Svuotamento
- di Jehu -
Affrontiamo qui, sia la genialità dell'analisi di Moishe Postone che il difetto più importante di tale analisi.
Afferma Moishe Postone: «Credo che gli operaisti ed io abbiamo una comprensione assai diversa del significato delle categorie di Marx. Io non penso che siano solo categorie dello sfruttamento. Ritengo che esse siano categorie delle forme sociali del dominio. E queste forme di dominio vanno ben oltre quello che è il dominio della borghesia sulle altre classi, poiché esse dominano altrettanto anche la borghesia, sebbene, naturalmente, la borghesia ne tragga da tutto questo degli enormi benefici». Invece, per gli operaisti, la crisi degli anni '70, dalla quale non ci siamo ancora ripresi, è stata una crisi provocata dalla classe operaia. Il mio disaccordo si basa sul fatto che penso non concepiscano niente che possa creare difficoltà alla valorizzazione se non la lotta salariale. Inoltre ci sono state delle enormi trasformazioni del lavoro, e ritengo che gli operaisti considerino la classe operaia come una costante.
Il capitolo sull'accumulazione [il 25°] del I volume del Capitale di Marx, riguarda probabilmente la superfluità crescente di una grande quantità di lavoro. Molti lo leggono a partire dall'idea dell'esercito di riserva industriale del lavoro, e quindi come se fosse un'affare ciclico che consente al capitale di mantenere bassi i salari, visto che ce n'è una riserva che varia col variare del ciclo economico. Questo non è falso, ma credo sia solo una dimensione del problema che si pone a lungo termine. Con l'aumentare del capitale costante, la parte di capitale variabile diventa sempre più piccola e sempre meno importante, di modo che la tendenza logica dell'esercito industriale di riserva a crescere - anziché essere solo ciclico - diventa quella di produrre una crisi del lavoro. Non voglio dire che sia una crisi che causa il crollo dell'intero edificio, ma solo che è proprio ora, in questo momento, che stiamo vivendo una crisi del lavoro. Stiamo facendo uscire il vuoto dalla società del lavoro.
Postone sottolinea diverse cose che ritengo significative ed importanti: 1) Le categorie di Marx descrivono il dominio sociale astratto su entrambe le classi, e non semplicemente solo il dominio dei proletari da parte della borghesia. 2) Questo processo è determinato dal problema a lungo termine della crescente superfluità del lavoro e da una crescente crisi del lavoro. 3) La crisi non porta immediatamente a far sì che «crolli l'intero edificio»; ma piuttosto porta allo svuotamento della società del lavoro.
Il maggior difetto dell'analisi di Postone, invece, consiste nel non essere stata in grado di chiarire che cosa intendesse con la sua argomentazione, secondo cui la società lavorativa si sarebbe svuotata. È ovvio che egli intendesse che esisteva una distinzione tra lo «svuotarsi» della società lavorativa e il crollo dell'«intero edificio» della società del lavoro, ma non ha mai provato a dirci in cosa consistesse questa distinzione, e come essa poteva essere rappresentata in modo che noi potessimo coglierla.
Per prima cosa, dobbiamo parlare di cosa si intenda con la frase, lo svuotamento della società lavorativa: è importante capire che lo svuotamento della società lavorativa non significa che il lavoro scompare; non più di quanto lo svuotamento del tronco di un albero significhi che scompaia l'albero. Infatti, la società del lavoro può crescere, sebbene diventi allo stesso tempo anche sempre più svuotata, così come un albero può continuare a crescere per decenni, perfino per secoli, nonostante il suo tronco divenga sempre più scavato. La confusione esistente circa l'utilizzo del termine «svuotamento» (da parte di Postone) può essere spiegato a partire dalle sciocche affermazioni che - nel tentativo di contrastare le argomentazioni di Postone - confondono, per l'appunto, lo svuotamento del lavoro con la disoccupazione di massa. Anche perché esistono un bel po' di persone che svolgono un lavoro di scarsa qualità: essi, più che fare delle cose, guardano delle cose, oppure puliscono delle cose, si prendono cura delle cose. E per questo vengono pagati molto meno. Il lavoro in sé, può essere meno faticoso, ma ha come effetto quello di spingerti sempre più in basso nella società, in una maniera tale che non era avvenuta a partire dal lavoro più faticoso.
Marx non aveva previsto una simile trasformazione. Egli aveva visto nei macchinari il settore in crescita della classe operaia. Ma le persone che lavorano in questo settore in espansione non sono obbedienti macchinari. Sono addetti alle pulizie, guardie di sicurezza, lavoratori dei servizi a basso salario. Si tratta di un cambiamento, ma non riguarda solo un certo numero di persone che diventano disoccupate. Anche Marx é stato esplicito sul fatto che in questo processo c'è una componente della classe operaia coinvolta nella progettazione, nella ristrutturazione; un processo in cui sono coinvolte persone che sono dei tecnici all'interno del processo di produzione. Quando Marx scriveva, la cosa era numericamente insignificante; ora non lo è. Ragion per cui, oggi assistiamo a 3 processi in atto: 1) Il classico processo di dequalificazione, che procede in maniera trasversale. 2) Il processo di dislocazione del lavoro che non riguarda il funzionamento delle macchine, ma piuttosto le condizioni del processo produttivo. 3) Esiste una massa di posti di lavoro in continua crescita, che hanno a che fare con la progettazione e la manutenzione del processo di produzione, i quali sono in genere più qualificati; e rispetto a quali esiste un processo che tenta di dequalificarli. Ad esempio, quella che è la massa di insegnanti nelle scuole e nelle università è aumentata enormemente. Eppure, allo stesso tempo, è in atto un continuo processo di standardizzazione, di omogeneizzazione e di dequalificazione. Se lì esiste una crisi, riguarda tre processi distinti in corso; e nessuno di questi riguarda una questione di lavoro che diventa superfluo. Certo, in Europa la tendenza generale è quella di una crescita del tasso di disoccupazione. Postone usa il termine «svuotamento» per descrivere ciò che, secondo lui, sta accadendo in quanto risultato di quella che, nella produzione, è la relazione - in crescita - tra capitale costante e capitale variabile. E secondo Postone c'è una tendenza logica, di una popolazione di lavoratori sempre più numerosa a lasciare in maniera permanente il lavoro produttivo. Ma, a partire da tutto questo, il lavoro non va a finire, vale a dire che non crolla; piuttosto, quello che avviene è che l'intero edificio della società del lavoro - il lavoro in sé - viene svuotato. A partire da questo, la domanda dovrebbe essere: ma se lo svuotamento della società lavorativa non significa che il lavoro sparisce, cosa significa allora?
