giovedì 16 settembre 2021

Il malinconico che, vacillando, difendeva le sue posizioni. Tutte!

Sotto il Segno di Saturno
(ispirato a Susan Sontag, e al suo piccolo grande saggio)

« Nella maggior parte delle foto in cui compare, Benjamin guarda in basso, la mano destra a coprire il viso. La più vecchia tra quelle che conosco ce lo fa vedere nel 1927 - aveva trentacinque anni - con i capelli scuri ondulati su una fronte alta e i baffi al di sopra di un labbro inferiore pieno: giovanile, quasi bello. Con il capo chino, e le spalle avvolte dalla giacca che sembrano quasi partire da dietro le orecchie; il pollice preme sulla mascella; il resto della mano - una sigaretta tra l'indice curvo e tre dita - gli copre il mento; lo sguardo sembra abbassarsi dietro gli occhiali - lo sguardo morbido e sognante del miope - sembra stia galleggiando verso il bordo inferiore sinistro della fotografia. In un'altra foto, scattata alla fine degli anni '30, i capelli ondulati si sono un po' ritratti, lasciandolo appena stempiato, in essa non rimane più alcuna traccia di giovinezza né di avvenenza; il viso si è come allargato e la parte superiore del busto che si intravvede sembra non solo alta, ma enorme, gonfia. I baffi, prima sottili, ora sono più folti e la mano appare paffuta ed è piegata, con il pollice verso il basso, a coprirgli la bocca. Lo sguardo è opaco, o forse semplicemente solo più assorto: potrebbe pensare o ascoltare ("Chi vede senza sentire è molto più preoccupato di chi ascolta senza vedere", scriveva Benjamin nel suo saggio su Kafka). Ci sono alcuni libri dietro la sua testa. In un'altra fotografia scattata nell'estate del 1938, durante l'ultima delle numerose visite che fece a Brecht, il quale dopo il 1933 si trovava in esilio in Danimarca, lo vediamo in piedi davanti alla casa di Brecht: è un vecchio di quarantasei anni, in camicia bianca, cravatta, la catena dell'orologio che fuoriesce dai pantaloni: una figura dimessa e corpulenta che guarda cupamente l'obiettivo. Un'altra foto, del 1937, mostra Benjamin nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Due uomini, di cui non si vedono i volti, a una certa distanza da lui condividono un tavolo. Benjamin è seduto di fronte a destra, probabilmente sta prendendo appunti per il suo libro su Baudelaire e la Parigi del XIX secolo che stava già scrivendo da un decennio. Sta consultando un volume che con la mano sinistra tiene aperto sul tavolo - i suoi occhi non si vedono - presumibilmente, sta guardando il bordo inferiore destro della fotografia. Gershom Scholem, suo intimo amico,  ha descritto la propria impressione di quella che era stata la sua prima occhiata rivolta a Benjamin, quando lo ha visto per la prima volta a Berlino nel 1913, in una riunione congiunta tra un gruppo giovanile sionista ed alcuni membri ebrei dell'Associazione degli studenti liberi tedeschi, il cui leader era per l'appunto Benjamin, allora ventunenne. Parlava "improvvisando, senza neanche mai rivolgere uno sguardo al suo pubblico, con occhi che fissavano un angolo remoto del soffitto, al quale dava l'impressione che stesse arringando con grande intensità e in uno stile che per inciso, per quanto posso ricordare, era già pronto per essere pubblicato”. » 

(da: Susan Sontag, "Sotto il segno di Saturno".)

Benjamin era uno di quelli che i francesi definiscono come «triste». Fin dalla gioventù sembrava essere segnato da «una profonda tristezza», ha scritto Scholem. Egli stesso, si considerava un malinconico, disdegnando in tal modo quelle che erano le moderne etichette psicologiche, e rifacendosi invece piuttosto alla tradizionale classificazione astrologica: «Sono venuto al mondo sotto il segno di Saturno: l'astro che compie la rivoluzione più lenta, il pianeta delle deviazioni e dei ritardi...». I suoi progetti più importanti, il suo libro, pubblicato nel 1928, sul teatro barocco tedesco (il Trauerspiel; letteralmente, il gioco del dolore), e la sua mai portata a termine "Parigi, capitale del diciannovesimo secolo", non possono essere pienamente compresi se non si afferra quanto essi dipendano da una teoria della malinconia.
Benjamin proiettava sé stesso, il suo temperamento, in tutti i suoi grandi temi, e il suo temperamento ha determinato ciò di cui egli ha scelto di scrivere. Ed era ciò che si poteva riconoscere nei suoi temi, tanto quelli che riguardavano le opere barocche del XVII secolo (le quali drammatizzano diverse sfaccettature dell'«accidia saturnina»), quanto ciò che ci parla degli scrittori di cui scriveva in maniera più brillante: Baudelaire, Proust, Kafka, Karl Kraus. Perfino in Goethe ha rintracciato l'elemento saturnino. Infatti, nonostante la polemica intorno al suo grande saggio sulle affinità elettive di Goethe, contro l'interpretazione dell'opera di uno scrittore fatta a partire dalla sua vita, egli mette in atto un uso selettivo della vita per svolgere le sue meditazioni più profonde sui testi: informazioni che rivelavano il malinconico, il solitario (così descrive la «solitudine di Proust che trascina il mondo nel suo vortice»; spiega come Kafka, così come Klee, fossero «essenzialmente solitari»; cita l'«orrore di Robert Walser per il successo nella vita». Non è possibile usare la vita per interpretare l'opera. Ma è possibile utilizzare l'opera per interpretare la vita.

