« Qualsiasi posto è buono per mettere in moto la fantasia, purché si trovi in un angolo oscuro e l’orizzonte sia vasto.» Victor Hugo
Dagli attici alle torri medievali, dalle sale da biliardo alle vasche da bagno, dalle stanze d’albergo alle isole private, esploriamo i luoghi dove cinquanta grandi autori hanno amato scrivere. Queste « stanze tutte per sé », per riprendere la famosa espressione di Virginia Woolf, ci invitano a sbirciare dietro le quinte, svelandoci i metodi di lavoro e le curiose manie di scrittori come Jane Austen, le sorelle Brontë, Agatha Christie, Paolo Cognetti, Ernest Hemingway, Umberto Eco, Jack London, Haruki Murakami, Marcel Proust, J.K. Rowling, Virginia Woolf…
(dal risvolto di copertina di: Una stanza tutta per sé. Dove scrivono i grandi scrittori, di Alex Jonhson. L’ippocampo, pagg. 192, € 19)
Gradirei un rospo sulla scrivania
- di Giuseppe Scaraffia -
Non di rado gli scrittori tengono sulla scrivania non, come Sigmund Freud, preziosi reperti archeologici, ma oggetti di pessimo gusto. A vizi, abitudini e feticci degli scrittori Alex Johnson ha dedicato questo gradevole libro. Gustave Flaubert usava un calamaio a forma di rospo. André Breton era disgustato dal «tremendo» calamaio dorato di Guillaume Apollinaire, che riproduceva la basilica del Sacré-Coeur. Claude LéviStrauss teneva sulla scrivania una dea Kali da bancarella. Ma a volte la tribù degli oggetti rischia di invadere tutta la superficie. «Come molte persone che lavorano nello stesso posto per un certo tempo, ho sempre tenuto sul mio tavolo dei piccoli oggetti, che lo ingombrano molto. C’era un lungo portapenne di lacca in forma di piroga pieno di pennellini e di stilografiche defunte; una scatola di legno contenente graffette ed elastici; un’altra di latta, con gli spilli; un sottobottiglia contenente ogni sorta di cose indispensabili e inutili, dalla carta smerigliata a una serie di piccoli cacciaviti; poi un fermacarte che si diceva appartenuto a Warren Hastings, governatore in India nel Settecento; una piccola pelle di foca e un piccolo coccodrillo di cuoio facevano il medesimo ufficio su altre carte. Un regalo macchiato di inchiostro e un re dei nettapenne, di cui mi faceva dono ogni anno una cameriera da noi molto amata, completavano il grosso della truppa di questi piccoli feticci».
Sul tavolo di Karen Blixen, tra vari oggetti di origine africana, emergeva una bambola nera con un gonnellino di paglia e una cavigliera. La stilografica di Winston Churchill, marca Onoto, assomigliava curiosamente ai sigari dell’autore. Colette preferiva le Parker Mandarin gialle. Arthur Conan Doyle prediligeva per le sue inchieste le monumentali Parker Duofold arancioni. Albert Einstein, sempre relativista, si divideva tra le verdi Pelikan 100N e le Waterman TaperCap nero e oro. Saint-Exupéry, come Dylan Thomas, era inseparabile dalla sua Parker 51 dalla linea modernista. Hemingway alternava alla Montegrappa, un nome che gli ricordava la Prima guerra mondiale, la macchina da scrivere Royal. Stephen King traduceva l’orrore con un’impiegatizia Waterman Hemisphere. Gli opposti Albert Camus e Céline erano uniti dall’uso delle Parker Vacumatic. Una preoccupazione costante di chi scrive è tenere lontani i disturbatori. Da Balzac si poteva entrare solo con una serie di parole d’ordine. Chi suonava il campanello di Apollinaire sentiva il fruscio dei passi cauti, con cui il poeta s’avvicinava a un buco del muro, per spiare il visitatore. Salinger, sempre in fuga da ogni presenza umana, poteva eclissarsi nello studio, isolato dalla casa, per settimane. Per evitare intrusioni dei familiari aveva scritto in un cartello «bussare alla porta solo in caso di incendio». Chi voleva fare visita a Proust doveva prendere un appuntamento in imprevedibili orari e farsi annusare da una cameriera che si accertava che il visitatore non fosse profumato; l’asma del padrone di casa non sopportava gli aromi.
Chi s’immaginasse imponenti scrivanie rischierebbe di sbagliarsi. Balzac, così attento all’arredamento, usava un tavolo modesto. Charles Bukowski sedeva su una malconcia sedia pieghevole di legno davanti un tavolino di formica dominato da una grossa abat-jour. Non pochi, oltre a Proust, scrivevano sdraiati. «La poesia si fa a letto, come l’amore», proclamava André Breton. «Sono un autore totalmente orizzontale. Posso pensare solo allungato, con una sigaretta e un caffè a portata di mano», confessava Truman Capote, senza specificare che dopo il caffè si passava allo Sherry e ai Martini. Se Somerset Maugham e Ian Fleming avevano fatto chiudere le finestre panoramiche dei loro studi per non farsi distrarre, Gertrude Stein amava farsi ispirare dalle mucche che raggiungeva in macchina nella campagna francese. Ogni volta scriveva per un quarto d’ora, seduta su una sedia pieghevole. Se la mucca si muoveva, la compagna della scrittrice, Alice Toklas, la convinceva con un bastone a spostarsi nel punto migliore per Gertrude.
L’introduzione della macchina da scrivere aveva influenzato profondamente gli scrittori anche se all’inizio molti, come Mark Twain, si limitavano a passare a una dattilografa i loro manoscritti. Dorothy Parker, dopo essersi comprata una lussuosa Remington, continuava a scrivere a mano. P. G. Wodehouse seguiva un rituale particolare: «Mi siedo alla macchina da scrivere e lancio delle imprecazioni». T. S. Eliot lavorava su una Smith Corona, ma non ne era del tutto convinto: «Favorisce la chiarezza, ma non sono sicuro che giovi alla sottigliezza». W. H. Auden la usava solo per la versione definitiva, anche se aborriva quelle righe di parole «impersonali e orribili da vedere». Dopo un tentativo fallito, Graham Greene aveva fatto marcia indietro: «Le mie due dita su una macchina da scrivere non si sono mai collegate al mio cervello. La mia mano su una penna invece sì. Una penna stilografica, ovviamente. Le penne a sfera vanno bene solo per compilare moduli in aereo». Anthony Burgess aveva dedicato alla sua macchina l’Omaggio alla Qwert Yuiop, in cui esprimeva la sua gratitudine per lei. Già allora si diceva della macchina da scrivere quello che oggi viene detto del computer, che chi la usava ne diventava schiavo e la sua prosa diventava scadente. Le acrobazie di 007 erano nate sull’Imperial su cui Ian Fleming batteva con sei dita. Orson Welles era morto a notte fonda, con la macchina da scrivere sulle ginocchia.
- Giuseppe Scaraffia - Pubblicato su Domenica del 26/3/2023 -
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