Disconnessione
- di Ernst Lohoff -
La critica del capitalismo è ovunque. Un anticapitalismo radicale ed emancipatore deve liberarsi dalla megalomania del soggetto rivoluzionario, e smascherare come superfluo il sistema stesso, il quale dichiara superflue le persone e i loro bisogni. L'attuale fase dello sviluppo capitalistico è fondamentalmente diversa dalle precedenti. Fin dai tempi della Rivoluzione industriale, il progredire e lo sviluppo dei principi formali della società della merce - lavoro, diritto e politica - ha funzionato come un processo di integrazione repressiva. Oggi, invece, il loro dominio equivale a quello di una desocializzazione repressiva. Alla periferia del mercato mondiale, la prospettiva di formare economie nazionali funzionanti, e includere la maggioranza della popolazione nella moderna società del lavoro, è definitivamente sparita. Anche con un modello di presunto successo come quello della Cina, in quello che è un mercato globale, lo sviluppo capitalistico porta solo alla formazione di isole minoritarie circondate da un oceano di miseria di massa. Tuttavia, anche nei centri del mercato mondiale, il sistema di valorizzazione contribuisce sempre meno al mantenimento della riproduzione sociale, dal quale è esso stesso diventato dipendente. Non solo ci sono sempre più persone che vengono scartate come inutilizzabili; ma sono in discussione anche l'istruzione gratuita, l'assistenza medica a prescindere dal reddito, una rete completa di trasporti pubblici e, insieme a queste, anche altre parti dell'infrastruttura pubblica. Senza il degrado delle persone ad appendici della macchina di valorizzazione, e senza l'adattamento dei bisogni, non c'è alcun capitalismo. L'attuale capitalismo globale si distingue dalle precedenti fasi di sviluppo nella misura in cui, allo sfruttamento e all'adattamento, si sovrappone oggi un trauma storicamente nuovo. Il premio che viene concesso ai servi del capitale, per l'obbedienza ai principi formali della società delle merci - lavoro, diritto e politica - prevede che essi, così come i loro rispettivi bisogni collettivi, perfino in quella che è la loro forma più depotenziata, vengono progressivamente sempre più abbandonati in quanto irrilevanti. Il paradigma dello sfruttamento viene pertanto sostituito attraversi una nuova esperienza primordiale: il trauma di essere delle persone superflue - dal punto di vista capitalistico - che hanno delle istanze superflue. Il futuro dei diversi settori sociali dipende, in maniera decisiva dal modo in cui tali persone superflue riusciranno a uscire da questo trauma. È possibile che esso diventi il punto di partenza di un nuovo anticapitalismo, e che a tale scopo è necessario? La risposta dipende da come definiamo l'anticapitalismo. Per quelli che non pensano solo in base a dei concetti emancipatori, non c'è più alcun bisogno di dover aspettare la rinascita dell'anticapitalismo: è già qui. Di fronte alla devastazione causata dal mercato totale, ora il pendolo ideologico oscilla nella direzione opposta. Che si tratti del regime clientelare di sinistra di Hugo Chávez, o del transnazionalismo islamico, oppure del nazismo trasversale (Querfront) o dei cacciatori di locuste socialdemocratici, oggi "in qualche modo", tutti criticano il capitalismo. Recentemente, persino il Time ha diagnosticato un imminente «fallimento del mercato» globale. Per contro, l'idea di una rottura cosciente con la logica capitalista, e l'obiettivo di una «libera associazione di produttori» a livello mondiale (Marx) sono invece del tutto fuori questione. Oggi più che mai, ciascuno di essi viene considerato assurdo e irragionevole e, di fatto, anche la sinistra radicale ha accantonato l'idea di una trasformazione emancipatrice. Una delle ragioni del fallimento dell'anticapitalismo radicale risiede nella sua propria immagine superata che ha di sé stesso, e che gli impedisce di assumere una posizione circa quello che è il trauma primordiale (Ur-Trauma) della nostra epoca. Le grandi correnti anticapitaliste del passato erano nate a partire da una sensazione di forza, vale a dire, della propria forza all'interno di un contesto emergente di capitalismo.
