Negli anni 1960-70, molti teorici hanno cercato di spiegare lo "sfruttamento" - da parte del centro del capitalismo nei confronti della periferia - mescolando insieme diverse matrici teoriche. Nel momento in cui il marxismo stava vivendo un nuovo momento di euforia, le categorie del Capitale di Marx venivano mescolate e fuse in un amalgama che comprendeva le teorie borghesi della modernizzazione, le interpretazioni del sottosviluppo e il terzomondismo. Come conseguenza di un simile eclettismo, non proprio rigoroso, saltavano subito agli occhi due problemi. Il primo, consisteva nell'incapacità di considerare la dinamica capitalistica come un processo storico; cosa che, pertanto, provocava una certa insistenza nel voler far passare quelle che erano solo delle caratteristiche di fasi storiche ormai superate, come se fossero invece degli elementi sempre presenti nelle relazioni internazionali. In un momento in cui l'espansione capitalistica del dopoguerra stava dando forma a un mercato globale, le teorie erano rimaste ancora ferme a quelle che erano state le formulazioni risalenti all'epoca imperialista classica che parlavano di "economia nazionale"; quando non arrivavano addirittura a trattare "l'accumulazione primitiva" come se fosse una caratteristica strutturale. In tal modo, il tema del "super-sfruttamento del lavoro", ad esempio, anziché essere letto come il risultato della crescente esclusione che si produceva all'interno del mercato mondiale a partire dalle dinamiche produttive avanzate, veniva invece visto nella prospettiva di un persistere delle relazioni sociali precedenti. Il secondo problema era che la teoria del valore di Marx veniva sacrificata sull'altare dell'amalgama teorico (fino a oggi battezzato col nome di "privilegio del punto di vista periferico"), e tutte quelle che erano state finora le sue fondamentali connessioni sono state completamente distorte. L'argomentazione centrale di Marx - secondo la quale il potenziamento e la crescita della composizione organica avrebbe portato a un aumento della produttività, e alla conseguente vittoria nella concorrenza generalizzata; ma lo avrebbe fatto al prezzo della riduzione relativa, e progressivamente assoluta, del valore prodotto, con la conseguente esclusione di tutti coloro che "sono rimasti indietro" - è stata completamente rovesciata.
Nella teoria, la tesi secondo cui ci sarebbe stato un "trasferimento di valore" dalla periferia al centro, è diventata moneta comune, dimostrando così di ignorare proprio quelli che erano i principi più elementari della teoria del valore di Marx; dimenticando come le dinamiche che essa svelava indicassero un processo di crisi e di crescente esclusione sociale. Il testo di Norbert Trenkle qui di seguito, pubblicato nel 1996, presenta ancora tutta una serie di difficoltà per quel che attiene all'esposizione e all'uso delle categorie (un segno questo, di come doveva ancora maturare la critica del valore), oltre a una sottovalutazione del ruolo del capitale fittizio (che negli ultimi tre decenni avrebbe reso tutto assai più complesso). Tuttavia, qui la critica colpisce al cuore quelle teorie che parlano di un "trasferimento di valore" dalla periferia al centro del capitalismo, e fa a pezzi la convinzione - oggi coltivata da gran parte della sinistra - secondo cui nel capitalismo globale ci sarebbe posto per tutti. Il testo di Norbert Trenkle, presenta inoltre anche alcune difficoltà nell'esposizione e nell'uso delle categorie (segno ancora della maturazione della critica del valore), nonché una sottovalutazione del ruolo del capitale fittizio (cosa che ha reso tutto più complesso negli ultimi tre decenni). Tuttavia, la critica in questo caso va al cuore delle teorie che parlano di un "trasferimento di valore" tra la periferia e il centro del capitalismo e distrugge la convinzione, oggi coltivata da gran parte della sinistra, che nel capitalismo mondiale ci sia posto per tutti.
