Nel 1931 Giuseppe Antonio Borgese si trasferisce negli Stati Uniti per un ciclo di lezioni all’Università di Berkeley. È lo stesso anno in cui il fascismo impone il giuramento ai professori universitari, così quel soggiorno che doveva essere temporaneo si trasforma in un lungo esilio volontario, lontano dalle pressioni del regime. Nei diciassette anni trascorsi oltreoceano, Borgese frequenta letterati e scienziati di ogni provenienza, si dedica a un’intensa militanza antifascista e, all’indomani dell’attacco nucleare su Hiroshima, promuove il Comitato per la redazione di una Costituzione mondiale. Da quella esperienza nasce Fondamenti della Repubblica mondiale pubblicato postumo in inglese nel 1953 e ora per la prima volta tradotto in italiano in cui Borgese espone la sua profonda fiducia nella democrazia. Un manifesto programmatico che è anche una riflessione sulla natura dell’uomo, sulla politica, la storia, la filosofia e la giustizia, un libro dimenticato ma capace di anticipare con intuito profetico i pericoli, oggi quanto mai attuali, della tecnologia incontrollata e della deriva violenta degli stati. La sensibilità dei suoi studi letterari, l’esperienza delle due guerre, la presa di coscienza degli orrori dei totalitarismi, lo convincono dell’inutilità dei conflitti, e che soltanto un governo mondiale democratico, dotato di poteri reali, possa affermare la pace e la giustizia tra le nazioni.
(dal risvolto di copertina di: Giuseppe Antonio Borgese. "Fondamenti della Repubblica mondiale". La nave di Teseo, pagg. 624 euro 24)
Nazioni addio
- di Roberto Esposito -
« L'era dell’umanità non è ancora iniziata, ma l’era delle nazioni è finita ». Colpisce il contrasto tra l’incipit dei Fondamenti della repubblica mondiale di Giuseppe Antonio Borgese – adesso pubblicato in edizione italiana da La nave di Teseo, con una prefazione di Sabino Cassese e una postfazione di Gandolfo Librizzi – e la guerra in Ucraina. Mai come oggi le nazioni, con tutto il loro armamentario nazionalista, sembrano tutt’altro che finite, se hanno riportato la guerra nel cuore dell’Europa. Eppure, da un altro punto di vista, proprio questa deriva violenta conferisce una bruciante attualità all’ambizioso progetto di Borgese. Mai come oggi l’utopia di una pace tra Stati uniti in una federazione mondiale risuona come un monito e insieme una speranza. Ma partiamo dall’inizio. Come mai un testo così importante di uno dei più brillanti intellettuali italiani del primo cinquantennio del Novecento ha atteso tanto per venire alla luce da noi? Una delle risposte sta nella formazione variegata, e anche eclettica, di Borgese. Nel settantesimo dalla morte e a centoquaranta anni dalla nascita, l’ampiezza d’orizzonte culturale di Borgese ne fa uno degli autori più prolifici e versatili della nostra recente tradizione. Professore universitario – il più giovane del Regno –, narratore, giornalista, diplomatico, poeta, Borgese nel 1931 diventa esule volontario in America. Andato oltreoceano per delle lezioni all’Università di Berkeley, in California, quando i docenti universitari italiani vengono costretti dal regime al giuramento al fascismo, decide di non rientrare in Italia, rinunciando perfino alla pensione. A quel punto s’impegna in una esplicita militanza antifascista, attestata da due lettere rivolte a Mussolini. Assunta la cattedra di letteratura germanica e poi di estetica, insegna a Berkeley, Columbia, Chicago, proseguendo l’attività pubblicistica sul Corriere della sera, per cui scrive più di quattrocento articoli. Come ricorda Cassese nell’introduzione al volume, si lega ai maggiori intellettuali del tempo – da Salvemini a Croce, da Papini a Thomas Mann, del quale sposa, in seconde nozze, la figlia Elisabeth. Ma a caratterizzare la sua permanenza americana è soprattutto l’attività etico-politica, che ci riporta al volume adesso pubblicato. Dopo aver collaborato a una “Dichiarazione sulla democrazia mondiale”, nel 1943 scrisse Common Cause, un titolo che dette luogo ad una rivista durata vari anni. Poi, dopo la catastrofe di Hiroshima, costituì un comitato di dodici membri per scrivere un “Disegno per una Costituzione mondiale”, prefato da Thomas Mann.
Di esso i Fondamenti della repubblica mondiale costituisce una sorta di elaborazione storico-filosofica, che avrebbe dovuto essere seguita da altri due volumi di carattere teologico e poetico. Il libro è diviso in tre parti, dedicate rispettivamente a una genealogia degli Stati nazionali – pervenuti ormai al loro esito ultimo – alla giustizia e al potere. Chi cercasse in questo ampio testo nozioni politologiche precise, resterebbe deluso. L’intenzione dell’autore era altra. In un quadro disegnato ad ampie pennellate – in cui s’incontrano Kafka e Dostoevskij, Freud e Pirandello, Platone e Campanella – si snoda un profilo della storia occidentale, in chiave profetica. Il problema, tutt’altro che risolto, che il libro pone, è come sia possibile evitare conflitti di civiltà. Nella scrittura, a volte fluviale di Borgese – autore, fra l’altro, di uno dei più importanti romanzi italiani degli anni Venti, Rubè – s’incontra di tutto: elementi d’intensa riflessione, giudizi a volte attardati sul razzismo e il ruolo delle donne, ma anche considerazioni drammatiche sul mondo che, dopo il conflitto mondiale, andava spaccandosi in blocchi contrapposti, con i quali non abbiamo ancora finito di fare i conti. Nulla più di quanto sta accadendo in Ucraina – dopo l’invasione della Russia – prova come la questione di un nuovo ordine globale, che si lasci alle spalle la guerra, sia all’ordine del giorno. Come il Kant della pace perpetua, Borgese è consapevole delle difficoltà del proprio progetto, sostenuto in quella stagione dai più consapevoli intellettuali. Dopo le speranze dell’immediato dopoguerra, la cortina di ferro e la guerra di Corea presto spengono le speranze in un mondo unificato dai valori della democrazia, della giustizia e della pace. La terra, sinistramente illuminata dal bagliore di Hiroshima e Nagasaki, è lontana dall’intraprendere un nuovo cammino. Al punto che ancora oggi si torna a parlare di atomica. Borgese non era un illuso. Come egli scrive in un saggio sul fascismo «questa è pura utopia». Ma aggiungendo, «che cos’è la terra dell’uomo se non il luogo predestinato all’utopia?».
- Roberto Esposito - Pubblicato su Robinson del 2/7/2022 -
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