Due brevi libri costituiti di reminiscenze sulla sua infanzia a Berlino e sui suoi anni da studente, scritti nei primi anni '30 e non pubblicati durante la sua vita, contengono l'autoritratto più esplicito di Benjamin. Al malinconico bambino, a scuola e nelle passeggiate con la madre, «la solitudine gli sembrava l'unico status adatto all'uomo». Benjamin non intende la solitudine in una stanza - era spesso malato da bambino - ma la solitudine nella grande metropoli, il mestiere del passeggiatore ozioso, libero di sognare, di osservare, di meditare, di vagare. Lo spirito che doveva attribuire gran parte della sensibilità del XIX secolo alla figura del flâneur, personificata da quel malinconico superbamente cosciente, Baudelaire, traeva gran parte della propria sensibilità dal suo rapporto fantasmagorico, astuto e sottile con le città. La strada, il passaggio, il portico, il labirinto sono temi ricorrenti nei suoi saggi letterari e soprattutto nel suo progetto di libro sulla Parigi del XIX secolo, così come nei suoi pezzi di viaggio e nelle sue reminiscenze (Robert Walser, per il quale il camminare era il centro della sua vita appartata e dei suoi meravigliosi libri, è uno scrittore al quale avremmo tanto voluto che Benjamin avesse dedicato un saggio più lungo). L'unico libro di natura discretamente autobiografica pubblicato durante la sua vita si intitolava "Strada a Senso Unico". Nel quale le reminiscenze del sé sono reminiscenze di un luogo, e di come ci si colloca in esso, come vi naviga intorno.
«Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto», inizia così il suo "Infanzia Berlinese". «Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare... Ho imparato quest'arte tardivamente: ho realizzato i sogni le cui prime tracce erano i labirinti nelle macchie dei miei quaderni». Questo passaggio appare anche in "Cronaca Berlinese" dove Benjamin suggerisce che ci vuole molta pratica per perdersi, considerando l'«impotenza di fronte alla città». Il suo obiettivo è quello di diventare un lettore competente di mappe stradali che sappia però come perdersi. E anche come orientarsi, per mezzo di mappe immaginarie. Altrove, sempre in "Cronaca Berlinese", Benjamin racconta che per anni aveva coltivato l'idea di disegnare una mappa della sua vita. Per questa mappa, che immaginava grigia, aveva inventato un sistema pittorico di segni i quali «segnavano chiaramente le case dei miei amici, le sale di riunione delle varie cooperative, dalle sale di dibattito del Movimento Giovanile, fino ai luoghi di ritrovo della gioventù comunista, alle camere d'albergo e ai bordelli che incontravo durante una notte, e poi le panchine decisive del Tiergarten, i percorsi delle varie scuole e le tombe che vedevo come se fossero, e i luoghi dei caffè prestigiosi i cui nomi, a lungo dimenticati, passavano quotidianamente sulle nostre labbra». Una volta, racconta che, aspettando qualcuno al Café des Deux Magots di Parigi, riuscì a disegnare un diagramma della sua vita: era come un labirinto, in cui ogni relazione importante era contrassegnata come «un ingresso al labirinto».
Le metafore ricorrenti di mappe e diagrammi, ricordi e sogni, labirinti e portici, viste e panorami, evocano una certa visione delle città, così come certi modi di vivere. Parigi, scrive Benjamin, «mi ha insegnato l'arte di andare fuori strada». La rivelazione di quale fosse la vera natura della città non ebbe luogo a Berlino  bensì a Parigi, dove si ritrovò a soggiornare spesso durante gli anni di Weimar, e dove poi visse come rifugiato dal 1933 fino al suo suicidio avvenuto mentre cercava di fuggire dalla Francia nel 1940. Più precisamente, si trattava della Parigi re-immaginata a partire dalle narrazioni surrealiste (Nadja di Breton, Le paysan de Paris di Aragon). Con queste metafore, stava indicando un problema generale di orientamento, e stava ponendo uno standard di difficoltà e complessità (un labirinto è un posto in cui perdersi). In questo modo sta anche suggerendo un concetto di proibito, e di come accedervi: per mezzo di un atto dello spirito che è allo stesso modo un atto fisico. «Intere reti di strade sono state aperte sotto l'egida della prostituzione», scrive in "Cronaca Berlinese", che inizia invocando una tale Arianna, la prostituta che ha condotto questo figlio di genitori benestanti per la prima volta attraverso «le soglie della classe». La metafora del labirinto suggerisce anche l'idea che ha Benjamin degli ostacoli sollevati dal suo stesso proprio temperamento.    
L'influenza di Saturno rende le persone « apatiche, indecise, lente », scrive ne "L'origine del dramma barocco tedesco" (1928). La lentezza è una caratteristica del temperamento malinconico. La disattenzione è un'altra: quella di guardare troppe possibilità, e di non accorgersi della propria mancanza di praticità. E la testardaggine, che nasce dal desiderio di essere superiore alle proprie condizioni. Benjamin ricorda la sua testardaggine durante le passeggiate d'infanzia con la madre, durante le quali trasformava meschini modelli di comportamento in prove della sua attitudine alla vita pratica, rafforzando così ciò che era invece inetto («la mia incapacità, ancora oggi, di farmi una tazza di caffè») e in maniera sognante, recalcitrante nella sua natura. «La mia abitudine di apparire più lento, più goffo, più stupido di quello che sono, ha avuto la sua origine in tali passeggiate, e ha il grande pericolo concomitante di farmi credere di essere più veloce, più abile e più astuto di quello che sono in realtà». E da questa testardaggine nasce, «prima di ogni altra cosa, uno sguardo che sembra non riuscire a vedere nemmeno un terzo di ciò che percepisce».

