Criticare non è calunniare
- Hannah Arendt non è una pensatrice di sinistra -
di Benoît Basse, Livia Profeti e François Lecoutre -
Il 7 aprile 2023, Emmanuel Faye pubblica su L'Humanité un articolo dal titolo "Hannah Arendt, une philosophe de gauche?" Tre mesi dopo, tre donne arendtiane - Martine Leibovici, Aurore Mréjen e Carole Widmaier - pubblicano sulla rivista Philosophie del 13 luglio una risposta polemica dal titolo «"Arendt è una filosofa di sinistra?" Emmanuel Faye, ovvero, la grande ondata della calunnia». Nel denunciare con sdegno Emmanuel Faye, accusandolo di «calunnia» e «malafede», le tre autrici non si curano minimamente di ricordare ai propri lettori che se Faye «pretende di fondare la sua posizione sul fatto di aver ragione», lo fa proprio perché è da diversi decenni che porta avanti le sue ricerche su Hannah Arendt, concretizzate nel suo libro "Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée" (Albin Michel, 2016). In questo suo rigoroso lavoro, la concezione che ha Arendt del totalitarismo nazista viene analizzata per la prima volta alla luce della sua relazione intellettuale con Martin Heidegger. Ed è a partire da questa che Faye riesce a dimostrare come, da un punto di vista teorico, la Arendt sia molto più vicina al suo ex maestro e amante - il primo Rettore-Führer del Terzo Reich - di quanto generalmente si ammetta. In tal modo, chiarisce anche alcuni problemi prima insolubili, come quello relativo al «ritrovarsi», tra Arendt e Heidegger, a Friburgo nel 1950, dopo diciassette anni di separazione e di silenzio. Fino a oggi, questo re-incontro era sempre stato descritto come una sorta di «romanzo d'amore». Invece, Faye mette in luce quale sia stata la vera ragione di questa nuova alleanza postbellica tra i due pensatori: l'adesione, senza alcuna riserva, da parte di Arendt, al progetto di «far esplodere il castello della cultura occidentale»; progetto che lei aveva individuato nella famosa "Lettera sull'umanesimo" di Heidegger, e della quale era venuta a conoscenza un anno prima del loro ricongiungimento. Possiamo capire quanto possa essere sconvolgente il risultato di questo immenso lavoro, dal momento che mette in discussione la figura iconica di Arendt, così come è stata costruita dalla cultura postmoderna di sinistra; la quale si è appropriata di molti concetti provenienti dalla Arendt, in particolare quelli di «pluralità» e «natalità». A tal proposito, va detto che spesso la «natalità» arendtiana viene spesso erroneamente contrapposta all'«essere-per-la-morte» di Heidegger. In realtà, non esiste un'opposizione fondamentale tra Arendt e Heidegger sulla realtà umana, nella misura in cui la concezione arendtiana della natalità deriva da quella dell'«essere-per-la-morte» di Heidegger. In realtà, tra Arendt e Heidegger non esiste alcuna opposizione di fondo sul tema della realtà umana; nella misura in cui la concezione arendtiana della «natalità» deriva da quella heideggeriana dell'«essere-gettato». A partire dalla sua tesi di dottorato su "Il concetto di amore in Agostino", Arendt delinea a suo modo la radicale disuguaglianza tra gli esseri umani, e che si trova celata nella concezione esistenziale heideggeriana dell'«essere-nel-mondo».
Ne "Le origini del totalitarismo", leggiamo: «Non si nasce eguali; si diventa eguali». Questa presunta disuguaglianza tra i singoli esseri umani viene persino definita, nei suoi diari, come una «diversità originaria» (agosto 1950). Un'uguaglianza relativa, che riguarda l'intera umanità in sé, sarebbe stata raggiunta solamente come conseguenza della cosiddetta «seconda nascita». Sulla base di una distinzione tra bios e zoe - ripresa da Heidegger - l'autrice concede un'umanità pienamente realizzata solo a dei gruppi limitati di persone che agiscono insieme nel contesto di un medesima comunità politica, in virtù della loro «decisione» di garantirsi vicendevolmente uguali diritti. Per la Arendt, tuttavia, non esiste uguaglianza tra le diverse comunità, dal momento che esse provengono dall'originaria differenza degli individui: «gli uomini sono ineguali», scrive, «per la loro origine naturale, per la differente organizzazione, per il loro destino storico» ("Le origini del totalitarismo"). È su questa base ontologica che Arendt arriva a criticare la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789", la quale riconosceva a tutti pari dignità a partire unicamente dal criterio della nascita. In una lettera del 1964, all'amica Mary McCarthy, scriveva a proposito dell'uguaglianza: «Il vizio principale di ogni società egualitaria è l'invidia (...). E la grande virtù di tutte le aristocrazie, mi sembra, si trova nel fatto che le persone sanno sempre chi sono, e quindi non si paragonano con gli altri. È proprio questo confronto permanente che costituisce davvero la quintessenza della volgarità.» Questa spiegazione - la quale dovrebbe lasciare stupito chiunque ritenga "di sinistra" il pensiero della Arendt, è in realtà perfettamente coerente con la sua concezione della «pluralità», incentrata com'è sul concetto di disuguaglianza. Ed è merito del lavoro di Faye l'aver mostrato il modo in cui la Arendt - riducendo la vita lavorativa a una vita animale che procederebbe dalla zoe - disumanizzava i lavoratori, limitando a pochi eletti l'umanità vera e propria. Certo, alla fine, le tre autrici dell'articolo concedono che «la concezione strettamente politica dell'uguaglianza che sostiene [Arendt], così come la distinzione che lei traccia tra la sfera sociale e quella politica, devono essere messe entrambe in discussione». Ma il nocciolo del problema risiede proprio in questi punti. Non è forse una delle caratteristiche più evidenti della sinistra - a prescindere dalle sue diverse componenti - ritenere che sia compito della politica farsi carico, in un modo o nell'altro, di alcuni problemi sociali? La Arendt non solo esclude una tale prospettiva, ma la critica esplicitamente in tutta la sua opera. Ciò è dimostrato,in particolare, dal suo elogio della Rivoluzione americana, la quale, a differenza di quella francese (descritta come un «disastro»), avrebbe avuto il grande merito di limitarsi a fondare la libertà politica, senza pretendere di risolvere i problemi "sociali" (povertà, schiavitù).
