venerdì 3 settembre 2021

Assalto al Cielo ?!?

La lenta cancellazione del futuro
- Perché questa utopia delle masse che era il sogno del ventesimo secolo ci sembra oggi una chimera eccessiva che rasenta il totalitarismo e la catastrofe? -
di Germán Cano


I. Da Buck-Morss a Jameson  - 1 -
Siamo nel 1933. Cosa c'entra una gigantesca statua di Lenin sul Palazzo dei Soviet con l'enorme King Kong che appare combattendo nella scena finale del suo primo film per il grande pubblico?
King Kong era uno spettacolo cinematografico di massa su una bestia catturata - «un re e un dio nel suo mondo»  - in conflitto con la civiltà industriale urbana. Come sottolinea Susan Buck-Morss nel suo straordinario "Dreamworld and Catastrophe. The Passing of Mass Utopia in East and West" (2002), il progetto del Palazzo dei Soviet era un orgoglioso simbolo dell'architettura proletaria basato su un'immagine che era circolata ampiamente a livello internazionale durante gli anni trenta. King Kong, con David Selznick come produttore, divenne il primo classico del cinema di proporzioni mostruose, un «mastodontico miracolo dell'industria cinematografica». Il Palazzo dei Soviet era, da parte sua, un edificio mostruoso, con una capacità prevista di 21.000 posti a sedere nella grande sala del congresso, e con la statua di Lenin che, una sorta di Golia, veniva descritta come un «assalto al cielo». Perché queste due immagini così esteticamente simili, oggi sono in contrasto con il nostro attuale senso comune, e perché invece, nel secolo scorso, queste seducenti fantasmagorie sono stato dei sogni collettivi di massa, simili tra loro, che oggi vengono interpretati come diversi? La risposta che dà Buck-Morss parla della cancellazione del futuro. Il Palazzo dei Soviet è diventato un'icona della monumentalità totalitaria stalinista, e King Kong è la forma kitsch di un intero genere di film di fantascienza, da Godzilla a Jurassic Park. Ma in tutto questo, che cosa abbiamo dimenticato che essi avevano in comune? Dopo la guerra fredda, la rigida contrapposizione tra totalitarismo e democrazia si è talmente radicata nel nostro inconscio sociale, che sembra inconcepibile capire che c'è stato un tempo non molto lontano, nel secolo scorso, in cui questo antagonismo, rafforzato sotto l'immagine della cortina di ferro, illuminava un orizzonte comune: il mondo sognato della modernità. Perché questa utopia di massa, che è stata il vero sogno del ventesimo secolo, ci appare oggi come se fosse una smisurata chimera che si trovava sul confine tra il totalitarismo e la catastrofe? Certamente, il mito democratico di massa della modernità industriale - la fede secondo cui l'intervento tecnico nella realtà sociale fosse in grado di produrre progresso e felicità materiale nelle società di massa - è stato ampiamente eroso dalla disintegrazione del socialismo europeo, dalle esigenze neoliberali della ristrutturazione capitalista negli anni '70, così come dall'inevitabile ampliamento della consapevolezza ecologica negli ultimi decenni. Tuttavia, questa non è tutta la storia. Accettare il fallimento e la catastrofe del sogno della modernità significa solamente - scrive Buck-Morss - che «questi effetti catastrofici vanno valutati in nome della speranza democratica e utopica alla quale il sogno ha dato espressione, e non come un rifiuto di esso». In altre parole, se il bilancio delle "catastrofi" del secolo scorso si è tradotto nel mettere sotto accusa in maniera assoluta qualsiasi promessa di futuro, ciò è avvenuto perché, così facendo, tutta una manovra ideologica autosuggestionante ha finito per essere egemonica: la contrazione del futuro, il declino del sogno utopico delle masse. Così facendo, se vale la pena di tornare a "Dream World and Catastrophe", ciò è perché questo libro ci permette di capire qualcosa di decisivo per qualsiasi cartografia dell'immaginario politico del XXI secolo: stiamo ancora ipotecando il nostro futuro sulla base di una narrazione storica egemonica che, sostanzialmente forgiata dopo la caduta del muro di Berlino, è a dir poco discutibile. A grandi linee, potremmo riassumere questa favola rassicurante come segue: dopo la caduta dei socialismi realmente esistenti, la libertà sconfisse il totalitarismo e la maturità del realismo storico prevalse finalmente su quella disastrosa hybris collettiva che era alla ricerca di mondi sognati. Oggi, siamo ben consapevoli di questo genere di mantra e delle sue radici nel nostro immaginario culturale, ma cosa succede se in tutta questa storia continuasse a venirci nascosto qualcosa di importante?
Buck-Morss pone una domanda decisiva: fino a che punto la caduta del mondo dei sogni socialisti è stata anche la caduta del mondo dei sogni occidentali? Fino a che punto la fine della guerra fredda ha avviato un processo in cui - avendo perso quell'antagonismo produttivo tra i blocchi - l'orizzonte della modernità di massa e il suo sogno collettivo è stato cancellato, ma ha anche diluito nel cinismo un'atmosfera critica orientata al futuro L'esperimento storico del socialismo era così profondamente radicato nella tradizione modernizzatrice occidentale che la sua sconfitta non poteva non mettere in discussione l'intera narrazione occidentale e, con essa, quello che era il disorientamento a sinistra. Commentando il modo in cui la fine della guerra fredda abbia congelato le complicità critiche e il dialogo in un gruppo di pensatori dell'Est e dell'Ovest, Buck Morss ci avverte che il problema non era che essi vivevano ancora in mondi diversi, ma piuttosto che i loro mondi stavano rapidamente diventando uno solo, in termini che rendevano precario il pensiero critico per ragioni diverse dalla censura politica e dalla differenza culturale. «Naturalmente, ciascuno di noi sapeva che l'altra parte non realizzava in maniera perfetta le nostre rispettive speranze, ma la semplice esistenza di un sistema diverso era una prova sufficiente per permetterci di pensare che il sogno era possibile - come se ci fosse qualcosa di 'normale' al di fuori del proprio sistema che descriveva come assurda la logica interna del sistema; un'altra organizzazione sociale dell'esistenza umana, la quale ci permetteva di pensare che lo stato di cose dato non era né naturale né inevitabile, così che la storia poteva ancora essere prevista come uno spazio di libertà umana».
Considerando la possibilità che, nel celebrare la sconfitta del sogno totalitario dell'URSS, abbiamo anche celebrato ingenuamente la sconfitta del nostro sogno di democrazia e libertà, il metodo di Buck-Morss non solo adotta lo sguardo antistoricista di Walter Benjamin: impedire che l'ottica sia quella dei vincitori della storia; ,ma inoltre, mette anche davanti al nostro sguardo quei dignitosi frammenti residui e le loro promesse contrapponendoli al racconto euforico del loro trionfo. Potremmo considerare così che la funzione politica dell'utopia è precisamente quella di sconvolgere e/o rompere le nostre idee ereditate del futuro: rompere quel futuro prefabbricato. Anche se non si accettano i termini di una particolare visione utopica, ciò che è centrale per qualsiasi forma di immaginazione politica lottare, prima di tutto, è la perturbazione e la rottura di qualsiasi futuro falsificato.