« Il genio del surrealismo consisteva nel generalizzare con ribollente candore il culto barocco delle rovine; nel percepire che le energie nichiliste dell'epoca moderna fanno di ogni cosa una rovina o un frammento, e pertanto collezionabile.» (Susan Sontag).
"Strada a senso unico" distilla le esperienze dello scrittore e dell'amante (è dedicato ad Asja Lacis, la quale «passò attraverso lo scrittore»)[*1], esperienze che si possono intuire fin dalle prime parole sulla situazione dello scrittore e che toccano il tema del moralismo rivoluzionario, fino al suo finale, "Al Planetarium", un inno al corteggiamento tecnologico della natura e all'estasi sessuale. Benjamin poteva scrivere di sé in modo più diretto quando attingeva ai ricordi, quando scrive di sé da bambino, e non quando si riferisce alle esperienze contemporanee attuali. Dalla distanza, quella rispetto all'infanzia, può osservare la sua vita come se fosse uno spazio che può essere tracciato sulla mappa. La franchezza, e lo sfogo dei sentimenti dolorosi nell'Infanzia a Berlino intorno al 1900 e in "Cronaca berlinese" diventano possibili proprio perché Benjamin ha adottato un modo assolutamente analitico di raccontare il passato. Evoca gli eventi attraverso le reazioni agli eventi, i luoghi attraverso le emozioni che ha riposto in essi, le altre persone attraverso gli incontri con sé stesso, i sentimenti e i comportamenti attraverso le intuizioni di quelle che potrebbero essere le passioni future e i fallimenti in esse contenuti. Le fantasie che parlano dei mostri che si muovono liberi nel grande appartamento, mentre i suoi genitori intrattengono i loro amici, prefigurano la sua repulsione nei confronti della propria classe: il sogno di poter dormire quanto vuole, anziché doversi alzare presto per la scuola, si realizzerà allorché - dopo che il suo libro sul Trauerspiel non è servito a guadagnare una cattedra universitaria - si renderà conto che «le sue speranze di una posizione e di un modo di vivere sicuri sono sempre state false»: il suo modo di camminare con sua madre, «con attenta pedanteria», mantenendosi a un passo dietro di lei, già prefigura il suo «sabotaggio dell'esistenza sociale stessa».
Benjamin considera tutto ciò che del suo passato sceglie di ricordare, come profetico del futuro, poiché il lavoro della memoria («la lettura di sé stessi all'indietro», come lo chiamava) nega il tempo. Non c'è un ordine cronologico delle sue reminiscenze, alle quali altresì nega il nome di autobiografia, perché il tempo non ha rilevanza («L'autobiografia ha a che fare con il tempo, con la sequenza e con ciò che forma il flusso continuo della vita», scrive in Cronanca Berlinese. «Qui, sto parlando invece di uno spazio di momenti e discontinuità»). Benjamin, traduttore di Proust, scrisse frammenti di un'opera che avrebbe potuto essere chiamata "A la recherche des espaces perdus". La memoria, la messa in scena del passato, trasforma il flusso degli eventi in immagini. Benjamin non cerca di recuperare il suo passato, ma di comprenderlo: di condensarlo nelle sue forme spaziali, nelle sue strutture premonitrici.
Per i drammaturghi barocchi, scrive ne "L'origine del dramma barocco tedesco", «il movimento cronologico rimane catturato e viene analizzato in un'immagine spaziale». Il libro Trauerspiel non è la prima spiegazione di Benjamin a proposito di ciò che significa trasformare il tempo in spazio: è dove spiega più chiaramente il sentimento che sta alla base di questo passo. Immerso nella malinconica consapevolezza della «cronaca sconsolata della storia universale», in quello che è un processo di decadenza incessante, il drammaturgo barocco cerca di sfuggire alla storia e ripristinare l'«atemporalità» del paradiso. La sensibilità barocca del XVII secolo ha una «concezione panoramica della storia: 'la storia si fonde con la scena'». In Infanzia Berlinese, intorno al 1900, e in Cronaca Berlinese, Benjamin fonde la sua vita con l'ambiente. È la città surrealista che è succeduta al palcoscenico barocco: il paesaggio metafisico nei cui spazi onirici le persone conducono «una breve, ombrosa esistenza», come il poeta diciannovenne il cui suicidio - il grande rimpianto degli anni da studente di Benjamin - si condensa nel ricordo delle stanze dove viveva il caro amico. I temi ricorrenti di Benjamin sono, caratteristicamente, mezzi di spazializzazione del mondo: per esempio, la sua nozione di idee ed esperienze come rovine. Capire qualcosa coincide con il capire la sua topografia, sapere come mapparla. E sapere come perdersi. Per il personaggio nato sotto il segno di Saturno, il tempo è un mezzo di coercizione, di inadeguatezza, di rappresentazione, di mera realizzazione. Nel tempo, si è solo ciò che si è: ciò che si è sempre stati. Nello spazio, si può essere qualcun altro. Lo scarso senso dell'orientamento di Benjamin e la sua incapacità di leggere una mappa stradale diventano il suo amore per i viaggi e la sua padronanza dell'arte di perdersi. Il tempo non ci concede molto tempo: ci prende alle spalle e ci sbatte per terra, ci soffia via attraverso lo stretto imbuto del presente verso il futuro. Ma lo spazio è ampio, pieno di possibilità, posizioni, intersezioni, passaggi, curve, inversioni a U, vicoli ciechi e strade a senso unico. Troppe possibilità, davvero. Poiché il temperamento saturniano è lento, incline all'indecisione, a volte bisogna tagliarsi la strada con un coltello. A volte finiamo per rivolgere il coltello contro noi stessi.
Il marchio del temperamento saturniano, è il rapporto autocosciente e spietato con l'ego che non può mai essere dato per scontato. L'ego è un testo: dev'essere decifrato. (Per questo è un buon temperamento per gli intellettuali). L'ego è un progetto, qualcosa da costruire (e perciò è  anche un buon temperamento per gli artisti e i martiri, quelli che corteggiano «la purezza e la bellezza di un fallimento», come dice Benjamin di Kafka); e il processo di costruzione dell'ego e delle sue opere è sempre troppo lento. Si rimane sempre dietro a se stessi. Le cose appaiono a una certa distanza, si avvicinano lentamente. In Infanzia Berlinese, Benjamin parla della sua «propensione a vedere avvicinarsi da lontano tutto ciò che lo interessa»; il modo in cui, da bambino, spesso malato, immaginava che le ore che si avvicinassero al suo letto. «È questa forse l'origine di ciò che in me gli altri chiamano pazienza, ma in realtà non assomiglia a nessuna virtù». (Naturalmente, ci sono stati altri l'hanno vissuta come pazienza, come una virtù. Scholem lo ha descritto come «l'essere umano più paziente che abbia mai conosciuto»).
Ma per il lavoro di decifrazione del malinconico, è necessario qualcosa di simile. Proust, come nota Benjamin, era entusiasta del «linguaggio segreto dei salotti»; Benjamin era attratto da codici più compatti. Collezionava libri illustrati di emblemi, gli piaceva formare anagrammi, giocava con gli pseudonimi. La sua inclinazione per gli pseudonimi ha preceduto di molto le sue esigenze di rifugiato ebreo tedesco, che in quanto tale, dal 1933 al 1936 continuò a pubblicare recensioni su riviste tedesche con il nome di Detlev Holv, nome con cui firmò anche il suo ultimo libro apparso in vita, Deutsche Menschen, pubblicato in Svizzera nel 1936. Nel sorprendente racconto scritto a Ibiza nel 1933, "Agesilaus Santander", Benjamin parla della sua fantasticheria di avere un nome segreto; il nome di questo testo - che ruota intorno al disegno di Klee da lui posseduto, "Angelus Novus" - è, come ha sottolineato Scholem, un anagramma di Der Angelus Santanas. Benjamin era uno «straordinario» grafologo, riferisce Scholem, sebbene «più avanti tenderà a nascondere tale dono». Per il malinconico, la dissimulazione e la segretezza sembrano una necessità. Ha relazioni complesse e spesso velate con gli altri. Questi sentimenti di superiorità, di inadeguatezza, di frustrazione, di non essere in grado di ottenere ciò che si vuole, o anche di dare a tutto ciò un nome che sia adeguato (o coerente) ai propri occhi, possono essere - si sente che devono essere - nascosti dall'amabilità o dalla manipolazione più scrupolosa; tanto per usare una parola che è stata applicata a Kafka anche da coloro che lo conoscevano. Scholem parla della «cortesia quasi cinese» che caratterizzava i rapporti di Benjamin aveva con le persone. Ma non ci sorprende affatto apprendere - dall'uomo che poteva giustificare «le invettive di Proust contro l'amicizia» - che Benjamin era anche in grado di abbandonare brutalmente i propri amici, così come abbandonò i suoi compagni del Movimento Giovanile allorché questi non lo interessarono più. Nessuno si sorprende di apprendere che quest'uomo puntiglioso, intransigente, ferocemente serio poteva anche adulare delle persone che con ogni probabilità non considerava sue pari, che poteva permettersi di «lasciarsi prendere all'amo» (parole sue) e consentire che durante le su visite in Danimarca, Brecht lo trattasse con condiscendenza. Questo principe della vita intellettuale poteva essere anche un cortigiano!
Per mezzo della sua teoria della melanconia, Benjamin, ne "L'origine del dramma barocco tedesco" ha analizzato entrambi i ruoli. Una caratteristica del temperamento saturnino è la lentezza: «Il tiranno cade a causa della parsimonia delle proprie emozioni». «Un'altra caratteristica della predominanza saturniana», asserisce Benjamin, è «l'infedeltà». Ciò viene rappresentato dal personaggio del cortigiano nel dramma barocco, il cui spirito è «la fluttuazione di tale infedeltà». La manipolabilità del cortigiano è in parte una «mancanza di carattere»; ma in parte riflette una «soggezione melanconica e sconsolata a un ordine, ritenuto impenetrabile, di costellazioni maligne, un ordine che assume un carattere senz’altro cosale». Solo qualcuno che si sia identificato con questo senso di catastrofe storica, on questo grado di sconforto avrebbe potuto spiegare perché il cortigiano non è da disprezzare. La sua infedeltà verso i suoi compagni, sostiene Benjamin, corrisponde alla «fede più profonda e contemplativa» che ha negli emblemi materiali. Quello che Benjamin descrive potrebbe essere inteso come una semplice patologia: la tendenza del temperamento malinconico a proiettare all'esterno il suo torpore interiore in quanto immutabilità della sventura che viene vissuta come «massiccia, quasi fosse una cosa». Ma il suo argomentare è ancora più audace: ci ammonisce,  dicendo che le transazioni profonde tra il malinconico e il mondo avvengono sempre a partire dalle cose (e non dalle persone). E si tratta di transazioni autentiche, che rivelano un significato. Proprio in quanto ossessionato dalla morte, è il malinconico a saper leggere meglio il mondo. Il mondo si apre allo sguardo del malinconico come a nessun altro. Quanto più le cose sono inerti, tanto più potente e ingegnoso può essere lo spirito che le contempla. Se questo temperamento malinconico si dimostra poco leale con le persone, ha però delle buone ragioni per rimanere fedele alle cose. La fedeltà attiene alle cose che si accumulano, che appaiono, per più, nella forma di frammenti o di rovine. (« È pratica comune nella letteratura barocca ammassare frammenti incessantemente », scrive Benjamin) Sia il barocco che il surrealismo, sensibilità verso cui Benjamin sente forte affinità, vedono la realtà come cose. Benjamin sente forte affinità con, vedendo la realtà come cose. Descrive il barocco come se fosse un mondo di cose (emblemi, rovine) e di idee specializzate («Nel regno del pensiero, le allegorie corrispondo a ciò che le rovine sono nel regno delle cose»). Il genio del surrealismo consisteva nel generalizzare con entusiastica franchezza il culto barocco delle rovine: nel segnalare che le energie nichiliste dell'età moderna fanno di ogni cosa una rovina o un frammento, e pertanto collezionabile. Un mondo il cui passato è diventato obsoleto (per definizione), e il cui presente produce antichità istantanee, e pertanto convoca custodi, decifratori, collezionisti.

