Un Nomos degli apolidi
- di Noah Brehmer -
La resistenza palestinese usurperà per sempre l'immagine offerta dai colonizzatori come di un popolo palestinese esiliato, mutilato, brutalizzato e non morto. Ogni volta che il muro di una prigione viene sfondato, sulla scena politica viene improvvisamente registrata una nuova forma di vita: «cogliere l'attimo e da lì spaziare senza limiti». Per quanto temporanei siano questi fotogrammi, e per quanto spettacolare sia la portata della catastrofe che si abbatte sui territori per cancellarli, rimarranno sempre valide tutte le potenzialità a partire da una relazione con la terra che vada al di là di quelle che ci vengono offerte dalle leggi, dai territori e dagli Stati-nazione dell'ordine politico moderno. La giustizia palestinese, «è troppo seria per essere lasciata agli Stati», come decenni fa ebbe a osservare Mustapha Khyati [*1]. Ecco che così una volta ancora la questione palestinese ci chiede di valutare se i limiti del diritto e della governance territoriale possano davvero essere degli strumenti di liberazione. In quanto siamo stati già informati, per oltre un secolo, che esistono delle alternative – ossia, il fondamento giuridico liberale della cittadinanza e dei diritti umani – ecco che vediamo come queste forme proposte non superino mai completamente le zone di esclusione. Esclusioni - come ha notato una volta C.L.R. James - che sono irrevocabilmente fondate su una "dottrina razziale": la convinzione che «la razza nazionale, il ceppo nazionale, il sangue nazionale è superiore a tutte le altre razze nazionali, ceppi nazionali e sangue nazionale» [*2]. Come osservò in modo acre e ironico persino il nazista Karl Schmidt: «In principio c'era il recinto». L'arrivo della pace, come episodio costitutivo della statualità, poggia su recinti spaziali ed è per questo che «non è stata l'abolizione della guerra, quanto piuttosto il suo contenimento, a costituire il grande problema centrale di ogni ordinamento giuridico» [*3] . In sostanza, la legalità è esclusiva: essa persiste solo nella misura in cui uno Stato può mantenere la sua posizione di “supremo proprietario della terra”. Lo Stato, che si pone come misura di giustizia per l'interesse generale, si basa quindi sempre su una legge dell'apparenza, che nasconde i suoi fondamenti nell'ambito di uno nomos: quel dominio territoriale nel quale «si incontrano lo spazio e il diritto, l'ordine e l'orientamento» [*4]. Se da un lato non possiamo ignorare la questione di quale strada debba prendere la giustizia palestinese - e lo Stato-nazione è certamente presente in questi dibattiti - dall'altro possiamo di certo trovare nei modi di vita del popolo palestinese un movimento contro il nomos della forma-Stato: originare, includere, possedere. Come ha recentemente notato Abdaljawad Omar, l'insorgenza palestinese viene organizzata attraverso la «decisione non sovrana, la resistenza emerge come uno sforzo per deformare la condizione coloniale, un compito che è anche '”senza forma“ e che cerca di abbattere la condizione coloniale nel mondo, avviando un processo di decomposizione» [*5]. Attraverso un dialogo con la nozione di negritudine della tradizione radicale nera, si può comprendere, in generale, come la modernità abbia reso degli squatter permanenti tutti coloro che si trovano al di fuori del recinto etno-suprematista [*6]. È a partire da questa posizione di squatter che possiamo capire in che modo la rivendicazione palestinese della propria esistenza possa essere considerata come un atto sedizioso di tradimento contro lo Stato di diritto. E come osserverà William C. Anderson, se: «L'Apolidia è assai più che una mancanza di cittadinanza: ti rende un essere inesistente, un'ombra. E allora perché non abbracciare quell'oscurità in cui ci troviamo, l'oscurità che siamo, e organizzarci attraverso di essa e con essa? Usare le condizioni che lo Stato ci ha imposto per orientare le nostre azioni più radicali, anziché chiedere allo Stato di cambiare, dato che ormai dovremmo sapere che non lo farà di certo. Lo Stato non fa per noi. Questo genere di lavoro, l'arrangiarsi e il costruire partendo esclusivamente da dove siamo, è sempre stata un'abilità dei neri, ma il mondo che ci circonda ci chiede di farlo con intenzioni ancora più rivoluzionarie» [*7]. Ancora una volta, il movimento palestinese ha aperto radicalmente alla possibilità di pensare a questa apolidia come se essa fosse qualcosa di più che una politica di desiderio, o una mancanza negativa. La trascendentale mancanza di casa degli apolidi - i quali sono sì rifiutati, ma rifiutano anche di rivendicare la statualità come base dell'essere - appartiene al nomos degli apolidi.
