Obiettivo di questo libro, prodotto del sensazionalismo editoriale del 1922, era mostrare la verità e l’utilità della fotografia spiritica. Doyle, membro ordinario della Physical Society (ma anche della Society for Psychical Research), indaga con altri uomini e donne di scienza e di lettere su ciò che non è visibile agli occhi. La domanda intorno alla quale ruota questa difesa della fotografia di fantasmi è se con una macchina fotografica sia possibile o no restituire un volto a chi è morto – e, in ultima analisi, se si possa dimostrare l’immortalità dell’anima. Doyle procede come il suo Sherlock Holmes: raccoglie indizi, fa eccezioni, ricostruisce storie per ricostruire vite. L’occasione è data da un’accusa del parapsicologo britannico Harry Price a William Hope, fondatore del Crewe Circle di cui Doyle è appassionato simpatizzante: Price sostiene che Hope sia un impostore, che non fotografi i fantasmi ma manipoli le lastre fotografiche. Doyle, attraverso un confronto tra le fotografie in vita e in morte e grazie a una rete di ferrate e inappuntabili ipotesi, difende Hope. Della versione di Price ci è rimasto poco, di quella allucinante e romanzesca di Doyle tutto. Perché la letteratura dice la verità.
(dal risvolto di copertina di: Fotografare gli spiriti, di Arthur Conan Doyle. Marsilio, pagg. 183, € 15)
Un imbroglione, ma con spirito
- di Paolo Albani -
All’inizio del secolo scorso, c’è qualcuno, persino acculturato, che crede possibile fotografare i fantasmi, ovvero impressionare su una lastra fotografica, grazie a doti soprannaturali, il volto o anche scritture calligrafiche di persone scomparse, arrivando con ciò a dimostrare l’immortalità dell’anima, un’impresa che non è proprio una bazzecola. Fra i sostenitori della «fotografia spiritica o psichica» c’è un grande scrittore, nientepopodimeno che l’inventore di Sherlock Holmes, uno degli investigatori più amati della letteratura poliziesca, vale a dire Arthur Conan Doyle (1859-1930) che dal 1902 si fregia del titolo di baronetto. Doyle è un fervido spiritista; la sua passione per le entità «impalpabili» lo porta a credere anche nell’esistenza delle fate. È membro della Society for Psychical Research il cui scopo è studiare gli eventi e le capacità comunemente definite «medianiche» o «paranormali». Non stupisce perciò che Doyle nutra una forte simpatia per il Crewe Circle, un gruppo di fotografi spiritualisti con sede a Crewe, città della contea del Cheshire in Inghilterra. Il gruppo è fondato da un certo William Hope (1863-1933), un falegname considerato il pioniere della fotografia spiritica che nel 1905 realizza la sua prima foto che mostra uno spirito, diventando ben presto famoso nell’ambiente del paranormale. Poi un giorno, esattamente il 4 febbraio 1922, succede che il parapsicologo Harry Price (1881-1948), un detective specializzato nello smascheramento d’imbrogli spiritistici, prova che Hope è un truffatore impunito. Durante un test, Price contrassegna segretamente le lastre fotografiche consegnate a Hope apponendovi il marchio della Imperial Dry Plate Co. Ltd. All’oscuro della manomissione, Hope si mette a catturare immagini di spiriti, ma nessuna pellicola da lui esibita riporta il logo della Imperial Dry Plate, il che dimostra che il falegname-spiritista ha cambiato il materiale fornitogli da Price con altro preparato per creare appositamente false immagini di spiriti.
Per difendere l’onorabilità (dubbia) di Hope, Doyle scrive The Case for Spirit Photography, una sorta di instant book stampato a Londra il 14 dicembre 1922 per Hutchinson & Co., e che ora fortunatamente esce in edizione italiana a cura di Alessandro Giammei, assistant professor di Italianistica e Letteratura comparata al Bryn Mawr College della Pennsylvania. Il libro è un documento straordinario, almeno per due motivi. Il primo è che contiene molti esempi di «fotografie spiritiche», foto su sfondo nero in cui figurano persone viventi alle cui spalle s’intravedono i volti, sfumati, ma pur sempre ben riconoscibili, di parenti defunti, quasi sempre racchiusi in una nuvoletta vaporosa o «intercapedine ectoplasmatica». Il secondo motivo è che la difesa dell’attività soprannaturale di Hope è condotta da Doyle usando lo stesso metodo scientifico, fatto di deduzioni e controdeduzioni, tipico delle indagini di Sherlock Holmes. Il «razionalismo deduttivo tardoromantico» di Doyle, come lo chiama Giammei, rende la ricostruzione del «caso della fotografia spiritica» una lettura avvincente, per quanto alla fine il tentativo di attestare l’innocenza di Hope non si sciolga in una verità inconfutabile. Alle accuse infamanti di Price, Doyle contrappone due obiezioni di fondo: 1) le esposizioni prolungate, al pari di quella effettuata da Hope nel suo test di «fotografia spiritica», possono far svanire i marchi delle lastre, 2) le lastre contrassegnate da Price rimangono incustodite per ventiquattro ore, chiuse dentro un cassetto nella sede della Society for Psychical Research, così che chiunque avrebbe potuto manipolarle; non è da escludere perciò, afferma Doyle, che Hope sia rimasto vittima di un complotto.
Sebbene i sensitivi non siano esenti dal produrre osservazioni imperfette e spiegazioni scorrette (lo stesso Hope è dipinto come «un fanatico»), Doyle giudica un insulto all’intelligenza ravvisare un comportamento truffaldino negli esperimenti di Hope, specie di fronte alle precise e scrupolose testimonianze (documentate nella seconda parte del libro) di numerosi personaggi, spiritisti e non, che adducono, a giudizio di Doyle, schiaccianti prove sull’autenticità del fenomeno delle «fotografie spiritiche». Elementare, Watson!
- di Paolo Albani - Pubblicato sulla Domenica del 22/5/2022 -
Nessun commento:
Posta un commento