Per la critica del cemento. A proposito del libro di Anselm Jappe
- di Afshin Kaveh -
Concepito a partire dal 2018, ovvero successivamente al crollo del Ponte Morandi, e uscito originariamente in Francia due anni dopo col titolo di Béton per le edizioni L’Échappée, Cemento. Arma di costruzione di massa (elèuthera, Milano 2022, pp. 200, 17 euro) del filosofo tedesco Anselm Jappe, edito e diffuso in Italia nell’ottima traduzione di Carlo Milani – unendosi così alla lista delle sei lingue in cui, per il momento, è divulgato nel mondo –, è un libro imprescindibile per avventurarsi nella critica di un materiale, il cemento, che per diverso tempo ha potuto vantarsi di un fitto alone di neutralità, di innocenza e che invece, negli ultimi anni, sta letteralmente vacillando. Eppure, le illuminanti pagine che Jappe gli dedica riescono ad andarne ben oltre, costituendo una generale cassetta degli attrezzi per una radicale critica ecologista di ben più ampia portata e ampio respiro che, di fronte all’odierno collasso ambientale, merita di essere presa in considerazione.
La costruzione critico-teorica di Jappe prende avvio da un breve excursus storico, da una rapida genealogia del materiale, precisando sin dalle prime righe la distinzione, non sempre scontata, tra il calcestruzzo, dalla storia millenaria, e il ben più noto cemento armato, ovvero il calcestruzzo rinforzato di uno scheletro di ferro o acciaio. Quest’ultimo, inventato nel XIX secolo, arriverà a conoscere una crescente e irreversibile diffusione a partire dal secondo dopoguerra in poi – sia nel blocco occidentale che in quello sovietico. Anselm Jappe, al fianco dei pochissimi e rari oppositori e critici del cemento che lo conducono alla riscoperta della figura dell’artista e scrittore William Morris ingiustamente dimenticato, incontra soprattutto i tantissimi sostenitori entusiasti dell’utilizzo massiccio del cemento, avendo come principale oggetto di spietata polemica la figura dell’architetto e urbanista franco-svizzero Le Corbusier (provocando così, nei dibattiti alle presentazioni pubbliche del suo libro, l’animosità e il nervosismo di diversi suoi apologeti).
Da qui la disgressione del filosofo tedesco ci conduce alla scoperta dei tanti e pericolosi limiti del cemento come materiale in sé, a partire dalla sua produzione sino ad arrivare alle sue colate: il crescente saccheggio di spiagge e corsi d’acqua per l’estrattivismo di sabbia in gran parte destinata alla produzione di cemento, il consumo di acqua e, in generale, energetico, le emissioni di biossido di carbonio o anidride carbonica dovute alle altissime temperature necessarie alla sua produzione, la sterilizzazione e il soffocamento di interi suoli, il fenomeno crescente di inondazioni dovute anche alla cementificazione e le tonnellate di rifiuti da costruzione, in buona parte cemento armato, a ingigantire le discariche; questi, e tanti altri, sono i lati più immediatamente visibili della sua sconvenienza generale. Limite che giunge sin alla stessa composizione strutturale del cemento: come materiale da costruzione, infatti, avendo una durata di vita tendenzialmente molto breve, per rimediare alla propria obsolescenza tende a richiedere una serie di interventi di manutenzione permanenti non sempre capitalisticamente convenienti – e l’esempio del Ponte Morandi è qui più che profetico.
L’assassinio di un’architettura “vernacolare”, di determinati saperi dell’abitare certi ambienti e contesti, dell’utilizzo alternativo di altri materiali da costruzione e, infine, la soppressione programmata delle differenze attraverso il “brutalismo” di interi quartieri-satellite oggi specchio generale delle città, sono l’ultima critica di Jappe (che riscopre qui le teorie di Bernard Rudofsky), ma non l’ultima parola. Infatti in Francia, al contrario dell’Italia, l’estremo successo della radicalità del libro (venduto in migliaia di esemplari) ha tenuto conto del prezioso contributo di critico radicale quale Jappe è (e non solo di “professore d’estetica” così come incessantemente decantato nelle decine di recensioni nostrane) in quanto, assieme a Robert Kurz (1943-2012), è uno dei principali e più noti teorici e animatori della corrente internazionale della “critica del valore” [Wertkritik], una delle più estreme teorie marxiane in circolazione ormai da quasi quarant’anni.
Attraverso un gioco di parole (in verità ben comprensibile in inglese, ove “cemento” è traducibile in “concrete”) Jappe descrive il materiale oggetto della sua analisi critica come la concretizzazione stessa della logica astratta del modo di produzione capitalistico. Il funzionamento di questo modo di produzione storicamente determinato è costituto dall’insieme categoriale di “merce”, “lavoro”, “denaro” e “valore” ed è il ciclo tautologico di quest’ultimo, nella corsa autoreferenziale alla “valorizzazione del valore”, a decretarne il fine in sé, in un automovimento irrazionale e feticistico.
Ripartendo dalla centralità della categoria marxiana del lato astratto del lavoro, descritta da Marx stesso come una “gelatina” di forza-lavoro umana misurata quantitativamente come dispendio di “muscoli, nervi, cervello, mani” senza alcun riguardo al contenuto materiale della sua produzione, Jappe individua il nocciolo stesso dell’irrazionalità logica costitutiva del modo di produzione capitalistico. Senza bisogno di guardare a “fratture metaboliche” (come in Foster e nella scuola del metabolic rift) e senza bisogno di inserire il “cemento” all’interno della formula della metamorfosi e del ciclo del capitale monetario per dargli una discutibile valenza empirica (sulla falsariga di Malm e della sua problematica ontologizzazione categoriale del “fossile”), Jappe scoperchia un’ovvietà talmente palese da essere quasi imbarazzante per i tanti sedicenti critici ambientalisti che ancora non ci arrivano: l’incessante svolgimento della “valorizzazione del valore” contiene in nuce, come conseguenza, la crisi ecologica e il collasso ambientale, e non potrebbe essere altrimenti. Il cemento non è esente da questa logica e, anzi, è una delle sue facce più marcate, insomma più “concrete”. È la messa in discussione di questa stessa logica a presentarsi come un passaggio fondamentale per ogni seria critica ecologista che si pretende come tale.
Che l’epoca geologica che ci contiene sia ben identificabile nella definizione di “capitalocene” è fuori discussione, mettendo così a tacere tutte quelle tendenze irrazionali e problematicamente adialettiche che accusano della crisi ambientale l’uomo in astratto in sé, come dato isolato, originario e astorico. Può darsi che, tra migliaia o milioni di anni, l’attuale epoca storica sarà geologicamente individuabile e riconoscibile dallo strato di cemento, ma il punto adesso è uno sguardo dialettico della totalità che riscopra nella critica del cemento non solo una critica dell’architettura, ma anche e soprattutto un’intersezione tra critica categoriale del modo di produzione capitalistico e critica ecologista. L’opera di Jappe, nella sua estrema originalità, merita per questo di essere letta.
Afshin Kaveh - luglio 2023 – Pubblicato su ANTROPOCENE.org -
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