E come una sorta di collezionista, anche lo stesso Benjamin è rimasto fedele alle cose, in quanto cose. Secondo Scholem, mettere insieme e formare la sua biblioteca, che comprendeva molte prime edizioni e libri rari, era stata «la sua passione personale più duratura«. Inerte di fronte al disastro delle cose, il temperamento malinconico si galvanizza spinto dalle passioni provocate dagli oggetti privilegiati. I libri di Benjamin non erano lì solo per essere usati da lui, strumenti professionali: erano oggetti contemplativi, stimoli per la fantasticheria. La sua biblioteca evoca «ricordi delle città dove ho trovato tante cose: Riga, Napoli, Monaco, Danzing, Mosca, Firenze, Basilea, Parigi... ricordi delle stanze in cui questi libri erano stati ospitati...». La caccia al libro, come la caccia al sesso, amplia la geografia del piacere, e diventa un altro motivo per tornare a vagare per il mondo. Nel collezionare, Benjamin ha sperimentato ciò che in lui era astuto, trionfante, intelligente, apertamente appassionato. «I collezionisti sono persone che hanno un istinto tattico»: proprio come i cortigiani.
Oltre alle prime edizioni e ai libri di emblemi barocchi, Benjamin si era specializzato in libri per bambini e in libri scritti da pazzi. «Le grandi opere, che significavano così tanto per lui», riferisce Scholem, «erano stranamente collocate accanto agli scritti rari e alle maggiori bizzarrie». La strana disposizione della biblioteca corrispondeva alla strategia di lavoro di Benjamin, che con occhio ispirato dal surrealismo e capace di trovare veri e propri tesori di significato nell'effimero, nello screditato e nel dimenticato, lavorava seguendo la sua fedeltà al canone tradizionale del gusto colto. Gli piaceva trovare le cose dove nessuno le stava cercando. Dal cupo e disprezzato dramma barocco tedesco trasse elementi di sensibilità moderna (cioè la sua): un gusto per l'allegoria, effetti shock surreali, espressioni discontinue, un senso della catastrofe storica. «Queste pietre erano il pane della mia immaginazione», scriveva da Marsiglia, la più recalcitrante delle città a quell'immaginazione, anche se era aiutata da una dose di hashish: nell'opera di Benjamin, molti riferimenti scontati sono assenti; non gli piaceva leggere quello che leggevano tutti gli altri. A Freud, come teoria psicologica, preferiva la dottrina dei quattro temperamenti. Ha preferito essere un comunista, o cercare di esserlo, senza mai leggere Marx. Quest'uomo che leggeva praticamente tutto e che aveva passato quindici anni a simpatizzare con il comunismo rivoluzionario, non aveva quasi mai dato un'occhiata a Marx, se non fino alla fine degli anni trenta (leggeva "Il diciottesimo Brumaio" durante la sua visita a Brecht in Danimarca nell'estate del 1938). Il suo senso della strategia era uno dei suoi punti di immedesimazione con Kafka, un tattico potenziale simile a lui, che «prendeva precauzioni contro l'interpretazione dei suoi scritti». L'intero problema dei racconti di Kafka, sostiene Benjamin, è che non hanno un significato definito e simbolico. Ed era affascinato dal senso assai diverso, non ebraico, dell'astuzia messa in atto da Brecht, l'anti-Kafka della sua immaginazione (com'era prevedibile, Brecht disprezzava intensamente il grande saggio di Benjamin su Kafka). Brecht, con il suo asinello di legno vicino alla scrivania, dal cui collo pendeva il cartello «Anch'io devo capirlo», rappresentava per Benjamin - ammiratore di testi religiosi esoterici - lo stratagemma, forse potente, in grado di ridurre la complessità, di rendere tutto chiaro. La relazione "masochista" (parola di Siegfried Kracauer) di Benjamin con Brecht, che la maggior parte dei suoi amici deplorava, mostra quanto egli fosse affascinato da questa possibilità.
La propensione di Benjamin consiste nell'andare contro l'interpretazione abituale. «Tutti i colpi decisivi vengono assestati con la mano sinistra», come dice in Strada a Senso Unico. Proprio perché ha visto che «tutta la conoscenza umana assume la forma dell'interpretazione», egli ha capito che l'importanza di andare contro l'interpretazione ovunque è evidente. La sua strategia più comune è quella di togliere il simbolismo da alcune cose - come fa con i racconti di Kafka o con le affinità elettive di Goethe (testi su cui tutti sono d'accordo che ci siano) - e andarlo a trovare in altre, laddove nessuno sospetta la loro esistenza (come le opere barocche tedesche, che Benjamin legge come se fossero allegorie del pessimismo storico). «Ogni libro è una strategia», ha scritto. In una lettera a un suo amico, affermò, solo in parte per scherzo, che i suoi scritti avevano 49 livelli di significato. Per i moderni così come per i kabbalisti, niente è semplice. Tutto è - come minimo - difficile: «L'ambiguità sparge l'autenticità dappertutto», ha scritto in Strada a Senso Unico. La cosa più estranea a Benjamin è tutto ciò che assomiglia all'ingenuità: «L'occhio non velato e innocente è diventato una bugia».
Gran parte dell'originalità degli argomenti di Benjamin è dovuta al suo sguardo microscopico (come lo definì il suo amico e discepolo Theodor Adorno), combinato con la sua instancabile padronanza delle prospettive teoriche. «Erano le piccole cose che lo attraevano di più», scrive Scholem. Gli piacevano i vecchi giocattoli, i francobolli, le cartoline e altre miniaturizzazioni giocose della realtà, come il mondo in inverno dentro un globo di vetro sul quale cade la neve quando lo si scuote. La sua scrittura era quasi microscopica, e la sua ambizione mai realizzata, dice Scholem, era quella di scrivere cento righe su un foglio di carta (questa ambizione venne realizzata da Robert Walser, il quale trascriveva i manoscritti dei suoi racconti e dei romanzi sotto forma di microgrammi, in una scrittura veramente microscopica). Scholem racconta che quando fece visita a Benjamin, a Parigi nell'agosto del 1927 (la prima volta che i due amici si incontrarono dopo che Scholem era emigrato in Palestina nel 1923), Benjamin lo portò a una mostra di oggetti rituali ebraici, al Musée Cluny, per mostrargli «due chicchi di grano su cui un'anima affine aveva iscritto l'intero Shema Israel»[*2]. Miniaturizzare vuol dire rendere portatile; la forma di possesso ideale per un viaggiatore o per un rifugiato. Benjamin, naturalmente, era sia un vagabondo sulla strada che un collezionista sopraffatto dalle cose, cioè dalle passioni. Miniaturizzare è nascondere. Benjamin era attratto dall'estremamente piccolo, come da tutto ciò che doveva essere decifrato: emblemi, anagrammi, scritte.

