Che cos'è la cattiveria? A volte, semplicemente, è il non trovare agio nel conformismo imperante, e percorrere una propria strada a dispetto di tutto e di tutti. Anche nel grande teatro della Torino e dell'Italia del Ventennio c'è un copione da recitare, e quando i destini dei protagonisti, Lotario e Giulia, si incrociano sul finire della guerra, i due si accorgono che, nel condurre la loro esistenza indipendente e disordinata, forse hanno comunque interpretato un ruolo. E lassù, dal cielo, Belzebù e un baffuto dittatore onnisciente si godono la recita dell'umanità, elargendo tiri mancini a profusione. Uscito per Einaudi nel 1956, Minuetto all'inferno è un libro controverso. Vittorini, che pure lo pubblicò nei Gettoni lo definì con spregio - in un'epoca in cui la letteratura si interessava soprattutto di sondare il reale - come «cupamente fantasticante: un incubo puramente libresco». Eppure il romanzo vinse il Premio Strega opera prima e anche oggi, a distanza di anni, si ha l'impressione che questa osservazione profonda della bassezza dell'animo umano e questo addentrarsi nel regno del fantastico lo rendano una lettura di valore imperituro.
(dal risvolto di copertina di: Elémire Zolla, "Minuetto all’inferno", Cliquot, pagg. 288, € 20)
Elémire Zolla: Favola gnostica in una Torino cupa e laboriosa
- di Giuseppe Scaraffia -
Aprendo il primo libro di uno dei pochi grandi italiani del Novecento, Elémire Zolla, si ha un’espressione di straniamento. Non solo perché siamo abituati alla sua straordinaria scrittura saggistica, ma anche per un fatto particolare. Per i contemporanei, il premio Strega è la quintessenza dei giochi di potere e ogni anno si sa con molto anticipo chi lo vincerà. Invece in quel lontano 1956 il premio Strega Opera Prima era arrivato a un esile trentenne «in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo». Per fortuna a guidarci c’è la straordinaria prefazione di Grazia Marchianò, sua compagna di vita e di avventure spirituali che, dopo un’insostituibile biografia, Il conoscitore di segreti, sta pubblicando per Marsilio tutta l’opera di Zolla, a lungo collaboratore anche di queste pagine. Ma è proprio allora che si può percepire tutta la differenza tra il giovane Zolla e i suoi contemporanei. Infatti, forte di quel riconoscimento, avrebbe potuto intraprendere la tradizionale carriera del letterato come aveva fatto, vari anni prima di lui, una sua frequentazione, Alberto Moravia. Ma a quel trentenne schivo non interessavano i premi né gli onori, anche se allora, come nel suo caso, poteva ancora girare la ruota della fortuna. Pochi conoscevano il difficile percorso che aveva portato il suo libro alla pubblicazione. I lettori di Einaudi (allora personaggi come Fruttero, Fenoglio, Vittorini e Calvino) erano rimasti sorpresi da quel romanzo così tortuoso e “decadente”, tanto lontano dalla retorica realista dei «Gettoni» in cui doveva essere pubblicato. Solo Fruttero era riuscito a incrinare il no di Vittorini, per il quale «lo Zolla è solo cupamente fantasticante; un incubo puramente libresco». Alla fine però Vittorini aveva ceduto, lasciando uscire quella «favola gnostica»: in una Torino «cupa e laboriosa», logorata dalla dittatura fascista, in cui si annodano pigramente le vicende di torbidi amori, fa irruzione un inquietante terzetto: un Demiurgo, Satana e un Dittatore. I tre condannano il ricco alla povertà e il fatuo all’umiliazione più grande, la normalità. «Si adatterà a essere come tutti gli altri, si conformerà, andrà alla partita di calcio, si esprimerà con luoghi comuni». Un colpo di scena sostenuto soprattutto da quella che si stava rivelando la grande scrittura di Zolla. «Si dice», conclude Marchianò, «che uno scrittore scriva per l’intera vita un unico libro dove svolge la formula cifrata del proprio destino. Mentre lo stile si acquista col tempo, la grazia del tema dominante è un dono concesso una sola volta».
- Giuseppe Scaraffia - Pubblicato su Domenica del 14/4/2024 -
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