«È dunque così che il ciclista incontra il mondo: dall’alto! Corre, corre a folle velocità senza toccare terra con i piedi, essere un ciclista è per lui qualcosa che significa quasi: sono il padrone del mondo» (Thomas Bernhard)
Chi monta in sella a una bicicletta prova sentimenti di appagamento e pienezza: l’affrancamento dai limiti del corpo, l’ebbrezza della velocità e dell’indipendenza, la fuga dalle tristezze della vita. È così per i primi ciclisti, e poi sempre per ogni nuovo bambino che conquista la sua due ruote. «Sentivo di navigare nell’aria», ricordava un grande intellettuale come Ezio Raimondi. Ed è felicità per la donna, per la quale la bicicletta è strumento di emancipazione, così come per l’operaio di «Ladri di biciclette», che grazie alla bici può trovare lavoro. Oggi è anche la felicità della fuga dalla civiltà moderna, il sogno di un mondo lento a misura d’uomo. Poeti, scrittori, filosofi e gente comune hanno testimoniato la loro gratitudine per la bicicletta fonte di felicità: in questo libro, felice a sua volta, Pivato tesse il racconto di un inscalfibile amore collettivo per le due ruote.
(da risvolto di copertina di: "La felicità in bicicletta", di Stefano Pivato. il Mulino, € 14)
E un giorno il piede diventò la ruota
- Bicicletta. Stefano Pivato traccia la storia (dall’800 ai giorni nostri) di un mezzo di trasporto che è espressione di una vita libera trascorsa all’aperto: un antidoto contro la tristezza e un inno alla fatica e al sudore. -
di Angelo Varni
Al termine di un secolo come l’800 che ha saputo mettere a disposizione della società una serie stupefacente di invenzioni in grado di rendere a tutti più facile, gradevole e confortevole la vita, ecco apparire la bicicletta ad offrire una prova ulteriore di un’acquisita modernità, dove la tecnologia si misurava sulle esigenze dell’uomo, sul suo bisogno di assaporare un nuovo senso di libertà, di ebbrezza di velocità, di superamento di ogni arcaica limitazione al proprio dominio sulla natura. Da allora, in quei decenni che via via si inoltrarono, anche se con minore orgogliosa sicurezza, nel XX secolo, fu un costante rincorrersi di entusiaste testimonianze di intellettuali, letterati, artisti, in lode delle virtù dell’andar sulle due ruote, quale antidoto contro la tristezza del vivere, quale tonificante per la salubrità del corpo, quale apertura della mente alle più liete divagazioni.
Con un Renato Serra, lontano da casa, addolorato per la mancanza della sua «meravigliosa bicicletta», lamentarsi perché «le belle strade, bianche tra le lunghe colonnate di pini o di pioppi vibranti con fresco brusio al maestrale non fuggono più sotto le gomme sonore». O un Alfredo Panzini affermare come la bicicletta (quella «cosa alata» la definisce) avesse la capacità di trasmettergli una «sensazione così dilettevole e costante che […] fa dimenticare molte cose non liete». Ed ancora, tra i tanti, il fondatore del Touring Club, Luigi Vittorio Bertarelli, assicurare che la bicicletta aveva il pregio di liberare la mente e di «opporsi in modo prepotente al surmenage intellettuale». E poi Olindo Guerrini ad esaltare la pedalata come espressione del piacere, «della vita libera, goduta all’aperto». Mentre Alfredo Oriani, a sua volta, coglieva una sorta di identificazione tra l’uomo e la bicicletta, quasi quest’ultima fosse «il vostro piede diventato ruota[…]la vostra pelle cangiata in gomma, che scivola sul terreno».
Dominante, comunque, per tutti il fremito dell’impatto con il vento sul viso, quasi immersione in un mondo diverso, come ebbe a dire un altro grande fautore della bicicletta, Ezio Raimondi, in anni più recenti, descrivendosi con le braccia protese sul manubrio a farsi vere e proprie ali, quasi a navigare nell’aria, ma di più a «sentire l’aria, attraversarla, riconoscere il vento nascosto nell’aria naturale, e quindi scoprire un’altra realtà che si aggiungeva a quella quotidiana».
Di fronte ad una simile baldanzosa esplosione di gioiosa fiducia in un futuro aperto ad inedite avventure lontane da ataviche costrizioni, non poté mancare l’avversione tenace di chi ne temeva proprio il suo proporsi come esempio di una felicità terrena, di una mondanità che avrebbero offuscato lo sguardo rivolto alla vera salvezza del soprannaturale da raggiungere con la mortificazione dei sensi. Ecco allora i «benpensanti» e le gerarchie ecclesiastiche esprimersi con vigorose reprimende contro, innanzi tutto, il desiderio delle donne di salire sulle biciclette, indice, ad un tempo, di voglia di autonomia e, magari, di sfrontata impudicizia. Ma ugualmente l’anatema era esteso anche ai preti, obbligati a rifuggire il peccato dell’ inseguire i moderni divertimenti. Persino il mondo socialista, su tutt’altro versante ideologico, tentò da principio di opporsi alla passione della gioventù per la bicicletta, temendone la capacità di distoglierla dallo studio e dall’impegno politico.
Per poi ovviamente ricredersi di fronte all’esplodere dell’utilizzo delle due ruote da parte di un mondo del lavoro che ne fece via via uno strumento indispensabile dei propri spostamenti e dei propri sogni proletari. È, invece, l’immagine della fatica e della sofferenza quella trasmessa dal ciclismo professionista, con i suoi “eroi” cantati nelle loro epopee di polvere e di sudore da schiere di giornalisti che, in tal modo, trasferivano la gioia ad un altro protagonista, quello assiepato lungo le strade attraversate dalle corse, il pubblico degli appassionati, incantati dal colorato turbinio del frusciante e fugace passaggio dei corridori.
- di Angelo Varni - Pubblicato sulla Domenica del 19/11/2021 -
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