«Il folle fugge dal pensiero cristallizzato per vivere in un futuro diverso e apre strade che solo più tardi saranno percorse con naturalezza anche dai cosiddetti normali.» Albert Einstein diceva che «solo coloro che sono abbastanza folli da poter pensare di cambiare il mondo lo cambiano davvero». La follia non è irrazionalità, la follia può essere considerata una forma di pensiero eccentrico, capace di nuove interpretazioni, nuovi modi di vedere e nuovi modi di cogliere il mondo. In questo volume, Lamberto Maffei ci accompagna nel mondo dell'arte e del cervello. Attraverso il racconto di artisti folli, ci mostra come la creatività può salvare il mondo fornendo un punto di vista diverso, ma al tempo stesso vero e diretto. In un tempo ricco di incertezze e retto dalla pressione all'omologazione delle nuove tecnologie, l'autore ci fornisce un quadro della nostra natura umana inedito, nuovo e autentico, dove non si nascondono fragilità, bellezza e paure dell'infinito e della fine, temi esistenziali propri dell'essere persone consapevoli.
(dal risvolto di copertina di: Lamberto Maffei, "Solo i folli cambieranno il mondo. Arte e pazzia". il Mulino, pagg. 140, € 14 )
Che grande follia omologare gli esseri umani
- di Paolo Albani -
«Solo coloro che sono abbastanza folli da poter pensare di cambiare il mondo lo cambiano davvero». Questa affermazione di Albert Einstein è in esergo al prologo di "Solo i folli cambieranno il mondo. Arte e pazzia", titolo-manifesto che è tutto un programma, un libro di Lamberto Maffei, già presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei, professore emerito di Neurobiologia alla Scuola Normale di Pisa. La follia di cui parla Maffei è intesa come pensiero eccentrico, deviante, bizzarro, irregolare (mi piace il termine «irregolare», mi ricorda scrittori come Giovanni Faldella o Antonio Delfini), è la diversità di coloro che escono dal gregge delle pecore della globalizzazione del pensiero dominante, che rompono le regole istituzionalizzate, l'ordine culturale costituito per seguire strade innovative, spericolate, dai più giudicate per l'appunto folli.
Da questo punto di vista gli esempi di artisti e di scienziati ritenuti un po' folli sono numerosi, a partire dall’antichità, se è vero che Diogene di Sinope, quello che viveva in una botte, comportamento un tantino anomalo, fu chiamato «il Socrate pazzo». Maffei ne racconta alcuni, di questi esempi, concentrandosi in particolare nel campo artistico. Si va dal più geniale dei folli, cioè Wolfgang Amadeus Mozart, bambino prodigio, considerato la migliore droga per essere felici, che forse aveva una sindrome di Tourette o una forma di leggero autismo, alternando una frenetica attività, anche sessuale, a periodi più melanconici, al caso ben noto di Vincent Van Gogh, dai pittori schizofrenici dell’Art Brut, collezionati da Jean Dubuffet, all’esperienza manicomiale di Antonio Ligabue e alla misteriosa forma di demenza di cui soffrì il compositore Maurice Ravel, autore del famoso Boléro, fino ai tormenti e alle pulsioni contrastanti dei pittori della secessione viennese: Gustav Klimt, Oscar Kokoschka e Egon Schiele, le cui opere indagano la parte più nascosta dell’essere. Maffei ricorda anche la poetessa Alda Merini, internata per la prima volta a 16 anni con la diagnosi di un disturbo bipolare o psicosi maniaco-depressiva, che subirà nell’arco della sua vita vari ricoveri.
«Ero matta in mezzo ai matti. / I matti erano matti nel profondo, / alcuni molto intelligenti», scrive la Merini in una sua poesia. La poetessa ebbe una storia d’amore travolgente con lo scrittore Giorgio Manganelli. Finita la loro storia, frequentarono entrambi lo stesso psicoanalista, Cesare Clivio. Racconta la figlia dello scrittore, Lietta, che un giorno Clivio telefonò alla moglie del Manga: «Buongiorno, sono il dottor Clivio, suo marito è qui da me, stiamo parlando da un’ora e, a questo punto, non capisco più se il matto è lui o se il matto sono io». Questo per dire quanto il confine tra normalità e follia sia labile e incerto, e quanto la creatività non sia quasi mai disgiunta da un pizzico di estrosa follia.
L’intelligenza non è unica, ricorda Maffei citando un saggio dello psicologo Howard Gardner. Esistono sette tipi di intelligenza: logico-matematica, linguistica, musicale, spaziale, corporea-cinestetica, interpersonale, interpersonale, intrapersonale, e chissà quante altre, aggiungo io da profano. Ciò spiega perché vi siano persone famose nella loro professione che, tuttavia, si rivelano assai povere in altri campi. La malattia, osserva Maffei, può essere un chiavistello che apre spiragli alle forze dell’inconscio, grande ripostiglio che comprende i traumi dell’infanzia e anche quelli della vita adulta. La malattia psichica, in particolare, rende più efficace il grido del diverso, la rivolta contro l’omologazione del pensiero. Ne erano convinti anche i surrealisti, citati da Maffei, che teorizzarono nei loro manifesti la necessità di una fuga dal razionale. Al riguardo mi sarei aspettato da Maffei un riferimento agli studi del giovane Raymond Queneau, all’inizio simpatizzante del movimento surrealista, sui cosiddetti «folli letterari», autori editi le cui elucubrazioni si allontanano da tutte quelle professate dalla società in cui vivono, non rimandano a dottrine anteriori e non hanno avuto alcun seguace (la definizione è dello stesso Queneau). Portatori di teorie strampalate e inverosimili, i «folli letterari» si distinguono per un’immaginazione effervescente, inquietante.
Se dovesse descrivere la normalità, Maffei la raffigurerebbe con una linea dritta, con piccole oscillazioni, mentre la follia la disegnerebbe con la forma irregolare di una sinusoide, oscillante fra alti e bassi. Il folle, a volte semplicemente un individuo diverso, ha più occhi e più orecchie e più parole del normale; quest’ultimo in genere ha paura dei cambiamenti, vi si oppone con forza. La società non ama i diversi, ne ha il terrore, mentre oggi, ammonisce Maffei, ciò che dovrebbe impaurirci è la corsa verso un mondo digitale che riduce il pensiero a un algoritmo, che va sostituendo l’Homo sapiens con una nuova creatura, l’uomo seriale. A questo punto ho pensato di rivolgermi a un esperto in materia, ho chiesto a ChatGPT (Chat Generative Pre-trained Transformer), un prototipo di software progettato per simulare una conversazione con un essere umano, una definizione stringata di uomo seriale, e lui, l’intelligentone artificiale, mi ha risposto: «È importante sottolineare che l’etichettatura di un individuo come “uomo seriale” può essere stigmatizzante e limitativa, e non tiene conto della complessità e diversità delle esperienze umane».
Capito il furbacchione!
- Paolo Albani - Pubblicato su Domenica del 16/4/2023 -
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