«Solo perché il passato è morto possiamo leggerlo. Solo perché la storia è feticizzata in oggetti fisici possiamo capirla. Solo perché il libro è un mondo possiamo entrarci.» (Susan Sontag)
Miniaturizzare significa rendere inutile. Perché tutto ciò che viene grottescamente ridotto è, in un certo senso, liberato dal suo significato: in esso, ciò che è notevole è la sua piccineria. È allo stesso tempo un tutto (ossia, è completo) e un frammento (talmente piccolo, che la scala appare sbagliata). Diventa un oggetto di contemplazione disinteressata o di fantasticheria. L'amore per il piccolo è un'emozione infantile, che il surrealismo ha colonizzato. La Parigi dei surrealisti è «un piccolo mondo», osserva Benjamin; così come la fotografia, che il gusto surrealista ha scoperto rendendolo un oggetto enigmatico, persino perverso, e non semplicemente intelligibile o bello, e di cui Benjamin ha scritto con così tanta originalità. Il malinconico si sente continuamente minacciato dal dominio della somiglianza delle cose, ma il gusto surrealista si fa beffe di questi terrori. Il grande contributo del surrealismo alla sensibilità è consistito nel rendere la malinconia gioiosa. «L'unico piacere che il melanconico si concede, ed è un piacere potente, è l'allegoria», scrive Benjamin ne "L'origine del dramma barocco tedesco". In realtà, affermava solo che l'allegoria è il modo tipico che ha il malinconico di leggere il mondo, e stava citando Baudelaire: «Per me, tutto diventa allegoria». Il processo di trarre significato dal pietrificato e dall'insignificante - l'allegoria - è il metodo del dramma barocco tedesco e di Baudelaire (i principali soggetti di Benjamin); e, trasmutato in argomento filosofico e analisi micrologica delle cose, è il metodo che Benjamin stesso ha praticato. Il malinconico vede il suo mondo diventare una cosa: rifugio, conforto, incanto. Poco prima della sua morte, Benjamin stava progettando un saggio sulla miniaturizzazione vista come risorsa della fantasia. Sarebbe stato il proseguimento di un vecchio progetto di scrivere su La nuova Melusina di Goethe (in Wilhelm Meister), che parla di un uomo che si innamora di una donna che è in realtà una persona minuscola, cui temporaneamente è stata concessa una grandezza normale; a sua insaputa, lei stessa porta con sé una scatola contenente il regno in miniatura di cui è principessa. Nel racconto di Goethe, il mondo è ridotto a una cosa da collezionare, un oggetto, nel senso più letterale. Come la scatola della favola di Goethe, un libro non è solo un frammento di mondo ma è, di per sé, un piccolo mondo. Il libro è una miniaturizzazione del mondo che il lettore abita. In Cronaca Berlinese, Benjamin evoca le sue emozioni infantili: «Non si leggono i libri da cima a fondo; si vive tra le loro righe». Così, alla fine, alla lettura - il delirio del bambino - si aggiunge la scrittura, l'ossessione dell'adulto. Il modo più lodevole di accumulare libri è quello di scriverli, osserva Benjamin nel suo saggio "Tolgo la mia biblioteca dalle casse". E inoltre il modo migliore per capirli è entrare nel loro spazio: non si capisce mai veramente un libro se non lo si copia, dice in Strada a Senso Unico, allo stesso modo in cui non si capisce mai un paesaggio visto da un aereo se non lo si attraversa.
«La quantità di significato è in proporzione esatta alla presenza della morte e alla potenza della decomposizione», scrive Benjamin nel libro sul Trauerspiel. Una cosa simile, è ciò che rende possibile trovare un senso nella propria vita, negli «eventi morti del passato che vengono eufemisticamente riconosciuti come esperienze». È solo perché il passato è morto che possiamo leggerlo. Solo perché la storia è stata feticizzata in oggetti fisici, possiamo capirla. Solo perché il libro è un mondo, possiamo entrarci. Il libro era per lui un altro spazio in cui vagare. Per il personaggio nato sotto il segno di Saturno, il vero impulso - quando viene guardato - è quello di abbassare gli occhi e contemplare un angolo più o meno lontano. Meglio ancora: si può chinare il capo sul taccuino. Oppure appoggiare la testa sul libro posto su uno scaffale.