Ad ogni modo, la genialità di Postone ha consistito nel leggere correttamente le categorie del Capitale di Marx come forme di dominio sociale: «Penso che esistano categorie delle forme sociali del dominio. E tali forme di dominio vanno al di là di quello che è il dominio della borghesia sull[e]'altra[e] classe[i], poiché esse dominano altrettanto anche la borghesia, sebbene ovviamente la borghesia ne tragga un enorme beneficio». È a partire da questo, ed in questo modo, che alla fine il progressivo svuotamento del tempo di lavoro, a causa dell'avanzamento della produzione sociale, doveva diventare - a tempo debito - un problema per tutta l'intera società borghese. In questo modo, lo svuotamento della società lavorativa è diventato una questione di politica dello Stato: alla fine, lo Stato avrebbe dovuto trovare il modo per pagare alla società lavorativa il tempo di lavoro che non è socialmente necessario, pena la sua dissoluzione. Nel suo libro, "Il Tempo, il Lavoro e il Dominio Sociale", dove Postone ricostruisce in maniera rivoluzionaria la teoria di Marx, spiegando come porti ad un risultato piuttosto interessante: «Con la produzione capitalistica avanzata, il potenziale produttivo sviluppato diventa talmente enorme da fare emergere una nuova categoria storica di tempo "extra", il quale interessa molti e che permette una drastica riduzione di quelli che sono entrambi gli aspetti del tempo di lavoro socialmente necessario, oltre ad una trasformazione della struttura del lavoro e della relazione che il lavoro intrattiene con altri aspetti della vita sociale. Ma questo tempo extra emerge solo come potenziale: in quanto tempo strutturato dalla dialettica della trasformazione e della ricostituzione, esso esiste sotto forma di tempo di lavoro "superfluo". Il termine usato riflette la contraddizione: giudicato secondo le potenzialità delle nuove forze di produzione, nella sua vecchia determinazione esso appare "superfluo".»
Chiamare superfluo questo lavoro, è un grave fraintendimento di ciò che costituisce il suo ruolo nel modo capitalistico di produzione: esso è superfluo solamente dal punto di vista della società comunista.
Ragion per cui, secondo Postone, quello cui, nel grafico, mi sono riferito in maniera semplicistica definendolo tempo di lavoro superfluo è superfluo solo dal punto di vista della futura società comunista. La regione che nel grafico viene etichettata come tempo di lavoro superfluo è stata in realtà etichettata in maniera imprecisa, dal momento che il tempo di lavoro superfluo rimane necessario per il capitale, nonostante il fatto che esso sia, allo stesso tempo, del tutto superfluo per quella che è la produzione di ricchezza materiale.
Ma tutto questo ha un senso? Ecco come Postone, in "Time, Labor and Social Domination", ha argomentato il suo ragionamento, secondo quello che è il suo punto di vista:
«Tuttavia, la mia analisi della dialettica delle due dimensioni delle soggiacenti forme sociali del capitalismo, ha mostrato che, secondo l'analisi di Marx, una riduzione generale, di quello che è il lavoro socialmente necessario sarebbe del tutto commisurata alle capacità produttive sviluppate sotto il capitalismo, non può avvenire fintanto che il valore rimane la fonte della ricchezza. La differenza tra il tempo di lavoro totale, determinato dal capitale come socialmente necessario - da un lato - e la quantità di lavoro che invece sarebbe necessaria, considerato lo sviluppo delle capacità produttive socialmente generali, - dall'altro lato - quando fosse la ricchezza materiale, la forma sociale della ricchezza; ciò è quello che Marx, nei Grundrisse, chiama tempo di lavoro "superfluo". La categoria può essere compresa sia quantitativamente che qualitativamente, se riferita sia alla durata del tempo di lavoro che alla struttura della produzione e all'esistenza stessa di quelli che sono molti lavori nella società capitalistica. E se applicata alla produzione sociale in generale, essa diventa una nuova categoria storica, che viene generata dalla traiettoria della produzione capitalistica.»
Detto in altre parole, nonostante lo sbalorditivo incremento del potere produttivo del lavoro sociale, c'è una massa sempre più crescente di tempo di lavoro socialmente non necessario, di cui il capitale non si può letteralmente spogliare, proprio perché per il capitale è il tempo di lavoro stesso, e non la ricchezza materiale, ad essere la misura della ricchezza sociale. Per cui, nel grafico, il "tempo di lavoro superfluo" andrebbe rietichettato come "tempo di lavoro capitalisticamente necessario", e va riferito al tempo di lavoro che necessariamente deriva esclusivamente dalle esigenze del modo di produzione capitalistico. Si tratta del tempo di lavoro che non crea valore, e non deve essere confuso col tempo di lavoro socialmente necessario definito da Marx come tempo di lavoro «richiesto per produrre un manufatto in condizioni normali di produzione, e che a sua volta richiede il grado medio di abilità ed intensità che prevale al momento».