- Maurilio Botelho -
Svalorizzazione del valore (1996)
- Sulla crisi dell'imposizione della legge del valore sul mercato mondiale -
di Norbert Trenkle
[...] Pertanto si tratta quindi di una supposizione del tutto falsa e feticistica, quella secondo cui l'accumulazione di valore, o di capitale, nei paesi vincitori del mercato mondiale si nutra della massa di valore che verrebbe sottratta al «Terzo Mondo». Dal momento che non si tratta di quantità determinabili a livello empirico, secondo il principio: in che misura la ricchezza occidentale si basa sul saccheggio del Sud del mondo? A questo livello può essere dimostrato tutto e niente, ed è anche possibile arrivare facilmente alla conclusione secondo cui «Noi» dovremmo davvero «la nostra prosperità» al «lavoro onesto», ragion per cui, a conti fatti, il «Terzo Mondo» sarebbe in definitiva da biasimare per la sua miseria. In tal modo, vediamo come un'analisi primitiva dello sfruttamento si trasforma improvvisamente in una semplicistica affermazione del sistema; si tratta di una tendenza ripugnante, che si è affermata dall'inizio degli anni '90, anche negli ex circoli di sinistra solidali con il Terzo Mondo [*1]. Non è così. Negare che nel mercato mondiale esista uno «scambio ineguale» significa tutto tranne che elogiare l'economia di mercato, o addirittura parlare a favore dello sciovinismo della prosperità e dell'esclusione. È innegabile che - storicamente e strutturalmente - esista uno stretto legame tra il crescente impoverimento della maggior parte del mondo e l'accumulazione capitalistica nei centri del mercato mondiale. Naturalmente, quel che è avvenuto costituisce un gigantesco trasferimento di risorse dai Paesi del Sud del mondo a quelli del Nord. E ovviamente non è affatto vero che quel che si impone attraverso il commercio mondiale, rappresenta una divisione internazionale del lavoro vantaggiosa per tutti i partecipanti (sebbene lo sia in misura diversa). Il famoso teorema di Ricardo che parla dei «vantaggi comparati nel commercio estero» [N.d.T.: secondo cui le merci diventerebbero più economiche e più disponibili in quantità maggiore] non è mai stato altro che l'ideologia di giustificazione delle nazioni che guidano il mercato mondiale. Tuttavia, il meccanismo per mezzo del quale sono state e vengono prodotte contemporaneamente, sia la ricchezza sotto forma di merce sia la miseria di massa sul mercato mondiale, non costituisce un trasferimento di valore, ma rappresenta l'imposizione sistematica di uno standard di produttività valido a livello globale che dichiara nulla, e distrugge, ogni produzione di valore ai livelli nazionali o regionali più bassi.
Tale processo di imposizione ha, ovviamente, una lunga storia, che non è il caso di riprodurre in questa sede. Vorrei solo sottolineare come la coesistenza, sul mercato mondiale, dei diversi livelli di produttività sia diventata sempre più insostenibile, man mano che la produzione di merci si affermava a livello mondiale come forma di riproduzione sociale. Gli Stati che volevano proteggere i loro produttori nazionali dalla distruttiva concorrenza internazionale, hanno dovuto erigere barriere sempre più alte, fino a che - sotto la pressione dei divari di produttività, dell'aumento dei costi e dei debiti - non c'è stata altra via che la completa apertura dei mercati. [...] Nel lungo periodo, pertanto, anche la frontiera monetaria finisce per non offrire più alcuna protezione contro la pressione della produttività mondiale più avanzata. E quanto maggiore è la disparità tra i diversi livelli, tanto più difficile sarà il tentativo di colmare questo divario. Ciò che la modernizzazione capitalistica in ritardo (soprattutto quella in Germania, in Italia e in Giappone) era ancora in grado di fare nel XIX secolo, oggi per i ritardatari del XX secolo non è più possibile. Anche la strategia di «sostituzione delle importazioni» degli anni '50 e '60, ben presto ha rapidamente creato un'elevata domanda di importazioni di capitale produttivo, il quale non poteva essere coperto, in termini di valore, dalle corrispondenti esportazioni. Per un po' di tempo, questo fenomeno è stato mascherato grazie al saccheggio delle risorse naturali, allo sfruttamento eccessivo della manodopera e al debito estero (in questo senso, c'è stato un immenso trasferimento di risorse materiali dal Sud al Nord). Ma, al più tardi con l'enorme aumento di produttività della «rivoluzione microelettronica» tutte le speranze sono andate perse. Il risultato è stato l'imposizione di un livello di valore applicabile a livello globale, non attraverso una crescente convergenza, ma per mezzo dell'eliminazione di tutta la produzione «improduttiva»; in altre parole: la deindustrializzazione di interi Paesi e regioni dell'Est e del Sud. In ultima analisi, sono rimaste solo quelle industrie e quei «servizi» che funzionano direttamente in quanto parte di uno degli aggregati produttivi che era orientato globalmente fin dall'inizio, e che, inoltre, offrono solo a una frazione della popolazione mondiale l'opportunità di vendere la propria forza lavoro (molto spesso a condizioni miserevoli).
