Un nuovo vecchio ordine mondiale?
- Può la Cina statal-capitalista, in quanto potenza egemone globale, ereditare la posizione degli Stati Uniti? -
di Tomasz Konicz
Se si deve credere alle dichiarazioni del vertice russo-cinese e alle valutazioni occidentali, il XXI secolo verrà definito come un'era di egemonia cinese. Al vertice di guerra di Mosca di metà marzo, Putin e Xi hanno invocato un «giusto ordine mondiale multipolare» che dovrebbe porre fine all'era dell'egemonia statunitense [*1]. Viceversa, un rapporto del governo britannico ha ammonito parlando invece di un mondo di «pericolo, disordine e divisione» che Pechino starebbe creando in quella che invece costituirebbe un'aperta «sfida epocale» all'ordine mondiale liberale «basato sulle regole» [*2]. Per gli analisti britannici sembra che sia difficile vedere il mondo tardo-capitalista in crisi come qualcosa che non sia «pericolo, disordine e divisione». Simili valutazioni sono ovviamente delle semplici proiezioni. Ma questo non significa che siano necessariamente del tutto sbagliate, come si può evincere rivolgendo un'occhiata superficiale alla carneficina in corso in Ucraina, o al confronto in corso su Taiwan. Pertanto, da un lato, parlare di un ordine mondiale multipolare significa parlare anche dell'ideologia di tutti quegli Stati autoritari della semiperiferia che - attraverso politiche di guerra e di potere imperialista - cercano di sostituirsi agli Stati Uniti in via di erosione, per ottenere una supremazia, o un dominio a livello regionale o globale simile a quello raggiunto da Washington nella seconda metà del XX secolo.
La crescita di conflitti interstatali regionali, in un periodo di crisi globale in cui di fatto non esiste più un egemone mondiale, costituisce per l'appunto un'espressione di questo reale disordine mondiale multipolare. Sia che stiamo parlando di imperialisti russi, di mullah iraniani, di neo-ottomani turchi o di Querfrontler nazisti tedeschi per conto terzi, a motivare questa nuova era di antiamericanismo è l'invidia per i meccanismi di potere di Washington, che si stanno disintegrando. E questo è vero soprattutto proprio per il dollaro americano. Il biglietto verde, in quanto valuta di riserva mondiale basata principalmente sul commercio del petrolio, ha dato a Washington la possibilità di ottenere in prestito il valore di tutte quelle materie prime che sono servite per finanziare, ad esempio, la sua macchina militare. Esattamente al contrario di quel che avviene se, per esempio, ad accendere la macchina da stampa è Erdogan, facendo sì che in quel caso l'inflazione non possa fare altro che aumentare. È per questo che i recenti accordi valutari tra Cina, Russia e un certo numero di Stati semi-periferici stanno sollevando delle perplessità. A metà marzo, durante una visita di Stato a Riyadh, il presidente Xi aveva proposto, per il commercio di petrolio con l'Arabia Saudita, di passare allo yuan cinese, al fine di contrastare la «crescente "weaponization" del dollaro» [*3]. Si dice che Riyadh stia prendendo seriamente in considerazione questa mossa simbolica in modo da poter così svincolare una parte del suo commercio di petrolio con la Cina. Nella Russia bellica, a fronte delle sanzioni occidentali, lo yuan è salito al rango di valuta più scambiata [*4]. Pechino ha stretto simili accordi valutari bilaterali con Brasile [*5], Pakistan [*6] e Venezuela [*7]. All'ultima Riunione dei BRICS, avvenuta a febbraio, si è persino discusso della creazione di un sistema valutario alternativo per i «mercati emergenti» [*8]. A marzo, il Financial Times ha affermato che le élite funzionali dell'Occidente dovrebbero prepararsi a un «ordine mondiale valutario multipolare»; cosa che significherebbe la perdita dello «straordinario privilegio» che ha Washington, di contrarre prestiti in quella che è la valuta di riserva mondiale. Da una parte, questi crescenti movimenti di allontanamento dal dollaro, possono essere attribuiti alle sanzioni statunitensi contro la Russia quando è iniziata la guerra di aggressione contro l'Ucraina, a causa del fatto che è stata la prima volta che i beni esteri russi sono stati congelati (Lavrov ha parlato di «furto»); un fatto questo, che è stato attentamente registrato da tutti i regimi, i quali devono ora fare i conti con la prospettiva di entrare in conflitto con Washington. Ma questa tendenza alla de-dollarizzazione e alla de-globalizzazione può essere pienamente compresa solamente se posta sullo sfondo di un declino imperiale degli Stati Uniti, visto nel processo di crisi storica. Soltanto se si tiene conto di tutto ciò, diventa allora chiaro il perché la Cina non sarà in grado di assumere il ruolo di egemone degli Stati Uniti.
