Quel ritratto diventato un’icona, i suoi libri, dai Grundrisse al Capitale, e poi la sua militanza politica a tutto possono far pensare, tranne che Karl Marx sia stato, oltre che un grande filosofo, anche un simpatico guascone e un poeta. Eppure la figlia Eleanor, che ha avuto il merito di scovare e pubblicare il romanzo incompiuto del padre, Scorpione e Felice, così lo descrisse: «Per chi ha conosciuto Marx nessuna leggenda è più ridicola di quella che lo raffigura come un uomo scorbutico, amareggiato, inflessibile e inavvicinabile, una sorta di Giove tonante arroccato nell’Olimpo di una solitudine inaccessibile, perennemente intento a scagliare i suoi fulmini e senza mai un sorriso sulle labbra. Una simile descrizione del più allegro e giocondo degli uomini, dell’uomo dall’umorismo spumeggiante e dal riso irresistibilmente contagioso, del più gentile, tenero e simpatico dei compagni di gioco, è una fonte di perenne stupore e di spasso per chiunque lo abbia conosciuto».
(dal risvolto di copertina di: KARL MARX, "La principessa del sogno". Prefazione e traduzione di Paolo Barbieri. LA VITA FELICE. Pagine 299, e 14,50)
Toh, un poeta in amore. Ma...è Marx!
- di Roberto Galaverni -
Karl Marx - l’uomo che il filosofo e attivista politico tedesco Moses Hess in una lettera a un amico scrittore descriveva in questi termini: « unisce in sé lo spirito più mordace con la più profonda serietà filosofica: immaginati Rousseau, Voltaire, d’Holbach, Lessing, Heine e Hegel fusi in una sola persona» - è stato anche un poeta?
Al tempo di questo giudizio Marx aveva poco più di vent’anni ed era già nutrito di cospicue e importanti letture anche in ambito letterario, sia tra i classici sia tra i contemporanei (per tutta la vita, del resto, fu un lettore formidabile). Come si ricava dalle testimonianze di chi l’aveva conosciuto o gli era stato più vicino, oltre alla poesia di Goethe, ad esempio, aveva mandato a memoria proprio i versi di Heinrich Heine, un lirico di straordinaria virtù melodica per lo più rivolta a tematiche amorose, che fu un’autentica celebrità per la gioventù tedesca della generazione di Marx. Eppure, benché proprio Marx abbia posseduto da ogni punto di vista virtù intellettuali a dir poco non comuni, l’inserimento di un poeta nell’elenco degli spiriti magni formulato da Hess potrebbe essere di troppo.
Se come poeta s’intende qualcuno che ha incarnato nella vita interiore e nell’energia della lingua una visione del mondo originale e riconoscibile, qualcuno, diciamo così, benedetto dalla Musa, cioè dal dono o magari dal demone dell’armonizzazione musicale per via di parole, allora probabilmente un poeta non lo è stato. Se invece s’intende qualcuno capace all’occasione di costruire versi di buona fattura e solidità, e dunque di cimentarsi nel campo dell’arte poetica (più che di seguire una vocazione poetica) in modo non banale e talora interessante, allora sì, Karl Marx è stato anche un poeta.
Una scelta consistente della sue poesie è ora disponibile nel volume "La principessa del sogno", nella traduzione dal tedesco di Paolo Barbieri, a cui si devono anche lo scritto introduttivo e le note ai testi. Apprendiamo così che ancora giovanissimo, tra il 1836 e il 1837, il filosofo di Treviri scrisse alcune raccolte di poesie (che sono poi la base di questa antologia italiana). Ben tre erano dedicate alla ragazza con la quale si era segretamente fidanzato, Jenny von Westphalen, che aveva quattro anni più di lui e che sarebbe poi stata sua moglie e compagna per tutta la vita. Si tratta di poesie d’amore, ovviamente; e anzi di un amore non solo straordinariamente appassionato, ma dichiarato senza mezza misure, senza filtri e prudenza alcuna.