Naturalmente, la questione palestinese è questione ebraica, e in più di un senso. Qui, sosterrò che la giustizia palestinese può essere messa in un dialogo generativo con la traiettoria storica della giustizia ebraica. Concettualizzata rispetto al telos dello Stato-nazione, la si può ora ritrovare nell'eredità dell'insurrezione palestinese vista come un momento decisivo della liberazione dell'ebraismo rispetto alla rappresentazione dell'onnipotente concezione israeliana dell'“ebreo”: un soggetto pre-discorsivo, a-storico, ontologicamente radicato nei popoli esiliati del regno di Giudea; e resuscitato grazie all'assistenza degli Stati-nazione della modernità e delle loro tecniche avanzate di governance, securizzazione e desiderio totalizzante di controllare e ripulire il territorio dall'altro non europeo. La distruzione delle mura della cosiddetta ontologia ebraica contemporanea, da parte della tradizione rivoluzionaria palestinese, ha incoraggiato nuove possibilità di appartenenza, quale la "Yidishkeyt": il mondo dell'essere ebreo esiliato [*8]. Nel suo nucleo, al pari di altre forme di vita esiliate, anche la Yidishkeyt, se è un'ontologia, è esistenzialmente precaria: un dominio contestato di significato che - rispetto ai dogmatismi morali impliciti in un ritorno all'essere autentico - antepone l'etica dell'esistenza. Come ha ben detto Edward Said, nell'appartenenza diasporica si abita e si dà inizio, mentre nell'appartenenza ontopolitica si dà origine e ci si rinchiude [*9]. Basandosi sulla distinzione di Said, Adam Hajyahia ha giustamente notato che il movimento palestinese del ritorno, in contrasto con il discorso sionista, «evita la purezza» e «rifiuta la totalità». Non si tratta, come afferma Hajyahia, di: «un desiderio negativo di qualcosa che manca [...] ma di un principio redentore che persegue l'abolizione delle condizioni che rendono l'esilio la sola possibilità rimasta.» [*10]. Come si porrebbe, il nomos palestinese, in dialogo con una durée trans-storica dell'apolidia? Che cosa comporterebbe promuovere una politica dell'esilio: una politica organizzata intorno alla nostra co-appartenenza agli Stati e al capitale? Cosa avrebbero da condividere, i movimenti storici e contemporanei dei popoli esiliati, con il nomos palestinese di oggi? Per rispondere a tutte queste domande, ci sono molti percorsi cui rivolgersi. Per me, in quanto persona ebrea - da tempo estranea all'appartenenza ebraica a causa del paradigma sionista - il mio percorso, come quello di molti miei compagni, è consistito nella ricerca delle tradizioni antisioniste ed esilianti del mio popolo, attraverso organizzazioni come il Jewish Labor Bund: un importante movimento antisionista fondato a Vilnius, dove vivo. Gran parte di questa ricerca si è svolta in un archivio di Vilnius chiamato Judaica Research Centre, dove ho potuto accedere a documenti storici dei primi due decenni del movimento bundista. È in questo periodo che si è verificata la più intensa collaborazione con altri movimenti comunisti socialisti e anti-autoritari della regione. Quali sono allora questi contributi e qual è la loro importanza per i nostri movimenti di oggi?