Alla fine, il capitalismo si è affermato nel mercato mondiale totale; ma non lo ha fatto nel senso glorioso che viene proclamato dai suoi cantori di corte. Al contrario, la dissoluzione delle economie nazionali costituisce parte di un processo di crisi globale che mina le basi stesse della moderna produzione di merci. In primo luogo, l'applicazione di un unico standard di valore - attraverso la deindustrializzazione su larga scala - equivale a un crollo mondiale della base di valore del capitale (e quindi anche della sua capacità di valorizzare). In secondo luogo - e vorrei soffermarmi brevemente su questo punto - il mercato mondiale complessivo è precario, dal momento che ovunque il livello di valore applicabile non è affatto equivalente alla scala del valore globale. Questo sembra un paradosso, ma invece non fa altro che esprimere una contraddizione indissolubile, che dimostra l'insostenibilità del sistema mondiale di produzione delle merci. Il gold standard non può più essere reintrodotto, senza provocare delle immense contrazioni nella sovrastruttura finanziaria, con corrispondenti ripercussioni catastrofiche sull'economia reale; il suo superamento è stato un prerequisito (e allo stesso tempo un risultato) del completo scatenarsi della logica della valorizzazione del boom fordista. D'altra parte, però, non ci sarà mai uno Stato mondiale che introduca e garantisca una moneta cartacea o commerciale uniforme e universalmente valida; e questo perché ciò richiederebbe come condizione necessaria (ma ancora insufficiente) una omogeneizzazione economica mondiale, la quale viene impedita proprio dalle leggi coercitive del mercato mondiale. Persino le valute dei Paesi relativamente più forti (in particolare il dollaro, il marco tedesco, lo yen e il franco svizzero) non sono in grado di colmare questa lacuna, poiché sono state istituite come uno standard sostitutivo, dopo che il dollaro aveva perso la sua posizione monopolistica come valuta mondiale. A ciò si contrappone il fatto che non esiste una sola misura di valore. Ma diverse, che coesistono e che sono soggette a fluttuazioni sempre maggiori. Anche queste valute stanno subendo un processo accelerato di appassimento, che potrebbe presto screditarle del tutto. Inoltre, in genere funzionano solo come valute parallele accanto alla permanenza delle valute nazionali (e di solito non sono liberamente convertibili). Tuttavia, fintanto che gli Stati nazionali mantengono una capacità funzionale residua, si aprono anche enormi possibilità di manipolazione a livello di tassi di cambio.
Quella che un tempo era la «funzione protettiva dei tassi di cambio», viene ora sempre più spesso utilizzata come un eccessivo dumping valutario (soprattutto da parte dei Paesi dell'Europa dell'Est e dell'Asia orientale, come la Cina, che praticano questo tipo di politica della concorrenza). L'obiettivo non è più quello di proteggere una determinata struttura economica nazionale dalla pressione schiacciante della concorrenza per portarla gradualmente al livello mondiale, ma semplicemente quello di avere la possibilità di vendere qualsiasi cosa sul mercato mondiale e di attirare almeno qualche misero cambio. Con questo presupposto, il processo di saccheggio dell'uomo e della natura viene ora accelerato, sprecando tutto ciò che può ancora essere sprecato. Si potrebbe anche parlare di trasferimento di valore, se non fosse che proprio attraverso la generalizzazione globale di questa politica di "dumping", alla fine viene meno qualsiasi standard oggettivo di valore. Inoltre, il vantaggio per i Paesi che sono al centro del mercato mondiale è solo molto relativo, perché lo standard di produttività da loro imposto adesso compete con altri fornitori apparentemente più produttivi, la cui capacità di competere, tuttavia, non si basa su una maggiore produttività (dovuta alla manodopera a basso costo), ma solo sulla manipolazione delle relazioni. Ciò che sta realmente accadendo è un processo rapido e irreversibile di distruzione del valore globale che mina le fondamenta del sistema globale di produzione delle merci.
- Norbert Trenkle - Apparso Su Krisis nel 1996 -
NOTA:
[*1] -All'inizio del 1991, ad esempio, ci fu un dibattito su "Konkret" con il titolo Leben wir auf Kosten der Dritten Welt?, in cui Kurt Hübner e Jörg Goldberg si cimentarono con le cifre per dimostrare che "lo sfruttamento del Terzo Mondo non è la fonte della prosperità del Primo Mondo" (Hübner in "Konkret" 2/1991). Un anno dopo, nel suo libro "500 anni di conquista", Winfried Wolf ha mantenuto lo stesso livello (empirico) con un calcolo alternativo che ha prodotto il risultato opposto. Teoricamente, non ha ottenuto un millimetro di vantaggio sui suoi avversari.
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