"The Benjamin Files", di Fredric Jameson
- di Bruna Della Torre -
«Forse, se vogliamo imparare a leggere correttamente Benjamin, e a trarre nuova energia dalle sue profezie – per quanto "vagamente messianiche" esse possano essere state – dobbiamo ancora una volta cominciare a distinguere le forze comuniste e fasciste che sono in atto sotto la superficie della politica mondiale, e riarticolare in maniera autocosciente una lotta nella quale lui aveva qualcosa da dire». ( Fredric Jameson, da "The Benjamin Files") -
Era questo, il libro che mancava. Hegel, Marx, Sartre, Adorno e Brecht avevano già il loro posto di rilievo nel lungo scaffale fitto di libri di Fredric Jameson, dedicati al problema che guida tutta la sua opera: il rapporto tra marxismo e forma, titolo di un altro grande libro che ha dato origine alle "Modernist Papers", "The Antinomies of Realism", e al più recente "Allegory and Ideology", tra gli innumerevoli altri. Il nome di Lukács rimane ancora assente, ma forse è proprio questo l'autore che percorre tutti gli altri libri. Ma perché Jameson ha impiegato così tanto tempo prima di arrivare a dedicare un intero libro all'opera di Benjamin? Egli ci fornisce alcuni indizi: all'inizio del testo, ci dice, usando la nomenclatura di Roland Barthes, che «l'opera di Benjamin è troppo "leggibile" perché ci si possa rendere conto che essa è incomprensibile». Ma anche Hegel è difficile, Marx non è facile, Sartre è tortuoso, Brecht è esigente e Adorno è un incubo anche per coloro che lo amano. E poi, quando guardiamo alla produzione intellettuale di Jameson, è ovvio che la difficoltà degli autori non è mai stata un ostacolo alle sue analisi. Il titolo ci dà un'altra indicazione. Allude a qualcosa di assemblato, che è stato conservato negli anni e aggiunto all'ultimo minuto, come se tutto fosse come una raccolta di schede, di fascicoli, di appunti che Jameson ci consegna nelle nostre mani. Ma a differenza dei "Modernist Papers", i quali in realtà sono una raccolta di articoli, il libro su Benjamin mira proprio a rendere esplicita l'impossibilità di scrivere un libro su questo autore, la cui forza risiede proprio nella sua protesta contro la sistematizzazione filosofica. Jameson, nel libro difende tutta una serie di tesi controverse. Una di queste, è che l'opera di Benjamin non è costituita da dei libri, con l'eccezione, forse, di "Strada a senso unico": «una scatola di cioccolatini che dovrebbe arrivare con un avvertimento: sostanze che creano dipendenza!». In quel libro, Benjamin stuzzica il lettore - dice il critico - ponendolo in attesa di un'opera che non arriva e che è costruita come una sorta di eisensteiniano "montaggio di attrazioni". Come Lacan, con i suoi "Seminari", e Gramsci, con i suoi "Quaderni del carcere", anche l'opera di Benjamin non consisterà in libri, ma in "esperimenti": corrispondenza, lavoro di recensore, diari, citazioni (da cui Benjamin trae un nuovo genere letterario, secondo Jameson) e il saggio. In quest'ultimo, Benjamin avrebbe trasceso Adorno e Lukács, realizzando in tal modo «un'esposizione sinfonica di toni e di livelli, un'esecuzione virtuosistica che si estende dall'esercizio dello strimpellare di un bambino, al sublime». In ogni caso, vale la pena notare come Jameson suggerisca che la crisi della filosofia borghese del XX secolo, e la crisi della narrazione di cui Benjamin ha parlato nei suoi scritti, sia stata incorporata come elemento interno del suo lavoro. Quindi, come scrivere un libro su qualcuno che ha rifiutato questa forma nel suo stesso pensiero?
