Ci sono persone considerate pericolose per gli atti che hanno compiuto: crimini, furti, omicidi, stupri. Ci sono poi interi gruppi considerati pericolosi per la loro condizione sociale: mendicanti, vagabondi, emarginati. In una parola: poveri. Non hanno fatto nulla di male, non hanno commesso reati, eppure sono sospetti e per questo pericolosi. Quando e perché abbiamo iniziato ad avere paura degli ultimi? E che cosa è cambiato nei secoli? Le disuguaglianze economiche sono antiche quanto l’umanità e i poveri, purtroppo, sono sempre esistiti. Quello che è cambiato storicamente è il modo in cui gli ultimi sono stati considerati e trattati. Questo libro tesse le fila di una secolare vicenda che parte dagli albori dell’età moderna, quando per la prima volta il povero perde la concezione sacrale che aveva avuto nel Medioevo e diventa agli occhi dei gruppi dominanti colpevole del proprio stato. S’avvia un processo di criminalizzazione per cui accattoni, vagabondi, stranieri iniziano a essere percepiti come una minaccia. La società via via si trasforma sotto l’impulso di una borghesia che trionfa sulle altre classi sociali imponendo una nuova cultura e un diverso stile di vita, pretendendo il decoro delle città e dei comportamenti delle persone che le abitano, difendendo con ogni mezzo la proprietà e la sicurezza. L’idea che i poveri, e più di recente i contadini e gli operai, siano un pericolo sociale diventa pratica di governo, si trasforma in leggi, seleziona i soggetti che devono essere sorvegliati e, nel caso, messi al bando o rinchiusi lontano dal consesso civile. È una storia che dal Cinquecento arriva all’oggi, evidenziando linee di sconcertante continuità.
(dal risvolto di copertina di: Enzo Ciconte, "Classi pericolose". Editore Laterza, €20)
La colpa di essere poveri
- di Gian Antonio Stella -
«Il parroco di Andreis in provincia di Udine a metà del 1815 “informava che la popolazione si cibava di fusti di pannocchie macinati e conditi con erba senza sale e in alcuni casi perfino di sterco”», ricordò anni fa lo studioso Franco Della Peruta, e «nei dintorni di Verona i montanari “si davano a mordere l’erba de’ campi, siccome capre, e coll’erba fra’ denti morivano”».
Brutta cosa, la fame. Non solo in tempi di carestia. Lo racconta in Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi, edito da Laterza, Enzo Ciconte che parte dalla pratica dell’abbandono «diffusa anche in epoche remote» compresa l’antica Roma dove c’era l’uso «di abbandonare il neonato ai piedi di una colonna, la columna lactaria, e chiunque poteva prenderlo, nutrirlo e poi adibirlo a schiavo, salvo renderlo libero se lui o un’altra persona avessero pagato il dovuto riscatto» e risale da lì lungo i secoli, di dolore in dolore, di rivolta in rivolta, di ipocrisia in ipocrisia fino a oggi e all’affermazione sfacciata ma vera di Warren Buffett, tra gli uomini più ricchi del mondo: «Di fatto negli ultimi vent’anni è stata combattuta una guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta».
Non solo negli ultimi vent’anni. Anzi. L’intera vicenda umana, spiega lo storico calabrese, è marcata da questo contrasto. E se «l’epoca della pietà è quella medioevale quando il povero era oggetto di carità perché in lui era rappresentata la figura di Cristo» (come confermato da Sant’Agostino: «esistono poveri senza risorse che a stento sopravvivono alla giornata, così bisognosi dell’aiuto altrui da non vergognarsi di mendicare») il cardine del sistema resta quello riassunto da Michele Mollat ne I poveri nel Medioevo dove cita la Vita di Sant’Eligio di Noyon dov’è scritto che «Dio avrebbe potuto creare tutti gli uomini ricchi, ma ha voluto che nel mondo ci fossero anche i poveri, per offrire ai ricchi una occasione di riscatto dalle loro colpe». Tesi via via ribadita oltre un millennio dopo, perfino in un decreto del 22 giugno 1817 dal governo lombardo-veneto sotto la dominazione austriaca: «Nel piano della divina Provvidenza la povertà è necessaria all’Ordine dell’Universo».