2-
È altamente simbolico che il 1984 sia stato l'anno in cui Fredric Jameson ha pubblicato il suo articolo seminale "Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism", poi ampliato in un libro che fu tremendamente influente nei dibattiti successivi. In un momento in cui il mondo stava diventando orwelliano, Jameson rivelava l'altro lato di una società esausta del presente, affettivamente immersa nella nostalgia ed esteticamente condannata al pastiche. Il teorico americano, in un'analisi canonica, mostrava tutta la sintomatologia della fine della storia e auscultava i segni di un'epoca revisionista con le spalle rivolte al futuro, che aveva bloccato, attraverso una singolare logica culturale tardo-capitalista, la fase postmoderna, la facoltà di pensare e agire in termini storici. E ciò che era politicamente più pericoloso: la capacità di immaginare alternative all'ordine stabilito e di innovare. «Non c'è compito più urgente», scrisse, «di quello di analizzare e diagnosticare instancabilmente la paura e l'ansia dell'Utopia stessa». Eppure il crimine non è mai perfetto. Jameson sostiene inoltre che, anche nelle distopie o nelle utopie deformate, c'è un desiderio in gioco che viene spostato, vale a dire, in ogni ideologia, per quanto triste sia, possiamo anche trovare un profondo impulso alla comunità, qualcosa di cui la società individualista di oggi manca.
Tutto questo viene espresso nella seguente riflessione: «è più facile per noi oggi immaginare il profondo deterioramento della terra e della natura che il crollo del tardo capitalismo; forse questo è dovuto a qualche debolezza della nostra immaginazione». Che sia diventato un luogo comune ricorrere alla famosa citazione di Jameson, nella sua opera "Seeds of Time", indica anche qualcosa di interessante circa i blocchi della nostra immaginazione politica. C'è qualcosa di strano nell'idea di utopia: per quanto essa aspiri a un altro mondo, il suo carattere alternativo parla sempre in qualche modo di questo mondo. Terry Eagleton commenta questo con derisione. Pensate all'abbondanza di storie di rapimenti alieni. Ciò che rende queste storie così sospette, dice, non è il carattere esotico degli alieni, ma proprio il contrario: si tratta di alieni ridicolmente familiari. «A parte uno o due arti in più, l'assenza di orecchie, un odore sgradevole o qualche centimetro di altezza aggiunta o sottratta, assomigliano molto a Bill Gates o a Tony Blair. Il loro linguaggio e i loro corpi sono grottescamente differenti dai nostri, tranne per il fatto che hanno un corpo e possono parlare. Volano in navi che possono attraversare i buchi neri, ma inspiegabilmente ne perdono il controllo nel deserto del Nevada». Da qui l'importanza della fantascienza o delle distopie: ci parlano delle nostre ansie più profonde. In un blockbuster hollywoodiano possiamo benissimo vedere Tom Cruise che combatte contro una terribile invasione aliena. Non importa, se prestiamo attenzione alla trama vedremo che è la scusa perfetta per il protagonista per risolvere i suoi problemi familiari. Se è certamente vero che è più facile immaginare scenari apocalittici per la Terra, piuttosto che la più modesta trasformazione politica del capitalismo, questo deve dire qualcosa di profondo circa quali sono le proiezioni della nostra società. In un certo qual modo, ciò è vero anche per quel che riguarda il passato. Come dice anche Eagleton, alcune persone lo immaginano come i Flintstones, dove «il passato più remoto è la vita residenziale americana più i dinosauri».