Inoltre, secondo Marx, il tempo di lavoro superfluo non è necessario solo per il capitale: una condizione del modo di produzione, è quella di un dispendio sempre maggiore di tempo di lavoro, in quanto precondizione indispensabile per spendere il tempo di lavoro necessario. Cosa che si poteva capire da quanto Marx afferma nei Grundrisse:
«Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo — in misura crescente — la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali — entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale — figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata.»
Alla fine, in contrasto con la definizione data da Marx del tempo di lavoro socialmente necessario, il tempo di lavoro capitalisticamente necessario finisce per essere completamente superfluo, e il suo dispendio non crea alcun valore. Pertanto ne consegue che sul mercato, il valore di scambio del tempo di lavoro capitalisticamente necessario è sempre zero. Solo un sacco di tempo vuoto come dice Postone. Cosa, questa, che crea delle ovvie difficoltà: 1) Come possiamo distinguere le merci che contengono tempo di lavoro socialmente necessario da quelle che contengono soltanto tempo di lavoro capitalisticamente necessario? 2) Cosa succede ai prezzi, quando alcune merci hanno un prezzo che è composto in parte di tempo di lavoro socialmente necessario e in parte di tempo di lavoro capitalisticamente necessario? 3) In questo caso, come facciamo a distinguere le parti del prezzo di una merce?
Va anche ricordato che il capitale, secondo Marx - nei Grundrisse - «pone, in misura sempre più crescente, il superfluo come condizione ... per il necessario». E Postone, in "Time, Labor and Social Domination", assume questa proposizione nel senso che «Con la produzione industriale avanzata capitalistica, il potenziale produttivo sviluppato diventa talmente enorme da far emergere una nuova categoria storica di tempo "extra", sotto forma di tempo di lavoro "superfluo"». Questo tempo extra emerge poiché il capitale non può sprecare il tempo di lavoro non necessario, dal momento che per il capitale il tempo di lavoro è ricchezza sociale anche quando è superfluo ai fini della produzione di ricchezza materiale. Per contro - come lo si può vedere a partire dai dati storici reali - questa massa crescente di tempo di lavoro superfluo non è solo necessario per il capitale in sé e per sé, ma ora è anche condizione [Marx la definisce «condizione, pena la morte» per l'ulteriore espansione del tempo di lavoro socialmente necessario. Per capire come funziona, si pensi a tutti quei lavoratori che hanno la necessità di avere un salario di sussistenza nel mentre che costruiscono portaerei per distruggere il pianeta; un buon lavoro ad un buon salario!].
Dal grafico, basato sulla teoria del valore lavoro di Marx, ciò che appare ovvio è che, pagando con una moneta svalutata, secondo i programmi dell'era del New Deal, un lavoro - come quello determinato dall' Agriculture Adjustment Act e dal Works Progress Administration (e perfino quello della Guerra in Vietnam di Johnson) - che era chiaramente superfluo ai fini della produzione di valore, era tuttavia in grado di accrescere la massa assoluta di profitti creati dal capitale impiegato negli Stati Uniti a fini produttivi. Per quanto possa sembrare un controsenso, Marx, in questa citazione dal III Libro del Capitale, che potrebbe sembrare troppo lunga, suggerisce che una soluzione del genere poteva essere possibile, per quanto metta in guardia circa le terribili conseguenze derivanti dal fare una cosa così stupida:
«Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non sono identiche: esse differiscono non solo dal punto di vista del tempo e del luogo ma anche della sostanza. Le une sono limitate esclusivamente dalla forza produttiva della società, le altre dalla proporzione esistente tra i diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo della società. Quest’ultima, a sua volta, non è determinata né alla forza produttiva assoluta né alla capacità di consumo assoluta ma dalla capacità di consumo fondata su una distribuzione antagonistica che riduce il consumo della grande massa della società ad un limite che può variare solo entro confini più o meno ristretti. Essa è inoltre limitata dall’impulso ad accumulare, ad accrescere il capitale ed ottenere delle quantità sempre più forti di plusvalore. Per la produzione capitalistica si tratta di una legge determinata dalle incessanti rivoluzioni nei metodi di produzione, dal deprezzamento continuo del capitale esistente che ne è la conseguenza, dalla concorrenza generale e dalla necessità infine di perfezionare la produzione ed allargarne le dimensioni, al semplice scopo di conservarla ed evitare la rovina. Il mercato di conseguenza deve essere costantemente ampliato, cosicché suoi rapporti e le condizioni che li regolano assumono sempre di più l’apparenza di una legge naturale indipendente dai produttori, sfuggono sempre di più al controllo. La contraddizione intrinseca cerca una compensazione mediante l’allargamento del campo esterno della produzione. Ma tanto più la forza produttiva si sviluppa e tanto maggiore è il contrasto in cui viene a trovarsi con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo. E non vi è nulla di inspiegabile nel fatto che, su questa base piena di contraddizioni, un eccesso di capitale sia collegato con un eccesso crescente di popolazione; e quantunque la massa di plusvalore risulterebbe aumentata nel caso che si assorbisse l’eccesso di popolazione con l’eccesso di capitale, si accentuerebbe con ciò il conflitto fra le condizioni in cui questo plusvalore è prodotto e quelle in cui invece è realizzato». (Karl Marx, il Capitale. Libro III)
