Questo libro studia la nobiltà come un'élite della quale ricercare i caratteri dominanti, i meccanismi di riproduzione familiare e di gestione del potere, la capacità di adattarsi e di reinventarsi di fronte ai mutamenti che hanno scandito la storia italiana dal Risorgimento alla Repubblica. Avvalendosi di un modello statistico di 1500 individui, della consultazione di numerosi archivi pubblici e privati e di una scrittura che incrocia l'approccio biografico con l'analisi quantitativa e che utilizza anche la comparazione con altri casi europei, il volume arriva a conclusioni che ribaltano molte opinioni correnti.
La nobiltà italiana fu un’élite che conservò fino al Novecento alcuni elementi fondamentali della sua cultura quali la famiglia e la riproduzione all’interno del proprio ceto contraendo matrimoni che solo in misura relativa riguardarono partners borghesi. A fronte di un declino complessivo della sua presenza dentro le istituzioni politiche che riguardò tutta l’Europa, nella nobiltà italiana si formò una super élite formata da circa 200 famiglie che restarono al potere dal 1861 al 1943 trasmettendolo al loro interno lungo le linee della parentela. Da questo punto di vista la nobiltà italiana ebbe una capacità di resilienza e di riconversione assai elevata adeguandosi ai cambiamenti di regime e conservando al tempo stesso i propri tratti culturali.
(dal risvolto di copertina di: Maria Malatesta, «Storia di un’élite». Einaudi, pp. XXII - 338, € 26)
Strategia e poca puzza al naso: così i nobili non sono decaduti
- Si adeguarono ai cambi di regime conservando i propri tratti culturali. Accettarono pure qualche “parvenu” e matrimoni con l’alta borghesia -
di Giovanni De Luna
In una scena de La Dolce Vita di Federico Fellini, una vecchina aristocratica scende le scale al braccio di una bambina, muovendosi in una dimensione onirica, priva di qualsiasi spessore storico. Questa immagine di una nobiltà uscita dalla storia è del 1960, quando l’Italia era in pieno boom economico. Due anni prima, nel 1958, Feltrinelli aveva pubblicato Il Gattopardo, romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il cui protagonista impersonava alla perfezione il modo tortuoso e vincente con il quale la vecchia nobiltà siciliana aveva accettato il Risorgimento e l’Unità d’Italia a patto che «tutto cambiasse perché nulla cambiasse». E proprio tra il Risorgimento e l’Italia del boom si muove l’ultimo libro di Maria Malatesta, Storia di una élite, che racconta le vicende dell’aristocrazia italiana lungo tutto il primo secolo della nostra storia unitaria, inseguendole nel vertiginoso andirivieni dei cambiamenti politici e documentandone l’ accorta strategia che le ha consentito di mantenere quasi tutti i suoi privilegi di «casta» anche nella difficile transizione alla modernità italiana. In ogni passaggio da una «fase» all’altra, dall’Italia preunitaria a quella postrisorgimentale, dall’Italia liberale al fascismo, dal fascismo alla repubblica, i nobili italiani sono stati in grado di attuare una strategia che si è rivelata efficace non solo per sopravvivere ma anche, spesso, per incrementare il proprio prestigio e i relativi introiti. È stato così dopo il trauma di un Risorgimento che aveva spazzato via le cerchie nobiliari delle corti degli staterelli italiani, poi riciclatesi quasi tutte all’ombra protettiva dei Savoia e riconoscendosi pienamente nel liberalismo dell’Italia postunitaria; anche quella più grande e ambiziosa, napoletana, dei Borboni, dapprima invischiata in una causa «legittimista» che aveva filtrato con l’insurrezionalismo e il brigantaggio, ma poi ben inserita nella «nobiltà di stato»; nei ranghi cioè della politica, dell’esercito, della pubblica amministrazione, della magistratura, della diplomazia (il Ministero degli Esteri resterà un baluardo della nobiltà almeno fino al 1922), in un «giro» di cariche che finì con rinsaldare la sua fedeltà alla monarchia sabauda, come si vide bene in occasione del referendum del 2 giugno 1946.
Fu così anche dopo l’avvento del fascismo, con il quale i nobili italiani - nel segno della lotta contro «le forze della sovversione» - trovarono subito il modo di convivere agevolmente, accettando di buon grado anche i parvenu proposti dal regime attingendo al suo gruppo dirigente (Cesare Maria De Vecchi, diventato conte di Val Cismon, Costanzo Ciano, nominato conte di Cortelazzo) o agli esponenti più in vista della borghesia fiancheggiatrice (imprenditori tessili, meccanici, chimici, come Vittorio Cini, Angelo Crespi, Gaetano Marzotto, Ermenegildo Zegna, etc...). E alla tavola apparecchiata da Mussolini si era seduta con compiacimento anche quella nobiltà nera, papalina, che a Roma non aveva mai cessato di tessere intrighi antiunitari, almeno fino al 1870. Ed è stato così anche con l’avvento della Repubblica, quando i titoli nobiliari furono privati del loro valore legale (articolo XIV delle Disposizioni transitorie e finali della Costituzione) e tuttavia la nobiltà seppe costruire solide alleanze politiche con i partiti di destra, ma anche con la stessa Dc, così da transitare nel modo più indolore possibile nella nuova realtà democratica.
Maria Malatesta individua la chiave di questa strategia così efficace nella centralità della famiglia («è stata il fulcro della sopravvivenza dell’élite nobiliare e della costruzione delle sue reti di potere e influenza»), nella capacità di tessere una ragnatela di rapporti di parentela solidissimi grazie ad alleanze matrimoniali, strette non solo nel perimetro delle «grandi famiglie» aristocratiche ma anche in un ambito più vasto, con significativi «allargamenti» verso l’alta borghesia dell’industria, del commercio e della finanza che spesso servirono ad «accrescere o salvare il patrimonio della famiglia o evitarne l’estinzione». Il suo libro propone così, oltre a documentatissime tabelle statistiche e a interessanti dati quantitativi, moltissime vicende biografiche riconducibili a questo schema, a partire dal già citato Luchino Visconti, nato dal matrimonio tra Giuseppe Visconti di Modrone e Carla Erba, figlia dell’omonimo industriale. Abili nel sopravvivere ai cambiamenti politici, i nobili italiani sono sembrati molto più in difficoltà quando si è trattato di confrontarsi con quelli imposti dall’evoluzione del mercato e dei consumi. Il principe Emanuele Filiberto di Savoia, nipote dell’ultimo re d’Italia, Umberto II, tornato in Italia dall’esilio, pensò bene di rendere solenne il suo arrivo facendo da testimonial a una ditta di sotto aceti. Nel 1967 aveva fatto scandalo la love story di sua zia Maria Beatrice con Maurizio Arena, interprete di Poveri ma belli, un divo del cinema minore italiano. Per le olive e i peperoni di Emanuele Filiberto non si scandalizzò più nessuno. Anche la nobiltà era ormai omologata.
- Giovanni De Luna - Pubblicato su TuttoLibri del 9/7/2022 -
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