ma si riferisce a una quantità energetica di forza-lavoro effettivamente spesa, in altre parole a un contenuto materiale e quantificabile [...]".
[10] Si veda, ad esempio, la confutazione di Michael Heinrich contro questa lettura naturalistica di Marx in "Der Unwert des Unwissens", op. cit. Si veda anche il rimprovero di naturalismo energetico rivolto a Kurz da Norbert Trenkle, "Socialità non sociale. La contraddizione tra l'individuo e la società come questione centrale di una teoria sociale critica", Jaggernaut 3, Crisis & Critique, autunno 2020, e la mia critica in The Energy Wall of Capital, Albi, Crisis & Critique, 2022.
[11] Robert Kurz, Geld ohne Wert, Berlino, Horlemann, 2012, p. 192-193.
[12] Alfred Sohn-Rethel, La pensée-marchandise, éditions du Croquant, Broissieux, 2010, p. 119.
[13] Anaël Marrec, "Incroci di vedute con Alain Gras e Charles-François Mathis: approcci sistemici nella storia dell'energia", op. cit. Parlando degli ingegneri che hanno una "visione piuttosto dogmatica dell'energia che proiettano nel passato", Alain Gras aggiunge giustamente: "Il sistema energetico come lo conosciamo oggi ha una particolarità, ovvero che si basa su convertitori. E questo è ciò che determina la nozione di sistema nel nostro paese. Le interazioni e le interconnessioni tra le diverse tecnologie sono legate alla capacità di mobilitare energia. Quindi tutti i sistemi nel nostro paese sono sistemi energetici.»
Nessun commento:
Posta un commento