Il Bund, contribuì alla questione irrisolta dell'autonomia dei movimenti anticapitalisti, sollevando criticamente questa questione attraverso il principio dell'autodeterminazione nazionale. Il Bund ha trovato nell'ebraismo non solo un'identità che si riproduce nella repressione, ma anche un'esperienza vissuta, e una conoscenza sociale della rivolta e della sopravvivenza. Poiché il Bund ha co-fondato il Russian Social Democratic Labor Party , la questione dell'autonomia delle minoranze in un movimento che cospirava per abolire lo Stato e tutte le disuguaglianze di genere, razziali, religiose e nazionali, solo un anno dopo la sua fondazione, è diventata un dibattito strategico essenziale. Citando il Manifesto del Partito Comunista in un congresso bundista del 1902, Martov, cofondatore sia del Bund che del RSDLP, affermò che «dovevano essere accolti come base per l'appartenenza al movimento comunista, solo gli interessi comuni del proletariato, indipendentemente da ogni "nazionalità"». Vedendo il comunismo come la liberazione dell'umanità dal nomos dello stato-nazione, Martov vedeva la liberazione come se fosse la dissoluzione dell'ebraicità nel nomos di una terra post-capitalista, dove l'essere sociale è libero dal giogo dell'identità etnica e geografica imposta territorialmente. Nonostante la sua eventuale rottura con il RSDLP, e da lì con i bolscevichi, su questa questione dell'autonomia all'interno del movimento comunista confederato il Bund introdusse criticamente il concetto di ciò che qui chiamerò autonomia confederata – sì, sto alludendo alla tradizione curda – vista come strategia per affrontare la questione dell'inclusione delle tradizioni radicali, e delle pratiche di sopravvivenza collettiva delle minoranze della classe operaia, nel movimento comunista apolide. Ad esempio, come è stato magnificamente illustrato nelle note del Congresso del 1911, il Bund sottolineava che la sua richiesta di riposo il sabato veniva fatta «non per ragioni religiose o nazionali, ma per ragioni puramente economiche [sociali]». Una giornata al riparo dal lavoro, è un bene sia per la classe operaia ebraica che per la classe operaia in generale. In quanto organizzazione anticlericale, il Bund ha preso dall'ebraicità solo ciò che ha contribuito all'emancipazione universale, lasciando stare tutti quegli aspetti che considerava essere solo un mero risultato dell'interiorizzazione collettiva traumatica della repressione, come ad esempio l'identità. La politica di autonomia confederata del Bund, venne ulteriormente enfatizzata nel suo anti-territorialismo. Il Bund era ferocemente critico, tanto nei confronti dei partiti socialisti regionali che centralizzavano lo Stato come apparato organizzativo della classe, sia del movimento socialista sionista, il quale sosteneva che il percorso dell'emancipazione di classe ebraica, sarebbe stato raggiunto solo in quanto maggioranza etnica di uno Stato-nazione. Questa opinione si è formata in stretto dialogo - come ho letto dai documenti storici - con i primi protagonisti del nazionalsocialismo. L'autonomia bundista articolava una relazione con l'“abitare” che non conferiva il possesso, l'origine o l'inglobamento. La politica abitativa del Bund sarebbe stata concettualizzata attraverso il principio di “hereness”. Nel "Doikeyt" si enfatizzava radicalmente l'importanza dell'appartenenza al luogo in cui ci si trova; un'apertura di sé stessi alle storie di quel luogo; una solidarietà con quanti condividono un legame, una condizione, nelle lotte di esistenza nel qui e ora. In questo senso, il qui dell'hereness taglia il tempo storico lineare dell'impero e afferma l'adesso come un dominio di rottura, di emergenza e di antagonismo. Il cambiamento non può aspettare: cominciamo dove siamo, con chi siamo. Tuttavia, come mi ha scritto di recente un compagno palestinese, mentre gli ebrei si dissociano dall'entità genocida e recuperano le loro radici esiliate, diviene fondamentale farlo alla luce dello sforzo di porre fine al genocidio dei palestinesi e di altri popoli esiliati. Così, proprio come il nostro movimento di solidarietà sarà favorito dal rendere intercambiabili le nostre rispettive strategie e tradizioni di apolidia, dobbiamo a nostra volta rendere intercambiabili anche le nostre storie di oppressione. Come prosegue il compagno, «riconoscere i palestinesi come vittime e sopravvissuti dell'Olocausto e il popolo ebraico, soprattutto quello ucciso dai nazisti, quello che non si è mai identificato e ha resistito attivamente al sionismo, come una delle moltitudini di vittime in corso della Nakba». Cominciamo ad assumerci ora questi compiti, notando la profonda risonanza trans-storica tra il doikeyt e il concetto palestinese di sumud. Sumud, come il doikeyt, suggerisce una pratica ribelle relativa all'abitare, contro le architetture di cancellazione messe in atto dagli oppressori. Come formula Shivangi Mariam, il sumud è una «spazialità dell'attesa, laddove la geografia che è stata resa inaccessibile ai palestinesi viene immaginata di nuovo, e rivissuta nel tempo, dove vengono costruite le infrastrutture generative della vita quotidiana. Qui ogni assenza si carica di presenza spettrale, come un tempo più lungo di questo tempo, un tempo fantasma che supera e fa esplodere le frontiere degli orologi dei colonizzatori» [11]. Come una politica che offra una forma di appartenenza senza uno Stato ma in un “luogo”, la doikeyt può essere considerata una strategia contemporanea per rafforzare la nostra solidarietà e i nostri legami di co-appartenenza con il sumud della resistenza palestinese e con altri popoli apolidi odierni.