II - Da Jameson a Fisher - 1 -
In tempi recenti, forse è stato Mark Fisher l'autore che ha riflettuto meglio sul significato che ha avuto il «realismo capitalista» nel bloccare l'immaginazione come soggetto politico. Parafrasando Jameson, l'interesse del lavoro di Fisher, al di là delle mode congiunturali, consiste nel rivelare le cause del perché oggi ci è più difficile immaginare qualsiasi mediazione culturale o tentativo egemonico di futuro, piuttosto che qualsiasi ripetizione indefinita del nostro presente. Anche se il suo scioccante suicidio avvenuto nel 2017 può addirittura mostrarcelo in modo morbosamente sensazionalista, come una sorta di "Kurt Cobain" o  di «Ian Curtis degli studi culturali» - dandogli quell'aura di tragico sismologo che accompagna anche Walter Benjamin -, questo cliché di uomo sensibile eclissa la sua riflessione, più interessante, circa i limiti e le urgenze di un compito pedagogico all'altezza del nostro tempo. La sua amica Nina Power ha definito la sua missione nei termini di un incessante confronto con «la violenza di una positività che non priva, ma satura; non esclude, ma esaurisce». Aveva ragione: appartenendo a una generazione più recente della Nuova Sinistra, Fisher poteva comprendere come l'esperimento sociale del Thatcherismo stesse lentamente restringendo anche ogni aspettativa di immaginazione politica e, insieme a essa, il compito di una trasmissione culturale nei confronti dei suoi studenti. Da qui la sua identificazione con "Bifo" Berardi e  con la sua diagnosi di una «lenta cancellazione del futuro». Sebbene la tentazione immediata sia qui quella di inquadrare questa diagnosi pessimistica all'interno di una stanca e familiare narrazione da boomer - «chi è vecchio sostiene che tutto il passato era migliore, e non può accettare il nuovo» -, Fisher sostiene che invece è proprio questa immagine - «l'assunzione che i giovani siano automaticamente all'avanguardia del cambiamento culturale» - che sta cominciando a essere superata. Come fare allora a scrivere in un mondo dove la tensione dialettica tra il nuovo e il vecchio si è bloccata?
Si potrebbe dire che possiamo intendere il «realismo capitalista», - evocando la nota categoria coniata da Raymond Williams sullo sfondo della dissoluzione dello «spirito del '45» nella società britannica - come una «struttura del sentimento». Per quanto la rinnovata continuità tra la critica culturale fisheriana e l'eredità dell'intellettuale organico, modellata sulla Nuova Sinistra, si mostri nell'analisi di questa «struttura del sentimento» del realismo capitalista, ci sono delle differenze con quella che era l'esplicita rifrazione gramsciana delle generazioni precedenti (E. P. Thompson, Raymond Williams, Stuart Hall). Per Fisher, il piano storico - il quale necessita di qualsiasi compito pedagogico preventivo con intento politico - è stato bloccato, a partire dagli anni '70, nella nuova logica culturale tardo-capitalista. C'è qui, pertanto, un orientamento psicoanalitico dell'analisi di questa condizione affettiva: a differenza delle generazioni precedenti, la cultura contemporanea vive i postumi di un trauma che non ricorda, il quale è stato determinato dalla lenta erosione dell'ecologia culturale, che ha facilitato il momento socialdemocratico: una fase storica, il "modernismo popolare", che non è tanto evocata nostalgicamente in sé da Fisher, quanto piuttosto nelle sue promesse non mantenute. Questo trauma, che non può essere ricordato a partire dalla frammentazione dell'esperienza della realtà postmoderna, non può nemmeno essere oggetto di dolore (dal momento che siamo incapaci di riconoscere che c'è una promessa che abbiamo perso). Ossessionata da un vago e impreciso malcontento che non riusciamo a riconoscere e che neghiamo compulsivamente, l'espressione culturale nel realismo capitalista si trova a essere temporaneamente bloccata e impantanata in uno stato di tristezza cronica, una tristezza mascherata che Fisher distingue, per esempio, nella vuota euforia della maggior parte dell'attuale musica pop. Il lavoro critico di Fisher sul «realismo capitalista» e la sua suggestiva proposta di un «modernismo popolare», possono essere compresi sotto questa luce: il neoliberalismo ha generato ideologicamente anche una restaurazione conservatrice in ambito culturale, che, all'insegna di un'aggressiva libertà antiautoritaria, ha finito per disertare le mediazioni che un tempo permettevano proficue declinazioni tra le classi lavoratrici e i capitali culturali che dapprima erano loro  estranei. Come sostiene senza mezzi termini Fisher, vale la pena ricordare la logica peculiare che il neoliberalismo ha imposto con successo a partire dagli anni '70 circa: «Trattare le persone come se fossero intelligenti - ci hanno spinti a credere - è "elitario", mentre trattarle come se fossero stupide è "democratico". Inutile dire che l'attacco all'elitismo culturale ha rappresentato il rovescio della medaglia di un'aggressiva restaurazione dell'élite materiale».