Il quadro che qui Marx avrebbe in mente, è quello di un tasso di accumulazione sempre più accelerato, del quale si potrebbe dire che esso prefiguri ciò che solo di recente si è fatto strada ai margini della letteratura nerd, sotto forma di concetti immaturi e infantili, come il «Il cambiamento in accelerazione esponenziale» di Vernon Vinge, o la «legge dei ritorni acceleranti» di Kurzweil. La teoria del lavoro di Marx, che precede di molto queste idee infantili, aveva predetto che, ad un certo punto nello sviluppo del modo di produzione capitalistico, la contraddizione in cui viene prodotto il plusvalore, e quelle in cui quest'ultimo viene realizzato avrebbe raggiunto il punto di rottura, cosicché a partire da questo le due cose non sarebbero più state compatibili l'una con l'altra; in altri termini, la produzione basata sul valore di scambio si sarebbe sgretolata. Oltrepassato tale punto, l'eccesso di capitale accumulato e il crescente surplus di popolazione potrebbero anche in qualche modo combinarsi violentemente, ma questo non farebbe altro che intensificare ulteriormente la contraddizione di fondo tra le due cose. Postone ha riformulato le argomentazioni di Marx in una maniera che alcuni potrebbero trovare più facile da comprendere: il lavoro in sé finirebbe per venire svuotato. Come ha detto Postone, poco prima della sua morte: « Marx ci sta indicando una tendenza che svuota del suo contenuto il lavoro proletario, sminuisce il lavoro proletario eppure, tuttavia, continua a fondarsi su questo lavoro.» Il contenuto di cui il valoro viene svuotato, è la sua capacità di creare valore. Ciò che rimane, come residuo, è il tempo di lavoro, il quale è superfluo ai fini della creazione di valore. Il lavoro viene svuotato, diventa vuoto, in quanto non produce più né ricchezza sociale né materiale. Continua ad esistere solo a partire dal fatto che misura la ricchezza sociale.
Nel terzo Libro del Capitale, Marx ha suggerito che programmi come il New Deal di Franklin Delano Roosevelt e la guerra di aggressione di Johnson potrebbero, quanto meno teoricamente, incrementare la massa di plusvalore prodotta dal capitale nazionale totale di un dato paese, ma ciò potrebbe avvenire solo al costo di intensificare ulteriormente la contraddizione esistente tra le condizioni in cui il plusvalore viene prodotto e quelle in cui esso viene realizzato. Il potere produttivo aumenterebbe, e questo anche se il consumo dovesse ridursi ulteriormente. La tendenza all'accumulazione, ad espandere il capitale nazionale, a produrre plusvalore su scala estesa si troverebbe ad essere accelerato. Quelle politiche a cui oggi ci riferiamo, come stimolo keynesiano allo spending deficit, non risolverebbero il problema della sovraccumulazione assoluta di capitale, ma anzi lo esacerberebbero. Probabilmente, non è un'iperbole affermare che la crisi diverrebbe una caratteristica permanente del modo di produzione. Ma si tratterebbe di una crisi del tutto particolare: sarebbe una crisi nella quale la cosiddetta Economia rimane paradossalmente bloccata in una situazione permanente di sovraccumulazione - di overdrive. Rimarrebbe in una situazione di iper-accumulazione di capitale in eccesso.
Ora, rimuoviamo quello che è lo strato di tempo di lavoro superfluo, per concentrarci solo sul tempo di lavoro socialmente necessario. Questo serve a darci un'idea della traiettoria del capitale durante quella che viene affettuosamente ricordata come l'età dell'oro dello stato sociale: il periodo che va dalla fine della II guerra mondiale ed arriva al 1971 circa. Controlliamo se ci viene offerto un quadro credibile di quella che è stata la cosiddetta economia in quel periodo. Controlliamo!
Un modo per controllare che stiamo effettivamente vedendo informazioni utili, e non solo rumore inutile, potrebbe essere quello di rilevare eventi che in precedenza non erano immediatamente evidenti per noi quando abbiamo usato delle serie di dati empirici storici tradizionali.
È interessante notare che ci sono due tacche che coincidono con le date che i ricercatori del NBER (National Bureau of Economic Research) hanno identificato come l'inizio e la fine effettiva della piena convertibilità delle valute sotto il sistema di scambio fisso di Bretton Woods, inizialmente stabilito nel 1944. La maggior parte degli scritti sul sistema di Bretton Woods punta alla data del 1944, ma i ricercatori del NBER si concentrano sul 1959-1968 perché è stato questo il periodo di piena convertibilità. Il set di dati che sto usando, basato sulla moneta reale relativa alle materie prime, indica che durante quei periodi ha effettivamente avuto luogo una perturbazione monetaria. Dopo il 1968, secondo i ricercatori del NBER, il sistema di Bretton Woods è effettivamente collassato in una crisi cronica della valuta del dollaro, e nel 1971 gli Stati Uniti avevano rinunciato del tutto a cercare di gestire la crisi. In questo grafico, tali date spiccano come fossero due fari gemelli, insieme alla data in cui Nixon ha effettivamente messo fine alla partecipazione degli Stati Uniti.
Una volta che Nixon pone fine all'effettiva partecipazione degli Stati Uniti a Bretton Woods, il valore del prodotto interno lordo degli Stati Uniti, misurato in oro, cade giù nel precipizio, producendo così la crisi degli anni '70 che la maggior parte della sinistra radicale e dei marxisti concorda essere avvenuta, ma la cui causa non è quasi mai stata in grado di spiegare.