A questi versi fa seguito una quarta raccolta, un quaderno di testi dedicato al padre, dal punto di vista metrico e tematico più composito dei precedenti, in quanto comprende sonetti, ballate, romanze, epigrammi di argomenti vari, ivi compresa la filosofia. Il titolo del volume è tratto da una lettera dello stesso Marx, che tornato nella città natale per i funerali della madre, scriveva a un amico: «Tutti i giorni, a destra e a sinistra, mi domandano della quondam “più bella ragazza” di Treviri e della “reginetta del ballo”. È terribilmente piacevole per un uomo quando la moglie vive ancora nella fantasia di tutta la città come “la principessa del sogno”.»
E, di certo, la principessa del sogno viveva con incredibile intensità nell’immaginazione, nei sensi, nei desideri, nelle attese del giovane poeta. Marx era innamoratissimo — innamorato pazzo o perso, come diremmo noi oggi — e tale, del resto, sarebbe sempre rimasto.
Così accade questo fenomeno forse singolare, che nella pratica della scrittura poetica si ripete però continuamente: vale a dire che quanto più qualcuno si riconosce innamorato e intende dichiarare la sincerità, l’autenticità, ma anche l’eccezionalità del proprio amore, tanto più finisce per consegnarsi al gergo della poesia, alle parole della letteratura in ciò che hanno di più stereotipato e prevedibile, alla convenzione poetica, insomma. Si giura sulla verità del proprio sentimento, sull’assenza di qualsiasi filtro e mascheratura, e per farlo ci s’affida, più o meno consapevolmente, alle frasi fatte, ai cliché detti e ridetti infinite volte, tanto più nei versi della poesia (da questo punto di vista la poesia è davvero infida se non perversa, si potrebbe commentare).
Capita così anche a Marx. Queste, ad esempio, sono le due quartine di un sonetto: «Jenny! Con ironia tu mi chiederai/ perché il mio canto sempre “a Jenny” è dedicato:/ è che solo per te ogni mia vena batte,/ solo per te ogni mio canto piange,/ e te porta nel tuo seno,/ è che ogni sillaba professa te,/ ogni suono brucia melodioso per te/ e nessun alito dalla sua dea si divide». Così si potrebbe perfino capovolgere il ragionamento, e dire che proprio perché è stato espresso con parole così convenzionali l’amore cantato qui — si può scommettere — è stato vero e sincero.
Se la sezione delle poesie dedicate alla fidanzata risulta la più di maniera, il rischio di una sostenutezza che può sfociare nella retorica è comunque presente un po’ in tutti questi componimenti. «Lontano passò su lievi onde/ l’increato spirito creatore,/ fluttuano mondi, sgorgano vite,/ eternità il suo occhio abbraccia./ L’onnianimante potere dei suoi sguardi/ arde concretandosi magicamente in forme», scrive in una poesia dedicata al padre e intitolata "Creazione". Il fatto è che a parte qualche poesia epigrammatica (ben riuscita, tra l’altro), di regola l’intonazione è estremamente solenne. Forse è il tratto che colpisce di più, soprattutto nel quaderno dei componimenti dedicati appunto al padre.
È una considerazione condizionata magari da quanto Marx avrebbe pensato e scritto negli anni a venire, ma quasi tutte queste poesie testimoniano un dissidio e una competizione col creato; una situazione cosmogonica e un agonismo per cui la vita appare come una specie di grande sfida, di scontro di forze primordiali.
Marx amava il mito di Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dei per farne dono agli uomini («è il più grande santo martire del calendario filosofico», scrive). E qui, specie nelle parabole raccontate nelle tante ballate e canzoni del libro (quasi tutte in quartine a rima alternata, il metro che gli è più congeniale), è appunto la necessità di un’azione prometeica che Marx sembra riconoscere inscritta nel proprio destino: «Posso simile agli dèi peregrinare,/ vittorioso il suo regno di ruderi attraversare,/ ogni parola è vampa e azione,/ il mio petto simile al seno del creatore».
- Roberto Galaverni - Pubblicato su La Lettura del 28/11/2021 -
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