«Tutti rivolgono spasmodicamente lo sguardo verso il passato, non verso il futuro perché in esso si cela una realtà ignota, al di là del campo storico conosciuto e delle sue categorie interiorizzate. Detto in altri termini: tutti sono diventati conservatori, così come d’altro canto (nel loro atteggiamento pragmatico e affermativo nei confronti della crisi) tutti sono diventati neoliberali. Il “progresso” all’interno delle categorie del moderno sistema della merce e del “lavoro astratto” appare definitivamente come una forza cieca, ormai impossibile da “organizzare”, e quindi, come è logico, ogni fantasia di organizzazione non può che essere conservatrice o direttamente reazionaria. Questa situazione è particolarmente tragica per la sinistra che, in tutte le sue varianti, aveva sempre sognato di “marciare alla testa del progresso”. Questo slogan non ha oggi più alcun senso in quanto quel “progresso” non era altro che il concetto dell’imposizione e dello sviluppo storico del moderno sistema della merce, che adesso entra in collisione con i suoi limiti. A questo proposito affiora una singolare inversione, in cui i paradigmi classici della sinistra e della destra addirittura si scambiano di posto. In linea di massima, in entrambe le fazioni, sono ormai tutti conservatori e neoliberali ma questa convergenza profonda manifesta comunque differenze tali da rivelarci come i fronti della riflessione si siano scambiati. In passato, nell’eterno conflitto per l’interpretazione dei fatti, sembrava che le parti fossero state assegnate in maniera automatica: gli ideologi protocapitalistici orientati a destra assumevano immancabilmente il ruolo degli irriducibili apostoli della conservazione e della negazione di ogni cambiamento qualitativo; viceversa, “sinistra” era praticamente sinonimo di “progressismo”, addirittura di attesa impaziente del nuovo e di accelerazione del processo storico. Sia nelle sue espressioni riformistiche, sia in quelle rivoluzionarie, il discorso della sinistra pullulava sempre di metafore proiettate verso il futuro, di “nuovi stadi del capitalismo”, di rotture fondamentali dello sviluppo, di prospettive inaudite etc. Curiosamente però, all’inizio del XXI secolo, sono gli apologeti, gli ideologi e gli istigatori del capitalismo a impossessarsi sfacciatamente della nuova qualità sociale della globalizzazione, facendone il loro punto di forza, mentre la sinistra si è generalmente ritirata su posizioni di contenimento, conservazione ed esplicita negazione della realtà. Anche laddove i liberali o i conservatori sembrano manifestare in qualche caso un certo scetticismo sulla globalizzazione, questo si stempera regolarmente all’interno di un discorso sdrammatizzante, accompagnato da un riferimento positivo e ottimistico nei confronti del nuovo; viceversa, lo stesso scetticismo e i falsi paragoni con il passato nei discorsi della sinistra testimoniano l’avvilente ignoranza degli sconfitti della storia, disposti solo a bendarsi gli occhi per non vedere la nuova realtà. Surclassata dallo sviluppo del capitalismo globale, la sinistra ha perso la sua capacità di iniziativa storica, e se ne sta solitaria con i suoi concetti teorici e le sue idee sociali. Le prospettive sono mutate: ciò che un tempo era “progresso” e sviluppo si colloca adesso nel passato, in quanto il sistema di riferimento di quel “progresso” e di quello sviluppo – il campo storico della modernità produttrice di merce con la sua struttura di dissociazione su base sessuale – si è storicamente esaurito. Al suo interno non esiste proprio più nulla da sviluppare, che possa fungere da base per una nuova epoca. Nella misura in cui sono le categorie stesse della modernità a entrare in crisi e a franare, qualsiasi “progresso” del passato viene decifrato solo come uno sviluppo immanente del capitalismo o del sistema produttore di merce. Il “nuovo” era sempre il nuovo del vecchio, vale a dire una modalità di imposizione del rapporto sociale fondamentale del “lavoro astratto”, della forma-merce e della dissociazione sessuale. Non essendo mai approdata alle basi categoriali della modernità, la critica della sinistra non riesce neppure a confrontarsi con la loro crisi. La sinistra tradizionale – e questo deve suonare come un ceterum censeo per ogni nuova critica del capitalismo che intenda superare il marxismo tradizionale – era essa stessa un motore dello sviluppo borghese; la sua presunta critica fondamentale del capitalismo si riduceva di fatto a un programma valido per ogni nuova avanzata storica del “lavoro astratto”, del mercato/Stato e della moderna relazione tra i sessi. Detto altrimenti: la demoralizzazione storica della sinistra coincide con la fine della capacità di sviluppo del capitalismo e con i limiti interni assoluti del processo di valorizzazione. Potrebbe sembrare un paradosso, ma solo per chi si ostina a ragionare nelle vecchie costellazioni, che adesso sono state sbaragliate dalla crisi della terza rivoluzione industriale e della globalizzazione. Tuttavia non è più sufficiente prenderne atto in termini generali. È invece necessario elaborare la crisi delle categorie capitalistiche anche al livello superficiale del rapporto tra economia e politica, Stato nazionale e mercato mondiale, in modo da evidenziare il vincolo di tutti i discorsi della sinistra (in particolare di quelli, in apparenza, radicalmente critici) con l’universo categoriale del sistema della merce così da approdare a “nuovi lidi”. Il concetto di capitale-mondo può essere solo un concetto fondamentale di crisi, in cui si esprime l’insostenibilità storica della struttura categoriale della moderna società.»
(Robert Kurz - da "Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merce", Traduzione a cura di Samuele Cerea. Meltemi, 2022)
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