Giovanni Arrighi, nel suo affascinante libro su "Adam Smith a Pechino" [Mimesis, 2021], ha descritto la storia del sistema mondiale capitalista vedendolo come una successione di cicli egemonici. Una potenza in ascesa raggiunge una posizione dominante all'interno del sistema in quella che è una fase di ascesa caratterizzata dall'industria produttrice di merci; dopo una "crisi spia", questa potenza egemone entra in un declino imperiale, nel quale l'industria finanziaria acquista sempre più importanza, per poi essere, infine, sostituita da una nuova potenza egemone, dotata di maggiori mezzi di potere. Una simile sequenza, può essere tracciata empiricamente sia per quel che è stato il caso sia della Gran Bretagna che degli Stati Uniti. L'Impero britannico, divenuto nel contesto dell'industrializzazione del XVIII secolo l'«officina del mondo», si è poi trasformato, nella seconda metà del XIX secolo, in quello che è stato un centro finanziario mondiale, prima di essere sostituito, nella prima metà del XX secolo, a causa dell'ascesa economica degli Stati Uniti, i quali, a loro volta, hanno poi vissuto anch'essi, durante la fase di crisi della stagflazione negli anni Settanta, la loro «crisi spia». A questo, ha fatto seguito la deindustrializzazione e la finanziarizzazione degli Stati Uniti, portando in tal modo al dominio economico del settore finanziario statunitense. L'indebitamento, da parte della potenza egemone in declino, nei confronti della potenza in ascesa imperiale - di cui si è occupato anche Arrighi - può essere visto tanto per caso dell'indebitamento della Gran Bretagna nei confronti degli Stati Uniti, quanto nel ciclo di deficit degli Stati Uniti rispetto alla Cina. Pertanto, il dollaro raggiunse in tal modo quella che divenne la sua posizione mondiale nel contesto del boom fordista del dopoguerra, allorché il Piano Marshall finì di cementare l'egemonia statunitense anche nei confronti dell'Europa devastata. Ed è stato proprio questo lungo periodo di espansione fordista, ad aver costituito la base economica dell'egemonia statunitense. Con la fine del boom del secondo dopoguerra - con l'ingresso nella fase di stagflazione, e con la finanziarizzazione e con l'implementazione del neoliberismo - la base economica del sistema egemonico occidentale cambiava: nella crisi di valorizzazione sistemica, gli Stati Uniti, sempre più indebitati, sono diventati il «buco nero» del sistema globale, assorbendo, attraverso i propri deficit commerciali, l'eccesso di produzione di quegli Stati orientati all'esportazione, come la Cina e la Germania, al prezzo di una crescente deindustrializzazione. Pechino e Berlino avevano perciò tutte le ragioni per tollerare l'egemonia statunitense e per assumere il dollaro come valuta di riserva mondiale, dal momento che, senza il mercato americano, l'ascesa della Cina a nuova «officina del mondo» non sarebbe mai stata possibile. Nel quadro di questa globalizzazione dei cicli di deficit e della corrispondente economia di bolla, il tardo capitalismo - soffocato dalla propria produttività e sempre più in affanno con il credito - ha incatenato i "luoghi di produzione" e gli Stati in deficit, nel mentre che, allo stesso tempo, a causa dei processi di disintegrazione socio-economica, cresceva il potenziale di conflitto. Questa tendenza della crisi è stata rappresentata e impersonata, in modo assai concreto, da un Donald Trump eletto da una classe media bianca in erosione che voleva reindustrializzare gli Stati Uniti attraverso il protezionismo; accelerando così, involontariamente, quel declino del dollaro il quale è stato accettato proprio a causa dei deficit dell'area del dollaro. Infatti, dopo la presidenza Trump, non si può più parlare di "egemonia" statunitense nel senso tradizionale del termine. Gli Stati Uniti mantengono la loro posizione solo attraverso un dominio nudo: soprattutto grazie al loro settore militare-industriale, che costituisce la vera e propria spina dorsale del dollaro; ed è questo che oggi rende probabile un confronto militare tra Cina e Stati Uniti. A livello globale, gli Stati Uniti si trovano con le spalle al muro, proprio allo stesso modo in cui si è trovato l'imperialismo russo nello spazio post-sovietico alla vigilia della guerra in Ucraina. Ciò si è reso evidente anche nell'attuale terremoto bancario, che tra l'altro, è stato innescato proprio dai titoli di Stato statunitensi [*9].