Ed è sempre questo ciò che si palesa, in maniera ancora più evidente, anche nelle posizioni assunte dall'autrice sulla «questione nera» e la segregazione negli Stati Uniti; tutte cose queste - che sia chiaro - destinate a scioccare un pubblico di lettori di sinistra. A tal proposito, vale la pena sottolineare come le autrici si guardano bene dal citare la traduzione del testo di Kathryn Belle, "Hannah Arendt et la question noire", pubblicato lo scorso aprile. In questo libro, l'autrice mostra in maniera implacabile come, a causa della sua concezione strettamente politica dell'uguaglianza - così come a partire dalla separazione tra sfera politica e sociale che tale concezione implica - la Arendt sia stata portata a criticare aspramente la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1954, che ordinava la fine della segregazione razziale nelle scuole pubbliche. In realtà, la Arendt non ha mai smesso di denunciare, come una disastrosa mescolanza di generi, qualsiasi tentativo di introdurre, con dei mezzi politici, l'uguaglianza nella sfera sociale. Inoltre, ebbe a dichiarare che «ciò che l'uguaglianza rappresenta per il corpo politico - il suo principio profondo - la discriminazione lo è per la società» ovvero che «la discriminazione costituisce un diritto sociale, altrettanto indispensabile dell'uguaglianza in quanto diritto politico». Da qui, il sostegno da lei dato ai bianchi razzisti dell'epoca, ritenendo che - in nome della libertà di associazione che doveva prevalere nella sfera sociale - i genitori bianchi avessero tutto il diritto di rifiutare ai loro figli di frequentare le stesse scuole dei bambini neri.
Da ultimo, appare deplorevole che le autrici di questo articolo accusino Emmanuel Faye di essere in «malafede» e di fare ricorso alla «calunnia», in particolare quando egli si riferisce al fatto che Arendt abbia pubblicato, nel 1962, "Mélanges en l'honneur d'Eric Voegelin", nel quale aveva effettivamente accolto un contributo di Armin Mohler, mentore della Nuova Destra dopo il 1945 e noto per aver tentato di entrare nelle Waffen-SS nel 1942. Poiché, in tal caso, non si tratta nemmeno di un «sofisma» o di un «insinuante avvicinamento», visto che fu proprio Armin Mohler che, a partire dalla propria tesi su "La rivoluzione conservatrice in Germania" (1950), diffuse il mito della «rivoluzione conservatrice» - vista come distinta dal nazismo - che gli permise di sdoganare autori nazionalsocialisti come Heidegger e Schmitt, facendolo esattamente nello stesso spirito della Arendt. Ed Emmanuel Faye avrebbe potuto citare anche un altro evento molto suggestivo: l'elogio che Arendt fece del libro di Eric Voegelin, "Razza e Stato", da lei presentato come «la migliore esposizione storica della nozione di razza svolta nello spirito di una "storia delle idee"». Si scoprirà poi che questo libro, pubblicato nella Germania nazista nel 1933, esponeva una concezione metafisica della razza basata positivamente sul pensiero razziale degli autori nazisti. Possiamo davvero credere che Arendt abbia trascurato in buona fede il carattere «filonazista» di questo libro, che era stato chiaramente percepito come tale da di professori universitari nazionalsocialisti come Alfred Baeumler ed Ernst Krieck? Comunque sia, appare discutibile ridurre - come fanno le autrici di questo articolo - la relazione intellettuale tra la Arendt e il filosofo conservatore Eric Voegelin , semplicemente a dei «profondi disaccordi filosofici». Lo spirito di approfondimento e di serietà, dimostrato da Emmanuel Faye nel suo lavoro accademico, avrebbe indubbiamente meritato un trattamento equivalente da parte delle sue avversarie che, accusandolo di «calunnia», attaccano così facendo la sua integrità di ricercatore. Questo atteggiamento polemico personale nei confronti di Emmanuel Faye, in un momento in cui sono appena stati pubblicati due lavori critici su Arendt - il già citato lavoro di Kathryn Belle e "Hannah Arendt et la question juive" di Michel Dreyfus - può essere a ragione visto come una strategia diversiva. Inoltre, contrariamente a quanto affermato nell'articolo, Emmanuel Faye non sostiene affatto che si debba rinunciare a leggere Arendt. Al contrario, è giunto proprio adesso il momento di smettere di immunizzare il suo pensiero contro ogni critica. Certo, ognuno resta libero di discutere le argomentazioni di un ricercatore - in questo caso di fama internazionale - ma il ricorso all'accusa di «calunnia» è indegna di un dibattito intellettuale, e nasconde malamente quella che è solo una forma di panico e di irritazione a fronte della prospettiva, in seno alla sinistra francese, di una desacralizzazione di Arendt. Tuttavia, alla luce degli elementi che abbiamo qui illustrato, sembra legittimo chiedersi se la sua teoria politica sia davvero in grado di ispirare la sinistra, per la quale la trasformazione sociale ha sempre costituito una funzione essenziale dell'azione politica.
- Benoît Basse, Livia Profeti e François Lecoutre - Pubblicato il 21/7/2023 su L'Humanité -
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