2 -
Non è a caso che in un simile contesto di realismo depressivo, Mark Fisher, come aveva già fatto Walter Benjamin nella sua analisi dei sogni di massa, esplori alcune idee del pensiero pedagogico di sinistra su Nietzsche, in particolare il suo peculiare contributo alla critica contemporanea attraverso l'immagine del «dottore della cultura». Nella sua straordinaria "seconda considerazione inattuale", intitolata "Sull'utilità e il danno della storia per la vita", l'allora ancora filologo tedesco, con un occhio a Goethe, mostra un suggestivo approccio a un pensiero sulla prassi diverso dal marxismo classico, e che oggi,  di fronte a un soffocante ecosistema mediatico dove la riproduzione del sistema viene lubrificata dai sogni a buon mercato di un incessante reality show, non può che risuonare.
Le evocazioni di Fisher a proposito dell'aspetto "educativo" degli artisti pop e rock dei decenni precedenti, cercano di esplorare una musica politica che non si accontenta solo di comunicare un messaggio testuale, ma piuttosto si impegna in una lotta nel sistema nervoso per i mezzi stessi della percezione. Che l'ascoltatore oggi non possa mai essere sorpreso, invaso dall'inaspettato oppure "rapito", è per Fisher il segno di un ecosistema culturale sintomaticamente soffocante. Se questo «museo storico» di dati, stili di vita e gesti - che era per Nietzsche un sintomo del fallimento pedagogico dello storicismo e del suo cinismo - ha raggiunto oggi quello stadio di «realismo capitalista» diagnosticato da Fisher, ciò è avvenuto perché la logica capitalista della mercificazione nel valore di scambio non ha fatto altro che intensificarsi, travolgendo e de-eroticizzando il destinatario culturale. Questa ricerca del piacere immediato, come se fosse un «obbligo incessante» è, per lui, la formula di un edonismo che ormai non può più essere inteso come qualcosa di diverso dal lavoro.
Nel mondo attuale, e nella nostra prassi educativa di militanti del cambiamento, per noi non è poi così urgente, pertanto, un'informazione «attaccata ai fatti», o un uso autonomo della denuncia critica, vista come un'«ecologia mediatica» che ci permetta di neutralizzare le fonti tossiche che favoriscono la nostra passività reattiva o che impediscono, nella loro accelerazione comunicativa, qualsiasi deliberazione democratica o metabolismo produttivo da parte del ricevente. Capire, quindi, che le risorse comunicative devono essere anche «culturalmente sostenibili» per le condizioni di una vita politica non squilibrata. È molto suggestivo qui leggere gli avvertimenti di Fisher contro le aspre polemiche e gli psicodrammi di sinistra che si svolgono sui social network - quello che lui chiama «il castello del vampiro»: una sorta di recupero della problematica nietzschiana del risentimento, nel contesto di un'accelerazione digitale e un'intossicazione dei climi di fiducia. L'esistenza digitale - dove la distanza scompare a favore della simultaneità - ha dissolto quei filtri e quelle mediazioni che prima permettevano di dosare gli interpelli della realtà e, quindi, di mantenere un'interazione equilibrata tra individuo e ambiente. «Il cerchio dei sensi, allargato artificialmente per mezzo di protesi mediatiche, si è completamente disconnesso dal cerchio dell'azione. Non siamo più capaci di tradurre gli stimoli in azione, e di dare ad essi così uno sbocco», scrive il filosofo Rüdiger Safranski, evocando Goethe e Nietzsche. «A volte ci si dimentica che non è solo il nostro corpo a richiedere una protezione immunologica, ma anche il nostro spirito. Non possiamo permettere che tutto quanto entri in noi; deve entrare solo nella misura in cui possiamo appropriarcene per noi stessi».