The Benjamin Files, tuttavia, non è solo un commento all'opera di Benjamin e all'impossibilità di commentarla, ma è piuttosto una revisione della posizione di Jameson su di essa. Premette di essere stato uno dei responsabili dell'associazione dell'opera di Benjamin alla cosiddetta "malinconia di sinistra"; un'espressione creata dal filosofo berlinese per designare l'opera di Erich Kästner, esponente in letteratura del movimento della "Nuova Oggettività", e uno degli scrittori più popolari degli anni '20 in Germania. In seguito, questa espressione, a partire dall'omonimo libro di Enzo Traverso, viene fatta aderire una volta per tutte alla teoria critica. Jameson corregge sé stesso: caratterizzandola in tal modo, egli aveva lasciato da parte «il conversatore aggressivo, il commentatore attento e il diagnostico dello Zeitgeist, il giornalista ambizioso e lo scribacchino, l'amante e il viaggiatore del mondo». Insomma, più sinistra, e meno malinconia. Il critico ci mostra pertanto che in Benjamin c'è molto di più da esplorare, rispetto a quei passaggi logori già diventati ormai quasi slogan della sua opera; come i riferimenti all'angelo della storia e alla critica del progresso (necessari, certo, ma oggi troppo carichi di luoghi comuni). In Benjamin, c'è il marxismo al di là della teoria della lotta di classe, suggerisce Jameson. Però, questo non è un argomento di Benjamin. Il suo contributo risiederebbe altrove. In effetti, "luogo" è un buon termine, dal momento che esso è uno dei punti più originali e più interessanti della lettura di Jameson: consiste nel mostrare che nell'opera di Benjamin esiste un forte elemento spaziale, una sorta di cartografia che si estende oltre il tema architettonico dei Passages. I testi su Berlino, Parigi, Mosca e Napoli vengono brillantemente analizzati nel libro. Queste ultime due città costituiranno due poli della sua opera: Napoli, immagine di un mondo preborghese; Mosca, come società post-borghese. Benjamin cercò dei modi per poter riuscire a superare l'individualismo capitalistico che univa le due città. In mezzo, la "Cronaca di Berlino", come mappatura che muove verso una sorta di Bildungsroman, e la Parigi di Baudelaire, immagine di una città che scompare, il cui spleen getta la sua ombra sulla Repubblica di Weimar. Se nelle mani di Baudelaire la città diventava come un libro, dice Jameson, in Benjamin si potrebbe parlare della stanza/spazio in quanto forma: la città, considerata come una stanza [riferimento all'interno borghese], la stanza trasformata in una città a sé stante. E questi spazi sono popolati dal flâneur, dal collezionista, dal giocatore d'azzardo, dalla prostituta, dal bambino, dal criminale; personaggi della fisionomia pre-romanzesca [leggi anti-psicologica] di Benjamin, sulla scia di Balzac e Dickens. Benjamin voleva diventare «il più importante critico letterario della Germania». Ciò nonostante, Jameson sostiene che nella sua opera, tuttavia, non troviamo una storiografia della forma letteraria: «nessun grande interesse per il romanzo (intervista Gide, ma si infiamma solo leggendo Adrienne Mesurat), nessuno sguardo storico sul futuro del linguaggio poetico, non c'è nemmeno una visione storica dell'evoluzione del dramma, e questo nonostante Brecht, nonostante Asja, Piscator, gli espressionisti, Ejzenštejn, Cocteau [...]». Invece, dice Jameson, Benjamin appare più interessato ai margini: alle fiabe, all'occulto (la Cabala e l'astrologia), al racconto, alle curiosità culturali come Baudelaire e Kafka (i quali, secondo lui, non facevano ancora parte del canone). Qui, così come in altri momenti dell'opera, c'è un forte dialogo con il libro di Michael Jennings, "Walter Benjamin. Una biografia critica" [Einaudi, 2015]; un contributo importante al dibattito sull'eredità di Benjamin negli ultimi anni. Jameson se la prende con Jennings, per il quale Benjamin era il più grande critico letterario del periodo. Forse sarebbe meglio riformulare: per Jameson, Benjamin è anche un grande critico letterario, per cui, però, il dibattito su forma e generi rimane una questione secondaria: l'affermazione è audace, polemica e ci indirizza alla novità del libro. La proposta di Benjamin - dice Jameson - è scandalosa: per lui, nel campo dell'arte e della letteratura, il grande criterio di valutazione non è la critica immanente, bensì la politica. Ragion per cui, per quel che riguarda il suo ruolo nel campo della critica letteraria, sarebbe un errore accostarlo ad altri critici, come Adorno e Lukács. In Benjamin, non c'è nulla, dell'arte o della letteratura, che venga visto come un rifiuto del feticismo della merce, come voleva Adorno. Nessuna teoria del romanzo o dei generi letterari, come sosteneva Lukács. Il segno della critica letteraria, artistica e culturale di Benjamin rimarrà il suo elemento antiestetico. E non solo, ma anche: più linguaggio, meno forma. L'obiettivo di Benjamin sarebbe quello di «trasporre la crisi nel cuore stesso del linguaggio». La vicinanza con il post-strutturalismo appare evidente: infatti, per quanto incredibile possa sembrare, il rapporto tra teoria critica e post-strutturalismo rimane ancora un dibattito poco esplorato, dal momento che il "tabù" del postmodernismo ha favorito la separazione radicale tra le due tradizioni. Nel suo nuovo libro Jameson ,solleva il vespaio.