È caratteristico del temperamento saturniano attribuire alla volontà quella che invece è la sua corrente sotterranea di interiorizzazione. Convinto com'è che la volontà sia debole, il malinconico può compiere sforzi stravaganti per svilupparla. E se questi sforzi hanno successo, l'ipertrofia della volontà che ne risulta di solito prende la forma di una devozione compulsiva al lavoro. Così Baudelaire, che soffriva costantemente di «accidia, la malattia dei monaci», terminava molte lettere, e i suoi "Diari intimi",  con i più appassionati propositi di lavorare di più, di lavorare ininterrottamente, di non fare altro che lavorare (la disperazione per «ogni sconfitta della volontà» - altra frase baudelairiana - diventa così una lamentela caratteristica degli artisti e degli intellettuali moderni, in particolare di quelli che sono entrambe le cose). Siamo condannati a lavorare: altrimenti non potremmo fare nulla. Perfino il sognare del temperamento malinconico è soggetto al lavoro; e il malinconico può cercare di coltivare stati fantasmagorici, come i sogni, o cercare di accedere a quegli stati concentrati di attenzione che offrono le droghe. Il surrealismo ha semplicemente messo un accento positivo su ciò che Baudelaire aveva vissuto così tanto negativamente: non viene deplorata la canalizzazione della volontà, ma piuttosto elevata a ideale, proponendo che sarebbe possibile contare sugli stati del sogno per riuscire a fornire tutto il materiale necessario al lavoro.
Benjamin, sempre lavorando, sempre cercando di lavorare di più, ha speculato molto sull'esistenza quotidiana dello scrittore. Strada a Senso Unico ha diverse sezioni che offrono prescrizioni per il lavoro: le migliori condizioni, gli orari, gli utensili. Parte del motivo dell'ingente corrispondenza che intratteneva è stato quello di fare la cronaca, di riferire, e di confermare l'esistenza del suo lavoro. Il suo istinto di collezionista gli è stato utile. L'apprendimento era una forma di collezionismo, come quello che faceva delle citazioni e dei frammenti tratti dalle letture quotidiane che Benjamin accumulava nei quaderni che portava con sé e dai quali leggeva ai suoi amici, ad alta voce. Anche pensare era una forma di collezionismo,  lo era quantomeno nelle sue fasi preliminari: annotava coscienziosamente le idee vaganti; nelle lettere ai suoi amici, sviluppava dei mini-saggi; riscriveva continuamente dei piani per opere future; scriveva i suoi sogni (molti di essi li troviamo raccontati in Strada a Senso Unico); teneva elenchi numerati di tutti i libri che leggeva (Scholem ricorda di aver visto, durante la sua seconda e ultima visita a Benjamin a Parigi nel 1938, un quaderno di quelle che erano le sue letture di allora, in cui il "Diciotto Brumaio" di Marx veniva elencato al numero 1649).