Gli economisti radicali e marxisti non sono in grado di spiegare la crisi semplicemente perché, secondo i dati ufficiali, non è mai avvenuta. Sì, ci sono state delle brutte recessioni. E uno o due shock petroliferi. E molta inflazione. Ma tutta questa gente intende dire assai più di questo. Loro vogliono dire che c'è stata una crisi, allo stesso modo in cui la Grande Depressione è stata una crisi. Solo che tra il 1971 e il 1980, con la fine dell'ancoraggio del dollaro all'oro, quando la cosiddetta economia degli Stati Uniti cadde in una profonda depressione, non ci fu un replay della Grande Depressione in termini di disoccupazione di massa della classe operaia. Paradossalmente, il tempo di lavoro superfluo, invece di venire eliminato ed essere convertito in disoccupazione di massa del tipo della Grande Depressione, si è semplicemente espanso assumendo proporzioni mostruose. Un altro modo, questo, per dire che il capitale nazionale statunitense esistente è stato temporaneamente svalutato, arrivando a una frazione del valore che aveva prima della crisi - circa il 17,4% del suo valore precedente, o circa il 3,4% della giornata lavorativa totale. Allo stesso tempo, nel 1980, la porzione di giornata lavorativa che era superflua per la produzione di valore si espanse fino al 96,6% della giornata lavorativa. E nessuno riesce a spiegare come o perché tutto questo sia successo; e non hanno potuto nemmeno spiegare cosa fosse successo, perché, in termini monetari, nulla di ciò che stava accadendo appariva nei dati ufficiali del governo!
Il crollo di Bretton Woods è un momento critico che fa da spartiacque perché, a differenza della svalutazione di FDR nel 1933, una volta che essa avviene non c'è più alcun limite pratico a quella parte della giornata lavorativa totale, la quale può essere superflua per la produzione di valore di scambio. Nel 1980, la giornata lavorativa negli Stati Uniti era stata quasi interamente del tutto svuotata; svuotata del lavoro che produceva valore di scambio.
Se la Grande Depressione degli anni '30 ha rappresentato il crollo della produzione basata sul valore di scambio, essa ha anche rappresentato l'epoca di breve durata che ha visto lo Stato come gestore del capitale nazionale. Quest'era, così come il crollo della produzione basata sul valore di scambio che l'ha preceduta, era stata prevista, nel 1880, da Marx ed Engels, cinquant'anni prima che si verificasse.
Voglio qui citare la più significativa delle loro intuizioni su questo argomento da "L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza":
«Nelle crisi la contraddizione fra produzione sociale e appropriazione capitalistica assume forma violenta. La circolazione di merci si arresta; il mezzo della circolazione, il denaro, muta in ostacolo per la circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione delle merci sono sovvertite. La collisione economica raggiunge l'acme: il modo della produzione si ribella contro il modo di scambio. »
Questa ribellione porta a un'ulteriore socializzazione della gestione del processo di accumulazione:
«Questa ribellione delle forze produttive - man mano che diventano sempre più potenti, contro la loro qualità di capitale, questo comando sempre più forte che il loro carattere sociale sia riconosciuto - costringe la stessa classe del capitale a trattarle sempre più come forze produttive sociali, per quanto ciò sia possibile in condizioni capitalistiche. Il periodo di alta pressione industriale, con la sua inflazione illimitata del credito - non meno di quanto faccia il crollo stesso, a causa del crollo dei grandi stabilimenti capitalistici - tende a realizzare quella forma di socializzazione di grandi masse dei mezzi di produzione che poi si incontra nei diversi tipi di società per azioni. Molti di questi mezzi di produzione e di distribuzione sono, fin dall'inizio, così colossali che, come le ferrovie, escludono ogni altra forma di espansione capitalistica. Ad un ulteriore stadio di evoluzione, anche questa forma diventa insufficiente. I produttori su larga scala di un ramo particolare di un'industria in un paese particolare, si uniscono in un "Trust", in un'unione allo scopo di regolare la produzione. Essi determinano la quantità totale da produrre, la suddividono tra di loro e fanno così rispettare il prezzo di vendita fissato in anticipo. Ma i trust di questo tipo, non appena gli affari vanno male, sono generalmente suscettibili di rompersi, e proprio per questo costringono a una maggiore concentrazione dell'associazione. Tutta un'industria particolare viene trasformata in una gigantesca società per azioni; la concorrenza interna lascia il posto al monopolio interno di questa sola società.»
E, alla fine, lo Stato stesso è costretto a prendere il controllo di questo processo:
«Comunque, con o senza trust, il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve diriger la produzione. L'uopo di mutar in proprietà statale si vede anzitutto nei grandi organismi di comunicazione (poste, telegrafi, ferrovie).»
In una nota a piè di pagina a questo passaggio, Marx ed Engels chiariscono che stavano solo parlando di una situazione in cui lo Stato fosse costretto dalle circostanze economiche ad assumere questo nuovo ruolo; costretto, perché l'accumulazione capitalistica avrebbe superato ogni forma di gestione privata. Questo passo sarebbe stato economicamente inevitabile, anche se compiuto dallo Stato borghese, e avrebbe segnato un progresso economico verso il comunismo.
In altre parole (e mettendo questo in termini che potrebbero essere compresi dai nostri marxisti idioti), ad un certo punto nello sviluppo delle forze della produzione sociale, non ci sarebbe alternativa ad una qualche forma di gestione sociale dell'economia. Se i proletari non fossero in grado di prendere il potere, per qualsiasi motivo, sarebbe lo Stato esistente a trovare comunque necessario assumere un simile ruolo. Questa assunzione della gestione economica del capitale nazionale da parte dello Stato esistente non sarebbe "socialismo"; anzi, proprio il contrario: lo Stato diverrebbe in realtà il capitalista nazionale: «Il rapporto capitalista non viene eliminato. Viene piuttosto spinto all'apice. Ma, portato all'apice, si ribalta».
