Nel secondo volume di "Mito e tragedia nell'antica Grecia" (p. 222-223), Vernant e Vidal-Naquet parlano dell'Edipo Re di Sofocle, rappresentato ad Atene intorno al 420 a.C. «Di quale testo si tratta?», si chiedono. «Nessuno trascrisse la rappresentazione di Atene»: la storia della tradizione ebbe inizio non appena i copisti cominciarono a copiare i manoscritti. Quindi, il testo non è di Sofocle, ma di un copista, di un editore bizantino, Manuel Moscopoulos (commentatore e grammatico, vissuto tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo). Il celebre manoscritto Laurenziano (la copia minuscola di un testo scritto in onciale, come precisano gli autori) ci consente al massimo di risalire al codice del V secolo d.C., di cui esso è una copia. Oltre tutto, è necessario postulare che si trattasse di un volume risalente all'alta epoca imperiale, e che non è il testo di Sofocle, bensì, piuttosto, l'interpretazione che ne fece un filologo dell'epoca di Adriano (Publio Elio Adriano, imperatore romano dal 117 al 138). Il testo di Sofocle, per diventare classico o erudito, non ha bisogno di attendere il periodo romano: già con Licurgo, i tre grandi tragediografi erano stati classificati tali (Eschilo, Euripide, Sofocle, come ci ricorda Aristofane nelle "Rane", del 406). Licurgo si trova a quasi un secolo di distanza rispetto alla maggior parte delle opere del periodo tragico; e fu lui a stabilire la legge delle "versioni ufficiali", vale a dire, la legge che stabiliva che i testi delle opere dei tre grandi tragici avrebbero dovuto essere conservati negli Archivi della città, evitando in tal modo delle modifiche spurie.
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