ll crepuscolo e la fantasia: una globalizzazione migliore?
- di Eleutério F. S. Prado - 7/8/2022
Dani Rodrik è un noto economista, professore presso la School of Government dell'Università di Harvard. Di origine turca, ma stabilitosi negli Stati Uniti dove ha conseguito il dottorato, lavora sui temi della globalizzazione, della crescita economica e dell'economia politica amministrativa. Recentemente ha scritto un articolo di divulgazione nel quale presenta la sua ottimistica convinzione secondo cui dalle «ceneri della globalizzazione» - che ora egli chiama iperglobalizzazione! - «può emergere una globalizzazione migliore» [*1]. Quindi, egli suppone che una globalizzazione virtuosa possa riuscire a battere una globalizzazione che ora viene vista come sbagliata, che viene supposta essere malvagia! È davvero così?
Per poter rispondere a questo dubbio illusorio, bisogna necessariamente guardare a quella che è stata la storia del tasso di profitto globale dal dopoguerra fino a oggi (così come viene rappresentato nel grafico che vedete, per mezzo di una variabile approssimativa, vale a dire, il tasso di profitto medio dei Paesi del G20), la quale dimostra, senza illusioni, che il capitalismo percorre una traiettoria di declino a livello globale.
Rodrik, tuttavia, preferisce non tener conto di questa evidenza empirica, la quale dimostra in qualche modo la tesi degli economisti classici e di Marx sulla tendenza al declino del tasso di profitto. Dunque, come si fa a sostenere una «globalizzazione virtuosa» che viene vista come possibile? Forse questo felice momento ci starebbe aspettando nelle formule astratte della «miglior teoria», da attuare per mezzo di «corrette» politiche economiche?
Com'è noto, il processo di globalizzazione del capitale si è bloccato, se non è addirittura in ritirata dopo il grande crollo del 2007-2008; un fenomeno questo, derivato prima dalla trasformazione immanente dell'accumulazione in sovraccumulazione, e poi da una grande bolla finanziaria che è scoppiata. Con epicentro negli Stati Uniti, questo terremoto economico e finanziario - apparentemente segnato dal crollo del mercato delle obbligazioni immobiliari - ha propagato onde d'urto per tutto il mondo, generando uno sconvolgimento di dimensioni mondiali. Da allora in poi, come mai era successo prima, l'egemonia dell'imperialismo statunitense, che negli ultimi decenni era stata gradualmente minata, apparve come minacciata dalla sorprendente crescita e dalle pretese suprematiste della Cina. Di conseguenza, la crescente espansione dell'economia mondiale, attuata attraverso la terza ondata di globalizzazione iniziata nel 1980, venne interrotta per iniziativa di quello che era il suo principale beneficiario, gli Stati Uniti. La scena geopolitica si trasformò, mentre divenne dominante una crescente rivalità industriale, commerciale e tecnologica tra questi due giganti economici. Si diede così inizio a un processo di de-globalizzazione, il cui corso futuro rimane incerto e, quindi, sconosciuto, quantomeno in parte. Si sa, tuttavia, che esso non favorirà alcun accumulo di capitale in quei Paesi centrali che in qualche modo sostengono l'ordine mondiale. Al contrario, aggraverà certamente il conflitto sociale ed economico esistente, sia tra le nazioni del mondo sia al loro interno.