Pertanto, l'aumento del protezionismo indotto dalla crisi sembra dare tregua alla valuta di riserva mondiale, il dollaro. Tuttavia, a causa della crisi socio-ecologica globale del capitale, il XXI secolo non porterà a inaugurare un'epoca di egemonia cinese. Lo yuan non succederà al dollaro. L'ascesa egemonica della Repubblica Popolare - segnata dal dominio della produzione di materie prime - si è verificata nel contesto di quei già citati cicli di deficit globale, nei quali, in Occidente, la dinamica del debito ha generato la domanda di esportazioni cinesi, e si è conclusa con l'ondata di crisi del 2008. In seguito allo scoppio delle bolle immobiliari negli Stati Uniti e in Europa, le estreme eccedenze delle esportazioni cinesi sono diminuite (a eccezione degli Stati Uniti), mentre i giganteschi pacchetti di stimolo varati da Pechino per sostenere l'economia, hanno causato una trasformazione nelle dinamiche economiche cinesi: le esportazioni sono diventate meno importanti, mentre l'industria edilizia e il settore immobiliare - finanziati con il credito - sono diventati i principali motori della crescita economica cinese. In tal modo, già nel 2008 la Cina aveva superato quella che era stata la sua «crisi spia», la quale segna il passaggio a un modello di crescita guidato dal mercato finanziario. La crescita cinese si basa pertanto anche sul credito, e la Repubblica Popolare è fortemente indebitata, proprio come lo sono i centri occidentali in declino del sistema globale [*10]. L'economia deficitaria cinese, genera così degli eccessi speculativi ancora maggiori rispetto a quelli degli Stati Uniti o dell'Europa occidentale, com'è stato dimostrato nel 2021 dalle distorsioni del mercato immobiliare cinese assurdamente gonfiato [*11]. Economicamente, a causa della crisi sistemica globale, il declino egemonico della Repubblica Popolare Cinese è già iniziato, sebbene, a livello geopolitico, la Cina non sia ancora riuscita a conquistare la sua posizione egemonica. La mancanza di un nuovo settore trainante, così come quella di un regime di accumulazione che mobiliti il lavoro salariato su scala di massa nella produzione di merci - cosa che rappresenta l'esistenza di una barriera interna del capitale - costituisce la principale differenza tra la Cina contemporanea e gli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ciò appare particolarmente evidente nelle ambizioni di politica estera di Pechino, dove la «Nuova Via della Seta» ha avviato un ambizioso progetto di sviluppo globale sul modello del Piano Marshall, e che ha portato alla Repubblica Popolare la sua prima crisi del debito internazionale [*12]. Dei circa 838 miliardi di dollari che Pechino ha investito nella costruzione entro il 2021 di un sistema economico e di alleanze, incentrato sulla Cina, con i Paesi in via di sviluppo ed emergenti, sarebbero ora a rischio di default, dopo lo scoppio dell'attuale ondata di crisi (la pandemia e la guerra in Ucraina), circa 118 miliardi di dollari [*13]. All'orizzonte, non si vede alcuna primavera economica globale, ma solo sovra-indebitamento [*14] e inflazione [*15]. E a causa del crollo delle torri del debito sia in patria che all'estero, la Cina sembra che sia entrata in declino ancor prima di aver raggiunto l'egemonia. A tutto questo va sommato anche il raggiungimento del limite ecologico del capitale, se lo si considera a partire dal fatto che, nel corso della sua modernizzazione statal-capitalista, la Repubblica Popolare, è diventata il maggior produttore di gas serra.