Il 29 ottobre 1957, un movimento di senzatetto, forte di 35.000 persone, preparò la prima espropriazione di massa di terra nella periferia di Santiago del Cile. Chiamando il loro territorio autonomo La Viktoria, gli abitanti fecero della loro abitazione criminalizzata della terra un punto di riferimento per una fondazione fondamentalmente diversa della politica: sui diritti sociali e sulla proprietà. Come osserva splendidamente Marcello Tari, «ad abitare un territorio [deappropriato] non sono mai gli individui, ma i soggetti potenziali; a poter abitare un luogo non è una popolazione, ma delle forme di vita; a portare avanti la lotta non è un soggetto, ma una forza anonima». In breve, il nomos degli apolidi non è tanto una forma, quanto piuttosto un sistema di atti di smantellamento. Più che di un atto di riappropriazione o di counter-enclosure, si tratta di un commoning, di un de-enclosing; cosa che è allo stesso tempo il divenire di un nuovo orientamento alla terra come nostra in comune. Facendo appello alla memoria della Comune di Parigi, non si tratta tanto di decretare o di proclamare l'abolizione dello Stato e del capitale, quanto piuttosto di abbandonarsi al movimento reale della loro negazione [*12]. La tradizione esiliata intercomunitaria, della quale fanno parte gli antisionisti ebrei e la resistenza palestinese, ci insegna che la politica inizia nel momento in cui viene attaccata la separazione che si impone tra lo Stato e la società civile: nel momento in cui il “politico” viene reclamato da quel territorio che un tempo governava. Quando i fondamenti della politica si emancipano dalla problematica del dominio territoriale e tornano alla domanda di fondo: «Quando avrà inizio, e quando finirà il nostro giorno?». "Se distruggendo tutte le mappe conosciute / si cancellassero tutti i confini / dalla faccia di questa terra / direi di / fare un falò / per reclamare e cantare / la persona umana" - KEORAPETSE KGOSITSILE -
Questo saggio è dedicato alla memoria di Marina Vishmidt. Marina mi è sempre stata vicina come lettrice critica, mentore e co-cospiratrice nella mia pratica di scrittura e organizzazione politica. Sebbene questo saggio sia stato scritto dopo la sua scomparsa, le sue premesse sono state sviluppate grazie alla sua gentile guida di compagna ebrea e comunista anti-Stato. Va anche detto che il saggio è nato da una conferenza che ho tenuto alla Fiera anarchica del libro di Riga nel maggio 2024: sono grato agli organizzatori per avermi offerto uno spazio per iniziare a elaborare questi pensieri. Infine, i “pensieri” stessi - va notato - fanno parte di una costellazione più ampia di ricerche portate avanti da compagni palestinesi, ebrei e altri che hanno raccolto la vocazione dell'esilio. Nei loro modi diversi, si chiamano da Dabartis, Obecno, Tämänhetkisyys, Doikat o Sumud: un diffusore di forme autonome. https://dabartis.com/
Noah Brehmer - postato su Blind Field, il 31/12/2024
NOTE:
[1] Mustapha Khyati, "Due guerre locali", Internazionale Situazionista, 1967.
[2] C.L.R. James, Marinai, rinnegati e naufraghi, 1953. 10-11.
[3] Carl Schmidt, Nomos della Terra (1950), Telos Press, 2006. 74.
[4] Piuttosto che liquidare la filosofia di Schmidt come un'aberrazione nazista di un progetto politico modernista europeo altrimenti rispettabile, dovremmo guardare a Schmidt come a una vera e propria luce sull'essenza della modernità europea e della sua crisi.
[5] Abdaljawad Omar, "Forme sanguinanti: oltre l'Intifada", Critical Times (2024) 7 (2): 304–317.
[6] Come formulato da Saidiya Hartman in Looting, a cura di Andreas Petrossiants e Jose Rosales, Diversity of Aesthetics, 2023.
[7] Wiliam C. Anderson, La nazione su nessuna mappa: anarchismo nero e abolizione, AK Press, 2021, 91.
[8] Eppure, come ha ben osservato Abdaljawad Omar durante il suo discorso alla BICAR di quest'anno, una tale rottura dell'onnipotenza ebraica, come un ritorno della fragilità ebraica, è essa stessa operazionalizzata dallo stato israeliano come un meccanismo chiave per giustificare la violenza sovrana contro i perpetratori. La rottura dell'ontologia ebraica deve quindi essere qualcosa di più di una pratica di diventare fragili, di diventare vittime, ma di diventare esili, un diventare apolidi.
[9] Edward Said, Inizi: intenzione e metodo. Regno Unito, Granta Books, 2012.
[10] Adam Hajyahia, "Il principio del ritorno della Palestina: le rotture represse del tempo sionista", Palestine Issue, Parapraxis Magazine, 2024.
[11] Shivangi Mariam Raj, "Dietro le quinte", in Undocumented International, numero. 51, Il funambolo.
[12] Kristin Ross, Lusso comune: l'immaginario politico della Comune di Parigi, Verso, 2015, 79.
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