3 -
Il problema del realismo capitalista ai fini di una politica culturale emancipatrice è che, d'altra parte, esso rafforza nelle classi subalterne ciò che Fisher, seguendo Jameson, chiama un'«impotenza riflessiva», il loro riconoscimento culturale di inferiorità. Quello che vuol dire è che il riconoscere, da parte delle classi popolari, l'ineguaglianza della loro situazione, si scontra anche con l'accettazione dei loro limiti culturali nei confronti delle classi dominanti. Ed è la forza di questa rassegnazione - «questo non può essere per me», «io non sono tagliato per questo» - che rende questa impotenza una profezia che si auto-avvera. Questo "realismo" - che non è altro che un fatalismo rassegnato - finisce per rafforzare precisamente il piano strutturale del dominio di classe. Questo punto è importante al fine di comprendere come una comprensione "realista" della cultura, vista solo come velo immaginario della disuguaglianza materiale, e non anche come opportunità di declassamento, finisce per riprodurre ciò che cerca di mettere in discussione. Da qui, in un mondo in cui tutto invita a stare dentro le proprie scatole sociali, l'importanza emancipatrice dell'esperienza culturale. Ciò perché Fisher è consapevole, per usare la terminologia di Bourdieu, della straordinaria forza dell'habitus e della sua forza gravitazionale rispetto a una possibile declassamento; comprende anche la forza politica della promessa culturale di generare immaginazione politica. È molto interessante notare questo, data la forte predisposizione al naturalismo nella politica culturale di sinistra e il «gergo anti-postmoderno, così come, a volte, la sua insidiosa richiesta di chiarezza in ogni momento, soprattutto pubblica, come se il linguaggio politico dovesse essere un tutorial o il foglietto di una medicina». Questo è ciò che Fisher chiama "popismo": quella figura culturale in cui troviamo, in realtà, un disprezzo paternalistico e condiscendente per «il popolo», dall'alto, che a volte finisce per essere acquistato anche dal basso. «C'è», scrive Fisher in "Ghosts of My Life", «una dimensione di classe molto definita nel mio rifiuto del popismo». Il popismo, in fondo, non è altro che un'astuta rielaborazione dei complessi della classe dominante. È come «una signora dell'alta società che si abbandona a piaceri proibiti: "Dovrebbe piacerci la musica classica, ma noi amiamo la musica pop!"» Ma per quelli che, come Fisher, non sono stati cresciuti nella cultura alta, le cose sono molto diverse: «L'appello del popismo a essere sempre entusiasti della cultura di massa è piuttosto simile al fatto che ti venga detto (dai tuoi superiori di classe, ovviamente) di accontentarti del tuo destino». L'importanza, per Fisher, del «modernismo popolare» e di fenomeni musicali come il post-punk sta invece nel fatto che questi hanno dato accesso ad aspetti della cultura alta in uno spazio che delegittimava l'esclusività e il privilegio della cultura alta: «Lo spazio utopico che hanno aperto era uno spazio in cui l'ambizione non doveva finire nell'assimilazione, dove la cultura di massa poteva avere tutta la sofisticazione e l'intelligenza della cultura alta: uno spazio che mirava a porre fine all'attuale struttura di classe, non a invertirla».

- Germán Cano - Pubblicato nel febbraio 2021 su Comunizar -

fonte: Comunizar

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