Come ha fatto il malinconico a diventare un eroe della volontà? Per mezzo del lavoro, che può diventare una droga, una compulsione («Pensare, è un eccellente narcotico», ha scritto nel saggio sul Surrealismo). In effetti, i malinconici sono i migliori drogati che ci siano, e questo poiché la vera esperienza di dipendenza è sempre solitaria. Le sedute di hashish della fine degli anni '20, supervisionate da un medico suo amico, erano esercizi prudenti, e non atti di resa; erano materiale per lo scrittore, e non fuga dalle esigenti esazioni della volontà (Benjamin considerava il libro che voleva scrivere sull'hashish uno dei suoi progetti più importanti).
Il bisogno di stare da solo - insieme all'amarezza per la propria solitudine - è caratteristico del malinconico. Per portare a termine il lavoro, bisogna essere soli, o almeno non si deve essere impegnati in alcuna relazione permanente. I sentimenti negativi di Benjamin riguardo il matrimonio appaiono chiari nel suo saggio sulle Affinità elettive di Goethe. I suoi eroi - Kierkegaard, Baudelaire, Proust, Kafka, Kraus - non si sposarono mai; e Scholem ci informa che Benjamin arrivò a considerare il proprio matrimonio (si sposò nel 1917, si separò dalla moglie nel 1921 e divorziò nel 1930) «come fatale per lui». Il mondo della natura e delle relazioni, dal temperamento malinconico  viene percepito come abbastanza poco seducente. L'autoritratto di Infanzia a Berlino arriva al 1900 e Cronaca berlinese parla di un figlio totalmente estraniato; come marito e padre (ebbe un figlio, nato nel 1918, che a metà degli anni '30 emigrò in Inghilterra con l'ex moglie di Benjamin), sembra che semplicemente non sapesse cosa farsene di queste relazioni. Per il malinconico, il naturale, sotto forma di legami familiari, introduce il falsamente soggettivo, il sentimentale; è un dissanguamento della volontà, dell'indipendenza, della libertà di concentrarsi sul lavoro. Presenta anche una sfida alla propria umanità, una sfida che il malinconico sa già, in anticipo, che è al di sopra della sue forze.
Lo stile di lavoro del malinconico è l'immersione, la concentrazione totale. O si trova immerso, o la sua attenzione è già dispersa. Come scrittore, Benjamin era capace di una concentrazione straordinaria. Fu anche capace di ricercare e scrivere "Le origini del dramma barocco tedesco" in due anni; una parte di esso, se ne vanta nella Cronaca Berlinese, fu scritta in lunghe serate passate in un caffè, seduto accanto a un'orchestra jazz. Ma anche se Benjamin ha scritto in modo prolifico - in alcuni periodi, consegnando ogni settimana un lavoro per le riviste letterarie e i giornali tedeschi - gli è sempre stato impossibile scrivere di nuovo un libro di dimensioni normali. In una lettera del 1935, Benjamin parla del «ritmo saturnino» della scrittura di "Parigi, capitale del XIX secolo", che aveva iniziato nel 1927, e che pensava di poter finire in due anni. La sua forma caratteristica è rimasta il saggio. L'intensità e l'esaustività dell'attenzione del malinconico pone però dei limiti naturali alla misura in cui Benjamin può sviluppare le sue idee. I suoi grandi saggi sembrano finire esattamente in tempo, prima che si autodistruggano.
«Un libro non è solo un frammento di mondo ma è, di per sé, un piccolo mondo. Il libro è una miniaturizzazione del mondo che il lettore abita». Le sue frasi non sembrano nascere nel modo usuale: non comunicano tra di loro. Ogni frase è scritta come se fosse la prima, oppure l'ultima («Uno scrittore deve fermarsi e ricominciare con ogni nuova frase», dice nel prologo de "L'origine del dramma barocco tedesco"). I processi mentali e storici vengono presentati come delle immagini concettuali; le idee sono trascritte in extremis, e le prospettive intellettuali sono vertiginose. Il suo stile di pensiero e di scrittura, erroneamente descritto come aforistico, potrebbe essere meglio chiamato un rigido quadro barocco. Era una tortura conformarsi a un simile stile. Era come se ogni frase dovesse dire tutto, prima che lo sguardo di concentrazione totale finisse per dissolvere il soggetto davanti ai suoi occhi. Benjamin probabilmente non esagerò affatto quando disse ad Adorno che ogni idea nel suo libro su "Baudelaire e la Parigi del XIX secolo" «doveva essere strappata da un regno in cui si trova la follia»[*3].
Qualcosa di simile alla paura di essere interrotto prematuramente, sta dietro tutte queste frasi sature di idee allo stesso modo in cui la superficie di un quadro barocco è piena di movimento. In una lettera ad Adorno del 1935, Benjamin descrive i suoi sfoghi quando gli era capitato di leggere per la prima volta "Le Paysan de Paris" di Aragon, il libro che aveva ispirato "Parigi, capitale del XIX secolo": «non posso leggere più di due o tre pagine senza che il mio cuore cominci a battere talmente forte da costringermi a mettere via il libro.Quale monito!» L'arresto cardiaco è il limite metaforico degli sforzi e delle passioni di Benjamin. (Soffriva di insufficienza cardiaca.) E l'insufficienza cardiaca è una metafora che egli ci offre per la realizzazione dello scrittore. Nel saggio in lode di Karl Kraus, Benjamin scrive: «Se lo stile è il potere di muoversi liberamente attraverso la lunghezza e l'ampiezza del pensiero linguistico senza cadere nella banalità,  esso allora viene raggiunto principalmente dalla potenza cardiaca dei grandi pensieri, che guidano il sangue del linguaggio attraverso le reti capillari della sintassi fino alle membra più remote». Pensare, scrivere, sono in definitiva questioni di vigore. L'essere malinconico, che sente che gli manca la volontà, può avere la sensazione di aver bisogno di tutte le energie distruttive che può raccogliere.
«La verità oppone resistenza all'essere proiettata nel regno della conoscenza», scrive Benjamin in "L'origine del dramma barocco tedesco". La sua prosa densa registra tale resistenza, e non lascia alcuno spazio per attaccare quelli che distribuiscono bugie. Benjamin considerava la polemica al di sotto della dignità di uno stile veramente filosofico e cercava invece la «pienezza della positività concentrata»;  tra i suoi scritti importanti, il saggio sulle affinità elettive di Goethe, con la sua devastante confutazione del critico e biografo Friedrich Gundolf, è l'unica eccezione a questa regola. Ma la sua consapevolezza dell'utilità etica della polemica gli ha fatto tuttavia apprezzare quell'istituzione pubblica viennese a senso unico: Karl Kraus, uno scrittore la cui facilità, la stridenza, l'amore per l'aforisma e le indefesse energie polemiche lo rendevano così diverso da Benjamin. Il saggio su Kraus è la difesa più appassionata e perversa della vita dello spirito mai fatta da Benjamin. «Il perfido rimprovero di essere troppo intelligente lo ha perseguitato per tutta la vita», ha scritto Adorno. Benjamin si è difeso da questa diffamazione filistea innalzando coraggiosamente la bandiera della «disumanità» dell'intelletto, quando viene correttamente (cioè eticamente) impiegato. «La vita letteraria è l'esistenza sotto l'egida del mero spirito, così come la prostituzione è l'esistenza sotto l'egida della mera sessualità», scriveva. Si tratta di celebrare sia la prostituzione (come faceva Kraus, dal momento che la mera sessualità era la sessualità allo stato puro) sia la vita delle lettere, come faceva Benjamin, usando la figura eclatante di Kraus, per «la funzione genuina e demoniaca del mero spirito di essere un disturbatore della pace». Il compito etico dello scrittore moderno non è quello di essere un creatore ma un distruttore: distruttore dell'introspezione superficiale, dell'idea consolatoria dell'universalmente umano, della creatività amatoriale e delle frasi vuote.