Non un teorico della lotta di classe, quindi, né un sostenitore della forma e dell'autonomia dell'arte, ma piuttosto uno che pensa alle conseguenze dell'emergere della società e della politica di massa nell'ambito della cultura, dell'arte, della tecnologia, della pedagogia. Benjamin sarebbe stato pertanto un teorico della sperimentazione, senza una specifica proposta estetica: «il suo sperimentalismo si muove attraverso salti imprevedibili, dal mezzo al genere, e dalla forma e dallo stile, alla distribuzione, indeterminabili in anticipo», scrive Jameson. L'idea è quella che Benjamin volesse allenarci a una nuova sensibilità. Jameson svolge un'analisi molto interessante del ruolo di Daguerre, uno dei padri della fotografia, e di questa tecnologia nel lavoro di Benjamin. Il suo entusiasmo per l'URSS, per le nuove nozioni della produzione popolare e della scrittura operaia – basti ricordare l'ammirazione che Benjamin nutriva per Tretyakov – avrebbe portato il suo lavoro in questa direzione post-individualista, dice Jameson. L'autore che ha teorizzato la crisi della narrativa nel celebre saggio "Il narratore: considerazioni sull'opera di Nikolai Leskov" – il più perfetto di Benjamin, sostiene Jameson – disprezzava il romanzo in quanto forma borghese, gastronomica e culinaria. Contrariamente a quanto voleva Adorno, il sole brechtiano non tramontò mai sull'opera di Benjamin e continuò a illuminare di vitalità la sua esperienza intellettuale. In questo senso, l'analisi dell'importanza, avuta da Brecht e dal dramma, per l'opera di Benjamin è un altro aspetto distintivo del libro. In Germania e nei paesi che seguono il suo orientamento alla lettura (fortemente influenzati da Adorno), l'impatto di Brecht viene visto come un episodio isolato nell'opera di Benjamin (vale la pena ricordare che Adorno, quando organizzò la sua opera, cercò di limitare l'influenza del drammaturgo, separandola in un unico libro, i "Saggi su Brecht"***). Jameson va in controtendenza, e mette in evidenza il ruolo centrale che il teatro epico di Brecht ha avuto nella scrittura di Benjamin, segnato dalla scomposizione di ogni atto o evento nelle sue parti costitutive, e dalla sua successiva denominazione. Per il critico, questo è il gesto benjaminiano per eccellenza: «la rottura, il divario, la separazione». È l'erede del procedimento brechtiano di smontare scene, episodi e ricomporli in modo diverso (abbiamo qui i due momenti del "Verfremdungseffekt"). In Brecht, questi episodi autonomi hanno una loro unità, conferita da una descrizione precedente, da una canzone o dal suo stesso nome, proprio come avviene negli scritti di Benjamin; suggerisce Jameson. Questo, sottolinea il critico, richiede al lettore di essere sempre come una sorta di traduttore (in effetti, la traduzione appare anche come un altro aspetto fondamentale della sperimentazione di Benjamin). Questo assorbimento benjaminiano di Brecht fece impazzire Adorno nel momento in cui Benjamin lo informò che il metodo del suo progetto dei "Passaggi" era un "montaggio letterario": «non è necessario dire nulla, ma solo mostrare». Benjamin, come Brecht, voleva sfuggire al soggettivismo, allo psicologismo, andando nella direzione di un'estetica (e della scrittura) più oggettiva, che lo avrebbe anche allontanato da Proust. Per questo motivo, sostiene Jameson,il suo genere è il Denkbild, non il frammento. Jameson sostiene che la concezione dell'estetica di Benjamin trascende i limiti della letteratura e del linguaggio, e va nella direzione di una nuova estetica, legata all'emergere delle masse. Questi non saranno un oggetto di studio nel suo lavoro, ma una nuova categoria, che richiede un nuovo modo di pensare. In questo senso, Jameson rilegge il saggio "L'opera d'arte nell'era della sua riproducibilità tecnica" come un testo di Ideologiekritik, che mira a neutralizzare la teoria estetica tradizionale e a dimostrare il carattere prescritto delle sue categorie. Questo sarebbe il suo oggetto centrale, più del cinema, della tecnica o del film; proprio come di solito risalta nella lettura di questo testo. Uno dei grandi temi di Benjamin, in questa chiave, sarebbe il declino: dell'aura, della narrazione, dell'artigianalità, dell'esperienza, ecc.