Un ordine del resto già inasprito da Martin Lutero il quale, scrive Ciconte, era così diffidente verso certi poveri da pensare agissero «in combutta con il diavolo», e che anzi era il diavolo in persona che «si serviva di loro per impedire che le elemosine finissero nelle mani dei veri mendicanti». Diffidenza decisiva per cambiare «in profondità la concezione e la percezione del povero e della povertà» non solo nel mondo protestante. Insomma: da «immagini di Cristo» i poveri sarebbero via via diventati per molti quelli che non s’impegnano abbastanza o approfittavano della carità altrui. Risultato: un crescendo inarrestabile di divieti che finirà per colpire anche i francescani e gli eremiti «che avevano fatto della povertà una scelta di vita». Un rovesciamento radicale delle parole del Vangelo. Peggio ancora: «Le epidemie di peste del Seicento o le ricorrenti carestie che spingevano masse enormi di affamati a spostarsi dalle campagne alle città» seminarono nuove paure. E l’ossessione di separare «i poveri veri» dai «poveri falsi» fece il resto. Con raffiche di bandi, divieti di vagabondaggio, fogli di via. Zingari, girovaghi, donne perdute... Fino a casi stupefacenti tipo l’esilio nel 1768 a Ventotene, da parte del governo borbonico, di «200 ladri e 200 prostitute». Categoria nella quale, peraltro, era facile esser catalogate: «La polizia poteva arrestare una donna con l’infamante accusa solo perché era senza dimora e disoccupata». Bastava essere stata lasciata da un marito emigrato. Essere finita ai margini. O aver ceduto ai consigli di un parroco sbagliato convinto che «l’honor d’un povero era poca cosa». Quella fu per tempi interminabili la morale. Al punto che, perfino le balie costrette dalla miseria a trascurare i propri neonati per dare il latte a quelli altrui magari in Svizzera o in Prussia (come migliaia e migliaia delle nostre nonne emigrate nell’Ottocento) venivano liquidate su una rivista medica così: «La nutrice è nulla più che un’impietosa e pigra donnaccia che nel bimbo affidatole scorge solamente un mezzo per lucrar denaro». Per non dire di Anagni dove la Scuola Pia della Carità accettava solo «vergini, di padre e madre onorati, onesta di costumi e fama» che non abbiano «vendemmiato in campagna in presenza di altri uomini, anche nelle vigne di proprietà, acciò non abbiano appreso la malizia».
Nessuno, dimostra Ciconte, ha patito per secoli le miserie, le umiliazioni, le solitudini delle donne povere. A partire appunto (senza il conforto di uomini troppo assenti) dello strazio dell’abbandono dei figlioletti. Vittime innocenti e sacrificali di società dove i bambini erano un peso spesso insopportabile per le famiglie più miserabili. Ricordate certe favole nere come quella di Pollicino e dei suoi sei fratellini lasciati in un bosco? Non meno sventurati, si legge nel saggio di Ciconte, furono i piccoli finiti alla «Pietà» di Venezia dove perché non fossero confusi veniva loro impressa una «P» sul tallone «con ferro arroventato» o all’orfanotrofio di Roma dov’erano marchiati a fuoco con «una scaletta o la croce a doppio braccio». Né quelli accolti al brefotrofio di Cremona, passato da seimila «esposti» nella seconda metà del Settecento a oltre 22.000 nella prima metà dell’800 anche se «i dati più impressionanti sono quelli di Milano, dove la media annua passò dai 790 del 1785-89 ai 3.300 del 1841-50 e infine ai 4.384 del 1851-60». Per non dire della mortalità da brivido proseguita fino al secolo scorso. Come a Padova: «Ancora nel 1902, il 92% dei piccoli moriva». Ai poveri, per troppi secoli, «era sottratta finanche la speranza di poter mutare la loro condizione. Neanche in futuro, in un giorno più o meno lontano, le cose sarebbero cambiate. Era una prigione a vita dalla quale non si poteva evadere», osserva lo storico calabrese. Come potevano, quelle plebi affamate, schiacciate, ridotte alla schiavitù, non ribellarsi? E ricostruisce infatti, dai tempi più lontani, decine di rivolte prima ancora del brigantaggio ottocentesco. Come quelle della Val di Non e nella Val di Sole dove «per il lasso di quasi cinquant’anni nulla vi accade che meriti ricordarsi nella cronaca civile del paese» fino al 1525 «quando dalla Germania arriva il vento della rivolta e scoppiano moti contro i nobili e contro il clero che non si fermano dentro i confini di quello Stato». Storie, storie, storie... «Poche imprese storiografiche possono essere più tormentose o frustranti», spiega lo storico britannico Brian Pullan, «del compito di scrivere la storia dei poveri». «Colpa» dei poveri, verrebbe amaramente da dire, per troppo tempo muti. Scava scava, però...
- Gian Antonio Stella - Pubblicato sul Corriere del 22/5/2022 -
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