Questo ci porta al 1980, 100 anni dopo la pubblicazione del"L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza". Se, in quel breve pamphlet, Marx ed Engels predissero che non ci sarebbe stata alternativa all'assunzione da parte dello Stato del ruolo del capitalista nazionale, il 1980 sembra indicare il periodo di spartiacque nel quale «Non c'è alternativa» viene a simboleggiare l'inizio di ciò che molti, tra cui i marxisti ottusi, scambiarono per una regressione storica: Il rovesciamento del capitale nazionale gestito dallo Stato.
Ma, continuiamo...
La maggior parte degli eventi politici di quel periodo non ci riguarda, tranne che per un conflitto molto interessante che iniziò durante il periodo che va dal 1982 circa al 2000, quando Washington lottò per limitare tutta una serie ininterrotta di deficit del bilancio federale che ebbe inizio sotto l'amministrazione Reagan. Questo conflitto piuttosto bizzarro può spiegare molto di quello che succede nei vent'anni successivi al 2000, fino ad oggi.
Dico un bizzarro conflitto sulla spesa federale in deficit, perché da qualche parte, là fuori, c'è almeno un marxista che, come me, pensa che la spesa federale in deficit sia stata perlomeno un fattore significativo che ha contribuito a sostenere il tasso di profitto dal 1971, e dal crollo dell'accordo di Bretton Woods. Quel marxista, Peter Jones, ha prodotto un interessante esperimento di pensiero che afferma più o meno questo:
«Supponiamo che, invece di tassare i ricchi, il governo federale prenda in prestito da loro ciò di cui ha bisogno per finanziare il suo funzionamento. Essenzialmente, i ricchi manterrebbero i loro miliardi di dollari di beni, mentre il governo finanzierebbe la sua spesa in gran parte prendendo in prestito da loro. Per esempio, se il governo volesse finanziare tagli fiscali per i ricchi, potrebbe semplicemente prendere in prestito dai ricchi il denaro necessario per finanziare i tagli fiscali. Con i loro nuovi tagli fiscali, i ricchi e le corporazioni potrebbero andare in giro a spendere, distribuendo bonus ai dirigenti, dividendi agli azionisti, facendo acquisti per gonfiare i prezzi delle azioni, corrompendo i college per accettare i loro mocciosi privilegiati, ecc. I profitti si gonfierebbero, anche se nessun nuovo plusvalore viene creato da nessuna parte». [NOTA: La moderna teoria monetaria sostiene che lo Stato non avrebbe nemmeno bisogno di prendere in prestito il denaro dai ricchi per fare questo. Come emittente sovrano di moneta, potrebbe semplicemente creare la moneta su un terminale di computer e spedire tagli fiscali ai ricchi per forzare la moneta in circolazione in questo modo. Ma mi atterrò all'esempio di Jones.]
Jones sostiene che questo metodo di finanziare le spese del governo ha delle grandi implicazioni per la teoria del lavoro:
«Il punto importante qui è che questo potrebbe essere un effetto reale per uno spostamento verso il finanziamento del deficit. Ma non è uno di quelli per cui la legge di Marx è stata progettata per spiegare. Nell'esempio di cui sopra, non c'è nessun cambiamento nel tempo di lavoro socialmente necessario eseguito dai lavoratori produttivi, nel consumo dei lavoratori produttivi (o nei loro salari), o nella spesa del plusvalore da parte di qualsiasi settore. Quindi non c'è nessun cambiamento nella produzione o nella distribuzione del valore. Né c'è alcun cambiamento nel tasso di crescita. Ma questa misura del tasso di profitto aumenta comunque, insieme ai dividendi».
Parafrasando, Jones avverte che questo tipo di deficit spending da parte dello Stato fa sembrare che lo Stato possa fondamentalmente «creare denaro dal nulla», vale a dire, spendere il plusvalore come reddito senza produrlo o dedurlo dai profitti del capitale o spremendolo indirettamente dai salari della classe operaia. Questo crea l'illusione che il prestito governativo stesso possa creare o aggiungere qualcosa alla massa di plusvalore o ai profitti. Mentre sono completamente in disaccordo con la parte in cui la legge di Marx è in grado di spiegare questo, e intendo mostrare il contrario, penso che Peter Jones abbia colto qui qualcosa di molto importante. Ciò che Jones sta indicando, si adatta perfettamente all'argomento di Postone sull'inabissamento della società lavorativa.
Adoro quella foto di Gingrich e Clinton, perché conferma l'argomento di Jones al di là di quelli che sono i più ardenti desideri di qualsiasi economista marxista. Se i deficit vengono usati per sostenere il tasso di profitto, allora un economista marxista potrebbe chiedere, cosa accadrebbe se i deficit sparissero? Jones potrebbe sostenere che il tasso di profitto scenderebbe. E la risposta ortodossa a questo suggerimento sarebbe che se il tasso di profitto cadesse, questo produrrebbe una crisi enorme - una contrazione economica, una depressione.
Quindi Jones ha ragione riguardo ai deficit e al tasso di profitto?