«Proprio perché ossessionati dalla morte, sono i caratteri malinconici quelli che sanno leggere meglio il mondo. Più le cose sono inerti, più lo spirito che le contempla può essere potente e ingegnoso» (Susan Sontag)
Lo scrittore come flagello e distruttore, ritratto nella figura di Kraus, venne abbozzato con concisione e con ancor più audacia nell'allegorico Il personaggio distruttivo, anch'esso scritto nel 1931. Scholem ha scritto che la prima delle diverse volte in cui Benjamin pensò al suicidio fu nell'estate del 1931. La seconda fu l'estate seguente, quando scrisse Agesilaus Santander. Il flagello apollineo che Benjamin chiama il carattere distruttivo. «È sempre allegramente in azione... ha pochi bisogni... non ha interesse ad essere compreso... è giovane e allegro... e non sente che la vita è degna di essere vissuta, ma che il suicidio non è degno di essere vissuto».
È una specie di incantesimo, un tentativo di Benjamin di far emergere gli elementi distruttivi del suo carattere saturniano in modo tale che non siano autodistruttivi. Benjamin non si riferisce solo alla propria distruttività. Pensava che ci fosse una tendenza particolarmente moderna al suicidio. Nella Parigi del Secondo Impero, nel libro su Baudelaire scrisse:
«Le resistenze che la modernità oppone al naturale slancio produttivo dell’uomo sono sproporzionate rispetto alle sue forze. È comprensibile che questi si indebolisca e cerchi rifugio nella morte. La modernità deve porsi nel segno del suicidio: esso pone il proprio sigillo a un volere eroico, il quale non concede nulla a una disposizione che gli sia ostile. Tale suicidio non è rinuncia, ma passione eroica. È la conquista della modernità nella sfera delle passioni.»
Il suicidio è inteso come una risposta della volontà eroica alla sconfitta della volontà. L'unico modo per evitare il suicidio, suggerisce Benjamin, è essere al di là degli sforzi della volontà. Il carattere distruttivo non può sentirsi intrappolato, perché «vede strade ovunque». Allegramente impegnato a ridurre in macerie ciò che esiste, «si pone a un bivio».
Il ritratto di Benjamin come di un personaggio distruttivo, evocherebbe una specie di Sigfrido dello spirito - un bruto puerile, dall'animo elevato... sotto la protezione degli dei - se questo pessimismo apocalittico non fosse temperato dall'ironia, sempre alla portata del temperamento saturnino. L'ironia è il nome positivo che il malinconico dà alla sua solitudine, alle sue scelte asociali. In Strada a Senso Unico, Benjamin ha salutato quell'ironia che permette agli individui di affermare il diritto di condurre una vita indipendente dalla comunità come «la più europea di tutte le conquiste», e ha notato che essa aveva abbandonato del tutto la Germania. Il gusto di Benjamin per l'ironia e per la coscienza di sé lo alienò dalla maggior parte della cultura tedesca recente: detestava Wagner, disprezzava Heidegger e derideva i frenetici movimenti d'avanguardia della Germania di Weimar, come l'Espressionismo.
Appassionatamente, ma ironicamente, Benjamin si pose a un bivio. Per lui, era importante mantenere aperte le sue molte "posizioni": quella teologica, quella surrealista/estetica, quella comunista. Una posizione ne correggeva un'altra: aveva bisogno di tutte. Naturalmente, le decisioni tendevano a sconvolgere l'equilibrio di queste posizioni, così come la vacillazione manteneva tutto al suo posto. La ragione del suo ritardo nel lasciare la Francia, quando vide Adorno per l'ultima volta all'inizio del 1938, fu che «qui ci sono ancora posizioni da difendere».
Benjamin pensava che l'intellettuale libero fosse, in ogni caso, una specie morente che non veniva resa meno defunta dalla società capitalista. di quanto non lo fosse dal comunismo rivoluzionario; in effetti, sentiva di vivere in un'epoca in cui ogni cosa di valore era l'ultima del suo genere. Pensava che il surrealismo fosse l'ultimo momento intelligente dell'intellighenzia europea, e un tipo di intelligenza opportunamente distruttiva e nichilista. Nel suo saggio su Kraus, Benjamin chiede retoricamente: Kraus è sulla frontiera di una nuova epoca? «Ahimè, niente del genere, perché si trova sulla soglia del Giudizio Universale». Benjamin sta pensando a se stesso. Nel  Giudizio Universale, egli era l'Ultimo Intellettuale - quell'eroe saturnino della cultura moderna, con le sue rovine, le sue visioni di sfida, le sue fantasticherie, la sua insormontabile malinconia, i suoi occhi abbassati - il quale spiegherà come egli abbia preso molte "posizioni" e come abbia difeso la vita dello spirito fino alla fine, nel modo più giusto e disumano possibile.

- Grazie a Susan Sontag e al suo "Sotto il segno di Saturno" -

NOTE:

[*1] - Asja Lacis e Benjamin si erano incontrati a Capri nell'estate del 1924. Era una rivoluzionaria comunista lettone e regista teatrale, assistente di Brecht e Piscator, con cui Benjamin scrisse 'Napoli' nel 1925 e per cui scrisse 'Programma per un teatro proletario per bambini' nel 1928. Fu Lacis che procurò a Benjamin un invito a Mosca nell'inverno 1926-1927 e che lo presentò a Brecht nel 1929. Benjamin aveva sperato di sposarla quando lui e sua moglie divorziarono finalmente nel 1930. Ma Asja Lacis tornò a Riga e più tardi passò dieci anni in un campo di concentramento sovietico.

[*2] - Scholem sostiene che l'amore di Benjamin per le miniature è alla base del suo amore per le brevi espressioni letterarie evidenti in Strada a Senso Unico. Forse; ma libri di questa natura erano comuni durante gli anni '20, ed era in uno stile di montaggio specificamente surrealista che questi brevi testi autoconclusivi venivano presentati. Strada a Senso Unico venne pubblicato da Ernest Rowohlt, a Berlino, in forma di pamphlet con una grafia che voleva evocare gli effetti shock della pubblicità; la copertina era un montaggio fotografico di frasi aggressive in lettere maiuscole, prese da pubblicità sui giornali e da cartelli ufficiali e rari. Il passaggio iniziale, in cui Benjamin saluta il «linguaggio impulsivo» e denuncia «il gesto pretenzioso e universale del libro» non ha molto senso se non sappiamo che tipo di libro voleva essere.

[*3] - Da una lettera di Adorno a Benjamin, scritta da New York il 10 novembre 1938. Benjamin e Adorno si incontrarono nel 1923 (Adorno aveva 20 anni), e nel 1935 Benjamin iniziò a ricevere un piccolo stipendio dall'Institut Für Sozialforschung di Max Horkheimer, di cui Adorno era membro.


fonte: Comunizar

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