Rodrik evidenzia anche questa contraddizione - oltre alle altre che sottolinea - vista come causa interna dell'inversione della globalizzazione: «la logica, a somma zero, della sicurezza nazionale e della competizione geopolitica era in contraddizione con la logica a somma positiva della cooperazione economica internazionale. Con l'ascesa della Cina, in quanto rivale geopolitico degli Stati Uniti, e l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, è tornata ad affermarsi la competizione strategica, rispetto all'economia», cioè, rispetto alla logica dell'insaziabilità del capitale. Da economista dello sviluppo, Rodrik ritiene che il recente processo di espansione del capitale abbia prodotto una «redistribuzione del reddito, dai perdenti a favore dei vincitori», come se nel capitalismo questo fosse un dato eccezionale. Egli inoltre sostiene che questo processo avrebbe indebolito gli Stati, nei confronti del potere delle grandi imprese commerciali, industriali e finanziarie transnazionali. E che, pertanto, la logica dei mercati mondiali autonomi ha finito per minare la legittimità dei governi eletti a livello nazionale, aprendo così anche lo spazio per l'avanzata del fascismo, il quale cresce sempre spontaneamente nelle società fondate sull'economia capitalista, e che cresce e fiorisce proprio nei momenti di blocco e di stagnazione del processo di accumulazione. Ora, il movimento di contrazione della globalizzazione, e dell'intensificazione dei conflitti imperialisti, sta insinuando un dubbio crudele nelle menti di quegli economisti che abbracciano amorevolmente il sistema economico della relazione di capitale: le condizioni di sopravvivenza e di prosperità di questo sistema peggioreranno necessariamente? O finiranno per migliorare? Ecco come questo economista vede gli scenari futuri:
«Con il collasso dell'iperglobalizzazione, gli scenari per l'economia mondiale passano da un estremo all'altro. L'esito peggiore - quello che ricorda gli anni Trenta - potrebbe essere il ripiegamento di alcuni Paesi (o gruppi di Paesi) verso l'autosufficienza. Una possibilità di certo meno negativa, ma pur sempre negativa, è quella secondo cui la supremazia della geopolitica significherebbe che alla fine le guerre commerciali e le sanzioni economiche diverranno, a livello internazionale, una caratteristica permanente del commercio e della finanza».
Ci sono diversi scenari possibili:
«Il primo scenario sembra improbabile - l'economia mondiale è più interdipendente che mai e i costi economici sarebbero enormi - ma non possiamo certo escludere il secondo. Tuttavia, è anche possibile prevedere uno scenario positivo dove si raggiunga un migliore equilibrio tra le prerogative dello Stato nazionale e le esigenze di un'economia aperta. Un simile riequilibrio può consentire, internamente, una prosperità duratura, e pace e sicurezza nel mondo».
Secondo l'autore, questa terza possibilità, per quanto difficile, sarebbe realizzabile a patto che «i responsabili politici riparino i danni causati dall'iperglobalizzazione», in termini di equilibrio delle forze geopolitiche, di redistribuzione del reddito, di legittimità politica, ecc., con l'obiettivo di ottenere «prosperità e giustizia». Belle parole, e bello scilinguagnolo. Nel regno della fantasia - com'è noto - è sempre possibile sopprimere le contraddizioni del mondo reale, ripensando le cose in modo irenica, vale a dire, in termini di equilibrio, consenso, cooperazione, razionalità, ecc. Pertanto, diventa fondamentale tornale al grafico iniziale. Anche se Rodrick, tuttavia, intende attuare un'altra svolta: intende tornare, facendo un'altra strada, a quelle condizioni del dopoguerra allorché le politiche keynesiane sembravano avessero successo riguardo il promuovere lo stato sociale. Allo stesso modo di altri economisti progressisti, egli ritiene che nelle condizioni attuali sia ancora possibile riprodurre qualcosa di simile a quello che si è verificato nell'«età dell'oro», ossia il modello di capitalismo che è durato dal 1945 fino alla metà degli anni Settanta. Ora, questo capitalismo è stato reso possibile solo grazie agli alti tassi di profitto allora prevalenti. L'ottimista di cui stiamo parlando, simile a tutti gli altri facenti parte dell'«esercito della salvezza» del capitalismo, ripone però la sua fede nella forza della politica economica: «se alla fine lo scenario distopico si concretizzerà, ciò non avverrà a causa di forze sistemiche... ma sarà solo perché sono state fatte delle scelte sbagliate»!