L'accordo Clinton-Gingrich del 1997 ha risposto a questa domanda in maniera abbastanza definitiva. Anche prima che l'accordo fosse finalmente firmato, il dollaro cominciò a rafforzarsi e la crisi asiatica esplose. Il contagio travolse Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Filippine, Cina continentale, Hong Kong, Malesia, Mongolia, Singapore e Giappone. Il turno successivo colpì la Russia, il Brasile e l'Argentina.
Quando colpì la Russia, fece crollare "Long-Term Capital Management", causando quasi un collasso del sistema finanziario statunitense. Poi, quando la bolla dotcom è scoppiata, i polli sono tornati al pollaio.
Nel 2002, la Federal Reserve e quasi tutti gli altri parlavano di deflazione imminente e del limite inferiore dello zero della politica monetaria. L'accordo Clinton-Gingrich e le sue conseguenze hanno confermato che non solo i fascisti stanno usando il deficit spending per sostenere il tasso di profitto, come mostrano i grafici qui sotto, quando i fascisti hanno finalmente ripensato alle implicazioni di questo comportamento e hanno cercato di equilibrare il bilancio, come durante l'amministrazione Clinton ... il capitale nazionale degli Stati Uniti si è quasi immediatamente ribaltato come un barcone della spazzatura che affonda nella terza depressione degli ultimi 90 anni - una depressione che, finora, è durata 20 anni. Oh, non sapevate che siamo in depressione dal 2000? Non siete i soli. Un sacco di marxisti stupidi, come Andrew Kliman, hanno sostenuto il ruolo del calo del tasso di profitto nelle crisi e proprio per questo motivo non si rendono conto che siamo in depressione da due decenni. Siete membri di un club bello grande!
Sì, con la moneta si possono ingannare davvero un sacco di marxisti stupidi con la moneta; e questo anche nel bel mezzo di depressioni che durano due decenni.
Il terzo evento di riduzione del deficit fiscale, dal 2009 al 2015, è meno ambiguo del secondo e, di gran lunga, il più grande dei tre. Dopo lo scoppio della crisi finanziaria, il capitale nazionale statunitense e l'economia mondiale erano in caduta libera. Washington è intervenuta inizialmente con un programma pluriennale di spesa massiccia in deficit, nel tentativo di evitare che il modo di produzione si rovesciasse. Ma l'intervento era stato progettato per essere poi ridotto negli anni successivi. Non solo l'intervento ha affrontato la crisi finanziaria immediata, ma è stato abbastanza grande da fermare temporaneamente la fase di contrazione della depressione entro il 2012, proprio come fece l'intervento di FDR nel 1933. Nel 2013 ha avuto inizio una modesta espansione che è continuata per tutto il 2015 fino a più o meno ad appiattirsi nel 2016, quando la spesa in deficit di Washington è scesa sotto un certo livello definito. E questa situazione si è mantenuta più o meno fino alla comparsa della pandemia CoViD-19 nel 2020.
Allora, Peter Jones ha ragione sul deficit e sul tasso di profitto?
Beh, forse, più o meno.
Ma chi se ne frega, giusto?
Voglio dire, non penserete davvero che io abbia fatto tutto questo per testare l'ipotesi di Peter Jones, vero?
Non siete così stupidi, vero?
Suvvia, a nessuno tranne me interessa cosa ha scritto Peter Jones sull'impatto della spesa statale fascista in deficit sul tasso di profitto.
Quello che vi interessa davvero, è testare l'ipotesi mainstream secondo cui la Grande Depressione degli anni '30 iniziò come una lieve recessione, ma poi si trasformò in una depressione prolungata perché la politica monetaria venne ostacolata dalle limitazioni del gold standard.
Perfino i marxisti credono a questa stronzata. Nel 2002, per esempio, il futuro presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha scritto:
«Quando nella sua campagna presidenziale del 1896, William Jennings Bryan fece il suo famoso discorso della "croce d'oro", egli stava parlando a nome degli agricoltori pesantemente ipotecati il cui debito stava crescendo sempre più in termini reali, era il risultato di una deflazione sostenuta che seguì il ritorno al gold standard dell'America dopo la guerra civile. La sofferenza finanziaria dei debitori può, a sua volta, aumentare la fragilità del sistema finanziario della nazione - per esempio, portando a un rapido aumento della quota di prestiti bancari che sono in ritardo o in default. ... Più vicino a casa, massicci problemi finanziari, tra cui inadempienze, bancarotte e fallimenti bancari, erano endemici nel peggiore incontro dell'America con la deflazione, negli anni 1930-33, un periodo in cui (come ho detto) il livello dei prezzi degli Stati Uniti è sceso di circa il 10% all'anno».
L'affermazione è quasi esilarante. Che questo povero sempliciotto abbia davvero creduto che la lunga depressione della fine del XIX secolo e la Grande Depressione degli anni '30 potessero, in qualche modo, essere imputate al gold standard è davvero piuttosto ridicolo. Che qualcuno abbia messo questo tizio a capo dell'intero sistema bancario degli Stati Uniti è - beh - comprensibile, visto che sono tutti dei sempliciotti. Bernanke era così sicuro che la minaccia di deflazione - depressione - del 21° secolo potesse essere prevenuta da una politica monetaria aggressiva, perché possedeva questa nuova incredibile arma super segreta del 21° secolo, un terminale informatico, che poteva creare trilioni di dollari a volontà:
«il governo degli Stati Uniti ha una tecnologia, chiamata pressa da stampa (ovvero, oggi, il suo equivalente elettronico), che gli permette di produrre tutti i dollari che vuole a costo essenzialmente zero. Aumentando il numero di dollari in circolazione, o anche minacciando credibilmente di farlo, il governo degli Stati Uniti può anche ridurre il valore di un dollaro in termini di beni e servizi, il che equivale ad aumentare i prezzi in dollari di quei beni e servizi. Concludiamo che, sotto un sistema di carta moneta, un governo determinato può sempre generare una maggiore spesa e quindi un'inflazione positiva».