L'opera di Benjamin, sottolinea Jameson, è segnata dalla lotta mortale tra fascismo e comunismo, lotta che illumina tutto ciò che ha scritto. Senza empatia rispetto a questo momento, il suo lavoro non può essere compreso. Siamo ancora in grado di riconoscere entrambe queste forze nel mondo di oggi? In ogni caso, è in tal modo che Jameson guida la nostra lettura, basata sui dilemmi politici che affrontiamo oggi, manifestati, ad esempio, nelle due grandi tendenze dell'espressione culturale in epoca contemporanea: «un'immaginazione distopica che culmina nell'apocalisse, ovvero una fissazione sul tempo presente così completa da rendere il futuro inutile e inimmaginabile». "The Benjamin files" non è un libro di "commento" sull'opera di Benjamin, almeno non lo è nel senso accademico abituale. Jameson va ben oltre. A molti non piace il suo stile, segnato dalla discontinuità, dal ragionamento ermetico e dalla profusione di riferimenti letterari, filosofici, storici, ecc. Spesso sembra che aderire al suo pensiero – il suo pensée sauvage (Lévi-Strauss), e che egli attribuisce anche a Benjamin – sia come entrare in un vortice. Jameson non si legge: noi indaghiamo, scaviamo. Nei suoi libri, ci sono sentieri che ci fanno perdere, come in un labirinto. Come Benjamin (e come Brecht), non risparmia lavoro al lettore, il quale deve riflettere da sé solo sulle ragioni e sulle non ragioni del suo "montaggio". Si interessa anche di politica, di ciò che rimane lucido o delirante (mai tiepido) nella teoria critica. Per questo, non solo egli è uno dei migliori interpreti di questa tradizione, ma ne fa parte lui stesso, sempre disposto a tradire le teorie che gli fanno da guida, a violare le opere su cui si sofferma, a spingere gli autori con cui si confronta in quegli abissi che essi stessi hanno cercato di evitare. Per questo egli parla di «trarre forza» dalle profezie di Benjamin, perché, come nel caso del racconto, questa forza non si dona facilmente a noi. Ha bisogno di essere conquistata, a volte con la forza, a volte contro le stesse intenzioni dello scrittore. Questa procedura non può competere con le esigenze di facilità e trasparenza dell'era dei social network, e della traduzione automatica che sta mandando in pensione sia il lettore che il traduttore. La capacità di raccontare qualcosa di originale su Walter Benjamin oggi, e di orientare quella che fino a oggi è stata l'interpretazione della sua opera, non è un fatto secondario del libro. E la cosa grandiosa degli scritti di Jameson, consiste nel fatto che possiamo anche non essere d'accordo con le sue interpretazioni, senza che però per questo esse perdano la loro forza. A un certo punto del libro – che ha molti più elementi interessanti di quelli che ho potuto esporre qui – Jameson discute la nozione di arte avanzata di Benjamin, la quale non si arrende all'imperativo del "nuovo". Seguendo Breton e i surrealisti, per lui arte moderna significava anche cercare il potenziale rivoluzionario di ciò che è fuori moda. Nulla, oggi, è più di moda della teoria critica. Dobbiamo adempiere al compito che Jameson ci lascia in eredità, e sapere come fare a estrarre il potenziale rivoluzionario che essa ha. In modo che così sopravviva e anche noi.
- Bruna Della Torre - Pubblicato su Blog da Boitempo il 24/2/2022 -
*** - Saggi su Brecht instaura un dialogo attualissimo tra due grandi menti del Novecento – due esuli, due tedeschi – presentando una ricca raccolta di scritti di Walter Benjamin, realizzati tra il 1930 e il 1939, sull'opera drammatica e poetica dell'amico e tutore Bertolt Brecht. Brecht e Benjamin si incontrarono alla fine degli anni '20 in Germania. Entrambi i marxisti, impegnati nel potenziale emancipatorio delle pratiche culturali, divergevano e concordavano su argomenti diversi come il fascismo e l'opera di Franz Kafka. Di fronte alla sovversione nazista della Repubblica di Weimar e alla degenerazione stalinista della rivoluzione in Russia, hanno lottato per mantenere vive le tradizioni della critica dialettica dell'ordine esistente e dell'intervento radicale nel mondo al fine di riformarlo.
Nessun commento:
Posta un commento