Nella sfera del pensiero, l'individualismo metodologico - che postula e assume l'individuo come se fosse un soggetto a pieno titolo - produce dei veri e propri miracoli, ma ovviamente non riesce a farlo nel mondo realmente esistente. Le teorie che astraggono le alienazioni che affliggono i «soggetti» sociali e sopprimono le contraddizioni, abbondano in quel mainstream nel quale viaggia la maggior parte degli economisti. Così, i possibili stati di equilibrio e riequilibrio possono essere pensati da loro a piacimento, come se fossero delle soluzioni inesistenti ai problemi realmente esistenti. Però, dal punto di vista della critica dell'economia politica, i picchi del processo di espansione, così come le crisi e i periodi di stagnazione, in genere hanno una base strutturale. Vengono tutte generate dal processo contraddittorio dell'accumulazione del capitale stesso. Questo Capitale, come è noto, crea delle barriere, e poi tende a superarle, per poter riprendere il movimento storico in cui si svolge la propria ascesa. Alla ricerca di una migliore performance, la capacità di intervento della politica economica è quindi assai limitata, anzi è solo e puramente complementare.
Ma perché oggi si può parlare di tramonto del capitalismo? E perché, in concomitanza con tutto quanto, la fede nell'efficacia della politica economica è diventata sempre più iperbolica?
Come ha sostenuto Murray Smith, il capitalismo si trova ora di fronte a delle barriere che non può più superare [*2]. La risoluzione delle crisi di sovra-accumulazione richiede la distruzione fisica e «morale» (svalutazione) del capitale, ma il capitalismo contemporaneo basato sulla proprietà collettiva del capitale - ciò a causa - ad esempio - dell'enorme importanza assunta dal capitale azionario e dai fondi in generale, oramai non può più permettere che ciò avvenga. Di conseguenza, come ha sottolineato Wolfgang Streeck, il capitalismo ha smesso di conquistare il futuro, come è avvenuto in passato, e oggi si limita solo a guadagnare tempo per sopravvivere.
Con l'avanzare del processo di globalizzazione, molti eventi associati al cosiddetto sviluppo economico assumono il carattere di problemi globali; e tuttavia, la capacità di affrontarli continua a risiedere a livello nazionale. Come affrontare, ad esempio, l'inquinamento dei mari? Dal momento che a questo livello manca il coordinamento e permangono i conflitti di interesse tra le nazioni - le guerre, ad esempio, continuano a prosperare e sono incoraggiate anche dalle grandi potenze - non si fa nulla di importante per risolvere questi problemi, alcuni dei quali minacciano l'esistenza stessa dell'umanità.
L'incapacità di risolvere i problemi che l'accumulazione del capitale ha creato, è chiaramente dimostrata dall'immobilismo di fatto nei confronti della crisi climatica. Conferenza mondiale dopo conferenza mondiale si creano obiettivi modesti per contenere il riscaldamento globale, ma per quanto modesti non vengono raggiunti. E questo è solo un aspetto della «rottura metabolica» in atto tra la crescente intensità di appropriazione della natura e le basi ecologiche della produzione sociale e della civiltà umana.
Ma non è tutto, come è noto. L'ascesa del neofascismo - con la sua carica di disperazione esistenziale che assume la forma della paranoia criminale - dimostra, sulla scena politica attuale, l'incapacità di affrontare razionalmente i problemi che incombono. In ogni caso, l'insieme delle contraddizioni, insormontabili all'interno dell'attuale modo di produzione, suggerisce, secondo Murray Smith, che l'umanità è già entrata «nell'epoca del tramonto del capitalismo». Vale a dire, o «la società umana trova i mezzi per creare un ordine sociale ed economico più razionale, o la lenta morte del capitalismo porterà, nel suo corso catastrofico, alla distruzione della civiltà umana».
Eleutério F. S. Prado - 7/8/2022 - Pubblicato su Economia e Complexidade
NOTE:
[*1] - Rodrik, Dani – Uma globalização melhor pode surgir das cinzas da hiperglobalização. Project Syndicate, 9 de maio de 2022.
[*2] - Smith, Murray E. G. – Invisible Leviathan – Marx’s law of value in the twilight of capitalism. Haymarket, 2019.
Nessun commento:
Posta un commento