A leggere "Una visita nella miniera", un racconto di poche pagine, si vive una strana esperienza. Seguiamo con calma dieci ingegneri che scendono nella miniera su richiesta della direzione, che vuole scavare nuove gallerie, e li seguiamo uno per uno. Il numero Uno guarda dappertutto, il Due prende appunti sul suo taccuino mentre cammina, il Tre per l'impazienza ha la mania «di mordersi le labbra», il Quattro «col suo dito sempre alzato per aria» parla ininterrottamente, il Cinque «pallido e debole» si preme spesso la mano sulla fronte, Sei e Sette camminano piegati, Otto «s’inginocchia nel sudiciume, nonostante il vestito elegante e percuote il suolo» con il suo piccolo martello, Nove invece spinge una piccola macchina, «una specie di carrozzina per bambini, nella quale si trovano gli apparecchi per le misurazioni. Apparecchi estremamente costosi, sistemati fra la più soffice ovatta», e il Dieci ha un'aria un po' autoritaria, «è un po’ dispotico, ma soltanto per via degli apparecchi». Sono come delle figure, dei disegni, quasi delle coreografie. Li immaginiamo in movimento, così come immaginiamo l'inserviente «sfaccendato» che li accompagna, e il cui compiacimento e superbia fa ridere il narratore. Ma quando il racconto arriva al termine, ci rimane come una sensazione cui è difficile dare un nome.
Non è quella furia sarcastica che ci ha trasmesso Marx quando nel Capitale ha descritto la giornata lavorativa di un operaio, citando: «Questo mio ragazzo (…), da quando aveva 7 anni, ho preso l’abitudine di portarlo sulle spalle, avanti e indietro dalla fabbrica, per via della neve. Il ragazzo lavorava normalmente 16 ore al giorno! (…) Spesso mi inginocchiavo per dargli da mangiare, mentre stava alla macchina, poiché non poteva né lasciarla, né fermarla». Oppure: «Nei laboratori di verniciatura si trovano ragazze di 12 anni che lavorano 14 ore al giorno per tutto il mese, senza alcuna pausa regolare se non due o tre mezz'ore al massimo per i pasti...». E cosa dicono i proprietari della fabbrica? «Non ci risulta che il lavoro, svolto di giorno o di notte, faccia la minima differenza per la salute...» (Di chi sia la salute, a chiederselo è ovviamente Marx). «Non potremmo fare bene», aggiungono i proprietari, «senza il lavoro notturno per i ragazzi sotto i 18 anni. La nostra grande obiezione sarebbe l'aumento dei costi di produzione».
Non è questo il tono di Cechov, dove c'è anche una sorprendente visita a una fabbrica. In Una visita medica Cechov ritrae un giovane specializzando che viene chiamato in campagna per curare la giovanissima ereditiera di una grande fabbrica in cui lavorano centinaia di operai. La diagnosi del medico è che questa giovane donna solitaria, intelligente e colta non ha nulla, assolutamente nulla, se non un'immensa tristezza per lo spreco di vita che questa fabbrica rappresenta, lavoro estenuante, brutalità, sporcizia, tutto questo orrore, e per cosa? Perché la governante francese che vive lì con l'ereditiera e sua madre possa mangiare storione e bere vini molto costosi. La giovane donna accetta felicemente ciò che il medico le dice e la storia si conclude con una nota di speranza: tutto finirà, finirà presto.
Kafka, invece, sceglie di non parlare del lavoro dei minatori, limitandosi a chiamarla «la miniera» e descrivendo dettagliatamente le caratteristiche, i comportamenti, le attitudini; perfino quali sono le pose dei dieci ingegneri. Intorno a tutto ciò, aleggiano come una serie di domande, le quali non vengono mai formulate, ma che tuttavia chiamano l'attenzione del lettore facendolo preoccupare, tanto più che il tono della storia è assai leggero, e si percepisce persino una certa gioia nel seguire questi ingegneri, nell'immaginarli a partire da tutte le loro differenze, le loro conoscenze e la loro arte, le loro sfaccettature.
Fino a quando non ci rendiamo conto che alla fine non ci è stato detto nulla, né sulla natura della miniera, né sulla giornata dei minatori, né su quale sia il perché di questa miniera, e l'approccio fuori campo praticato da Kafka, ha trasformato questi dieci ingegneri in delle marionette vuote e vane, come se fossero uomini vuoti, con la testa imbottita di paglia, come qualche anno dopo avrebbe detto Eliot!
fonte: leslie kaplan
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