Il movimento operaio classico è stato il primo ad aver formulato una tale rappresentazione di sé. Allora, anticapitalismo significava inculcare nelle masse lavoratrici che esse - in quanto «creatrici di tutti i valori», erano state chiamate a ricreare il mondo a propria immagine e a riempire di un contenuto umanitario la politica, il lavoro e il diritto. Più tardi, il posto del proletariato industriale è stato poi preso da altri «soggetti rivoluzionari». Il modello di base è stato riprodotto in maniera persistente e continua. La fonte dell'autocoscienza anticapitalista, ha continuato a essere la convinzione che esso rappresentasse le forze sociali che contano, e questo lo faceva anche per tenere insieme il nucleo della società capitalista basata sulle forme fondamentali del valore, del lavoro, del diritto e della politica. Questa esaltazione, che i movimenti di emancipazione del passato facevano di sé stessi, li ha aiutati nello sfruttare un margine di manovra a disposizione in quella che era un'epoca di integrazione repressiva. Tuttavia, in quelle condizioni di «desocializzazione repressiva» la prassi di invocare, sul terreno del lavoro e della politica, la propria forza entra in cortocircuito, e lo fa con conseguenze disastrose. Delle due l'una: o gli anticapitalisti cadono nella disperazione a causa dell'immutabilità delle condizioni, oppure perdono il senso della realtà. E in questo contesto "retrò", è accaduto spesso che, su "Jungle World", varie posizioni neo-operaiste venissero fortemente criticate, giudicate come teoricamente insoddisfacenti. Ma per quanto questo fosse giustificato,alla luce dei concetti alternativi presentati, è apparso anche insoddisfacente. Il concetto di «moltitudine» di Hardt e Negri, la cui produttività illimitata, per inciso, rappresenterebbe già il comunismo, e che sarebbe soggetta solo al potere parassitario esterno dell'«Impero», non fa altro che rappresentare, stavolta in modo allucinato, quella che era la stessa forza che le correnti emancipatrici immanenti alla forma hanno perso. Ciò che, nelle condizioni attuali, significa sottomissione agli imperativi del lavoro e della politica, scompare dietro quelle che sono solo delle illusioni di grandezza. Ma il post-operaismo non è stato affatto l'unico a eliminare l'esperienza dell'impotenza. Con mezzi un po' diversi e con approcci concorrenti, ci sono altri che si impegnano nella medesima operazione. Soprattutto, si tratta di posizioni che non si peritano di riconoscere empiricamente la debolezza delle forze emancipatrici, spiegandole come il risultato di rapporti di forza sociali più o meno fortuiti, finendo per trattarle come reversibili sul terreno del lavoro e del valore. Le lotte distributive tra i soggetti concorrenti della merce, formano una sfera neutra nella quale viene presunto che, facendo i giusti sforzi, tutto possa accadere. Alla luce della svalorizzazione strutturale della merce forza lavoro, in seguito alla rivoluzione microelettronica, ora a essere il problema è già il campo di battaglia stesso, e non solo la posizione nel conflitto. Lo stesso dilemma si pone anche per quanto attiene al rapporto positivo con la politica, con l'equilibrio degli interessi generali della società della merce. Nella fase attuale del capitalismo, coloro che, come anticapitalisti, accettano la creazione di un interesse generale basato sul lavoro, sul valore, ecc. visto come orientamento indiscutibile, cercano di trasformare nel suo opposto quello che è un interesse escludente e pacificatore.
Nel dibattito di sinistra, il peggioramento delle disuguaglianze sociali, osservato negli ultimi decenni, viene facilmente inteso come un'intensificazione del «conflitto di classe». Questa interpretazione pretende di enfatizzare il carattere antagonista delle attuali contraddizioni sociali. Ma a un esame più attento, però, vediamo che la fuga dall'attuale costellazione storica è già iniziata con il ricorso alla categoria di classe. Quando si elimina l'esuberanza romantico-rivoluzionaria, e si riduce il concetto di classe al suo nucleo analitico, ecco che vediamo che l'opposizione di classe non è altro che una contrapposizione tra diverse categorie di proprietari di merci. Intendere "borghesia" e "precariato" come classi, significa equiparare il loro conflitto alla contrapposizione tra capitale e lavoro nella fase ascendente della società delle merci, e quindi attribuirgli un carattere simmetrico. Il conflitto di classe appare come una disputa tra avversari i quali, quanto meno in linea di principio, sarebbero cresciuti insieme nel campo del valore, della politica e del lavoro.
Ma l'emergere di un precariato, tuttavia, non rimanda alla formazione di classi - come suggerisce l'uso improprio del concetto di classe - ma è espressione di quelli che sono dei processi di declassificazione. Per quanto la società escludente incontra una resistenza, il conflitto mantiene un carattere asimmetrico. Per pensare in termini resistenza,però, bisogna che gli anticapitalisti smettano di dissimulare il trauma originario della nostra epoca. Diversamente, devono rendere possibile una reazione altrettanto logica e radicale: devono dichiarare superfluo il sistema che dichiara superflue le persone e i bisogni. Se la valorizzazione del valore disconnette la sua riproduzione dalla riproduzione sociale,ecco che allora l'unica via d'uscita emancipatrice rimane quella di disconnettere la riproduzione sociale dalla valorizzazione del valore.
- Ernst Lohoff - Pubblicato su Jungle World n°48 del 2007 - fonte: Arlindenor Pedro
1 commento:
Una ventata di aria fresca, in questo clima politico soffocante, fà proprio bene. Grazie Franco
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