E se si considera la minaccia di una catastrofe climatica, ecco che un simile percorso di sviluppo per gli altri paesi del sud globale diventa una vera e propria follia ecologica (mentre allo stesso tempo mostra quanto sia paradossale che il centro predichi al Sud globale la rinuncia). Im tal modo, il ciclo storico egemonico del sistema capitalista globale si sovrappone e si somma al processo di crisi socio-ecologica del capitale, interagendo con esso e consentendo che, per la Cina, si mescoli e si confonda l'ascesa e la caduta egemonica. A causa delle barriere interne ed esterne sempre più manifeste del capitale, dovute alla doppia crisi economica ed ecologica, un sistema egemonico, nel quale la posizione dell'egemone verrebbe solo tollerata, non è più realizzabile. Nell'attuale fase di crisi, in cui lo storico movimento espansionistico del capitale si è trasformato in una contrazione che lascia dietro di sé solo degli Stati falliti, l'Imperialismo si limita a essere solo isolamento e puro e semplice estrattivismo delle risorse. L'isolamento di quelle aree di collasso socio-economico, che non svolgono più alcun ruolo di mercato, va di pari passo con la lotta brutale tra vari Paesi, per le materie prime e le fonti energetiche in via di esaurimento, necessarie per alimentare la macchina della valorizzazione [*16]. In tal senso, è in atto una chiara tendenza storica. Al posto della continua ricerca del controllo diretto delle colonie e dei protettorati, nel XIX secolo all'epoca dell'egemonia britannica, nel XX secolo è poi subentrato l'imperialismo informale, praticato da Washington attraverso i colpi di Stato e l'installazione di regimi dipendenti. Ora, nella fase finale del sistema mondiale capitalista, il dominio imperialista sembra equivalere alla mera manutenzione delle vie di estrazione infrastrutturali, usandole per trasportare risorse e fonti energetiche, dalle aree di collasso economico ed ecologico ai centri rimasti. In tal modo, quel che vediamo in atto, nell'attuale imperialismo di crisi, è una logica di «Last Man Standing» - [«Ne rimarrà solo uno!»] - nella quale le conseguenze della crisi vengono scaricate sulla concorrenza [*17].
Queste lotte di potere tra soggetti statali, arrivate ormai al punto di una vera e propria guerra aperta, stanno spingendo sempre più avanti il processo di crisi che va avanti a prescindere. Si tratta di una lotta geopolitica per il potere che si svolge sul Titanic di un tardo capitalismo che sta affondando, nella quale di fatto non ci sono vincitori. Ecco perché tutte le apparenti alleanze sono così tanto fragili; come abbiamo visto recentemente nelle manovre attuate dall'Unione Europea per prendere le distanze dagli Stati Uniti riguardo la questione di Taiwan [*18]. E tuttavia, sullo sfondo della crisi socio-ecologica, la lotta tra l'Eurasia russo-cinese e l'Oceania degli Stati Uniti - dove l'Ucraina e Taiwan costituiscono un acuto e potenziale punto di infiammabilità - può certamente essere intesa anche come una lotta tra il futuro e il passato. Rappresenta una lotta tra l'era declinante della governance neoliberale e l'era emergente del governo apertamente autoritario [*19], in cui interagiscono strutture autoritarie e disintegrazione sociale, come lo si può quasi paradigmaticamente vedere nell'oligarchia statale russa e nel dominio mafioso [*20]. La crisi sta letteralmente spingendo i colossi statali tardo-capitalisti in erosione a confrontarsi tra di loro, in modo che lo scatenarsi di una guerra su larga scala, a partire da quelle che sono le crescenti tendenze autodistruttive del capitale diventa abbastanza possibile.
- Tomasz Konicz - 12/6/2023 - Pubblicato su Exit! -
NOTE:
[1] https://www.n-tv.de/politik/Xi-und-Putin-wollen-gerechtere-Weltordnung-article23996962.html
[2] https://www.aljazeera.com/news/2023/3/14/russia-china-creating-world-of-danger-disorder-division-uk
[3] https://www.globaltimes.cn/page/202212/1281416.shtml
[5] https://www.globaltimes.cn/page/202303/1288326.shtml
[6] https://www.aa.com.tr/en/energy/invesments/pakistan-china-agree-to-trade-in-yuan/22190
[7] https://www.aa.com.tr/en/energyterminal/finance/venezuela-opts-to-use-chinese-yuan-for-oil-trade/763
[8] https://www.ft.com/content/02d6ab99-ea36-41c4-9ad3-9658bb1894a7
[9] https://exitinenglish.com/2023/06/09/silicon-valley-bank-the-weakest-link/
[10] http://fingfx.thomsonreuters.com/gfx/rngs/CHINA-DEBT-HOUSEHOLD/010030H712Q/index.html
[11] https://www.konicz.info/2021/11/27/einstuerzende-neubauten/
[12] https://www.ft.com/content/ccbe2b80-0c3e-4d58-a182-8728b443df9a
[13] https://exitinenglish.com/2023/03/05/china-multiple-crises-instead-of-hegemony/
[16] https://www.konicz.info/2021/10/14/ddr-minus-sozialismus/
[17] https://www.konicz.info/2022/06/23/was-ist-krisenimperialismus/
[18] https://www.nbcnews.com/news/world/macron-europe-china-taiwan-usa-outrage-rcna79090
[19] https://exitinenglish.com/2022/08/12/a-new-quality-of-crisis/
[20] https://www.konicz.info/2022/05/25/rackets-und-rockets/
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