« Leggere romanzi.
Non tutti i libri si leggono allo stesso modo. I romanzi, ad esempio, sono fatti per essere divorati. Leggerli ha a che fare con la voluttà del fagocitamento. Non si tratta di immedesimazione. Il lettore non si mette al posto del protagonista, ma piuttosto fagocita ciò che a questi accade. La narrazione perspicua equivale alla presentazione invitante con cui un piatto nutriente viene portato in tavola. Ora, esiste un’alimentazione a base di vegetali crudi per l’esperienza come ne esiste una per lo stomaco, ossia: le esperienze fatte sulla propria pelle. Ma, come l’arte culinaria, anche l’arte del romanzo comincia solo al di là del prodotto crudo. E quante non sono le sostanze nutrienti che allo stato crudo risultano indigeste! Quante le esperienze delle quali è consigliabile leggere, ma non farle. Giovano a molti che sarebbero annientati se dovessero imbattervisi in natura. In breve, se esiste una musa del romanzo (la decima), essa reca le insegne della fata di cucina. Solleva il mondo dal suo stato crudo per formarne quanto è commestibile e estrarne il gusto. Se proprio non se ne sa fare a meno, mangiando si può leggere il giornale. Mai un romanzo. Si tratta di incombenze tra loro inconciliabili. »
Walter Benjamin, da “Opere complete - Scritti 1932-1933" «Piccoli pezzi d'arte»
In questo frammento (rimasto inedito quand'era in vita) intitolato "Leggere romanzi", scritto intorno al 1933, Walter Benjamin sottolinea come i romanzi debbano essere «divorati», dal momento che si tratta di un piacere che dev'essere consumato: bisogna che il lettore assorba ciò che accade. È a questo punto che Benjamin arriva a enunciare uno dei suoi tipici aforismi: «L'arte del romanzo, come l'arte della cucina, inizia nel momento in cui finisce la materia prima». Nel caso del romanzo, la «materia prima» è l'esperienza diretta; ossia, quello che la letteratura utilizza, trasforma, trascende. Se esiste una Musa del romanzo - continua Benjamin - allora si deve per forza trattare di una sorta di ... Küchenfee, una specie di «fata della cucina», la quale interviene su quella materia prima che è il mondo e la trasforma poi in qualcosa, e lo fa «con gusto», lo fa conferendogli un «sapore»: creare un romanzo equivale a creare un piatto; comporta che ci siano processi, fasi di cottura, condimenti.
Per Benjamin, il romanzo è sempre l'esperienza che viene fatta da un altro, che viene tradotta in un linguaggio complesso ed è mediata dalla concatenazione di strutture formali. È per questo che significa altro rispetto a un'opera teatrale o rispetto alla lettura di una poesia, le cui istanze estetiche, per verificarsi, dipendono da un'esperienza esistenziale (trovarsi davanti al palcoscenico; sentire in sé una meticolosa articolazione tra metrica, ritmo, rima). L'esperienza del romanzo, vista nel suo insieme - in quanto struttura complessa che si mostra nella sua interezza solo alla fine - è costituita dalla costruzione esistenziale del protagonista del romanzo, senza però che questo protagonista si trovi mai a essere del tutto sovrapposto al romanzo. Da ciò deriva l'ineludibile differenza tra romanzo e forme orali, tra il romanzo come genere (e come forma) e la narrazione come forza, potenza o virtualità (è questo ciò che Benjamin, ad esempio, cerca di rintracciare in Nikolai Leskov, nel saggio sul "narratore").
Benjamin non si dedica al romanzo con la stessa foga che riserva alla poesia, perché il romanzo è una forma che non consente la ripetizione, non permette la ripresa infinita (tipica del racconto orale, del bambino che chiede alla madre: «ancora»), non permette nemmeno il riassunto - perché il romanzo rende sempre impossibile il tentativo di schematizzare. In questo senso, il romanzo non può esistere al di là della sua «fine» che viene inscritta nell'ultima pagina, quasi come una lapide (la morte si trova a essere strutturalmente inscritta nel romanzo; ed è questo il motivo per cui Benjamin evita tale forma d'arte, e il motivo - se vogliamo - può essere letto tra le righe di un suo famoso aforisma, in "Immagini del pensiero": «ogni opera è [soltanto] la maschera mortuaria della sua concezione».
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