Quindi, come ha funzionato in pratica quest'arma super segreta? Bene, tra il 2004 e il 2007, il Congresso ha ridotto il deficit di quasi il 40% e ha lasciato alla Federal Reserve il compito di gestire le conseguenze. Di nuovo, come è successo con il precedente sforzo di riduzione del deficit, la cosiddetta economia è andata in recessione. Ma questa volta, invece di far fuori semplicemente uno o due hedge fund, ha fatto fuori l'intero mercato immobiliare sovra-indebitato, una buona fetta del sistema finanziario globale e infine ha rotto per sempre la politica monetaria convenzionale. Oh, e non si è fermata lì.
Come potete vedere nel grafico qui sopra, il capitale nazionale degli Stati Uniti ha continuato a contrarsi, nonostante le fiduciose assicurazioni di Bernanke che pure aveva avuto gli strumenti proprio per prevedere questo scenario peggiore. Per fermare definitivamente la contrazione del capitale nazionale statunitense iniziata nel 2001, dopo la catastrofica crisi finanziaria e il crollo della politica monetaria nel 2007-2008, ci sono voluti altri quattro anni e l'iniezione di deficit spending pari al totale del debito federale accumulato nei precedenti 40 anni. E anche questo sforzo è stato sufficiente solamente a riportare la produzione reale, misurata in moneta di base, al punto in cui si trovava nel 2009. Alla fine, l'output, misurato in valore di scambio, era circa il 40% di dove era stato nel 2001.
Nel novembre 2013, quasi undici anni dopo il discorso di Bernanke sulla deflazione, Larry Summers, ex capo economista sotto il presidente Obama, ha tenuto il suo discorso ammettendo apertamente che il mondo è entrato in una nuova era di stagnazione secolare.
Se guardiamo all'intero periodo dal 1929 al 2020, includendo l'impatto previsto delle misure di emergenza prese per rallentare la diffusione della pandemia di CoViD-19 negli Stati Uniti, il grafico risultante assomiglia a quello qui sopra. In realtà, il grafico è un medley di due grafici diversi. Entrambi mostrano il prodotto interno lordo (PIL) annuale del capitale nazionale degli Stati Uniti dal 1929 al 2020. Il primo è denominato in denaro delle materie prime (giallo) e il secondo è denominato in valuta statunitense senza valore (verde). Ho inserito alcuni indicatori solo per aiutare la gente a capire cosa sta succedendo in diversi punti lungo la linea del tempo nel mondo dell'economia borghese.
Non c'è nulla di notevole in questo grafico. È esattamente quello che ogni studioso di Marx si aspetterebbe di vedere, a parte, forse, la scala o la durata dei cicli, in qualsiasi punto lungo la linea temporale del modo di produzione capitalista.
Il grafico non mostra nessuna delle caratteristiche fasi di estrema espansione e contrazione capitalistica durante il periodo dal 1929 al 2020; non ci sono cicli di boom e bust, nessuna caratteristica esplosione quando, come disse Engels, «Il modo di produzione è in ribellione contro il modo di scambio». Nemmeno la prova di qualcosa di banale come quello che Schumpeter chiamava distruzione creativa, letteralmente niente. È come se qualche dottore in economia avesse messo il capitale in coma farmacologico per evitare che le sue crisi sempre più gravi lo uccidano!
È oltremodo strano che un modo di produzione a lungo riconosciuto da marxisti e non marxisti come caratterizzato da anarchia ed esplosioni catastrofiche sia rimasto per novant'anni senza nemmeno un singolo evento come quello che si è verificato con regolarità prima degli anni trenta. Al posto di quei massicci sconvolgimenti economici, abbiamo solo blande recessioni indotte dalla banca centrale e dalle autorità fiscali, la peggiore delle quali ha prodotto una temporanea modesta caduta del PIL su base annua nel 2009-2010 solo dopo aver portato il sistema finanziario globale sull'orlo del collasso totale.
Va notato che il secondo grafico include non solo la regione che ho etichettato come tempo di lavoro socialmente necessario, ma anche la regione del tempo di lavoro che ho provvisoriamente etichettato come "tempo di lavoro capitalisticamente necessario". Questa etichetta implica che, per il capitale, questo tempo di lavoro è tanto necessario per il modo di produzione quanto la regione etichettata come tempo di lavoro socialmente necessario. Inoltre, secondo Marx, il lavoro capitalisticamente necessario, sebbene superfluo alla produzione di ricchezza materiale, diventa, in misura crescente, la condizione per la spesa del lavoro socialmente necessario. Per il capitale, è il tempo di lavoro necessario, il tempo di lavoro che è vitale per questa forma peculiare di ricchezza sociale.
La conclusione a cui siamo inevitabilmente portati è che, dal punto di vista del normale funzionamento del modo di produzione, il grafico deve essere il grafico esatto - e questo nonostante il fatto che sappiamo che include una massiccia quantità di tempo di lavoro assolutamente superfluo, tempo di lavoro che non produce valore, tempo di lavoro che non è richiesto per la produzione di ricchezza materiale. Finché il capitale è la forma di ricchezza della società, questo tempo di lavoro non può essere abolito.
Beh, questa conclusione è stata un po' deludente, non credete? Cioè, se tutto quello che ho da dire dopo questa serie diventata sempre più noiosa è che il grafico che tutti quanti ritengono sia una rappresentazione accurata dello stato dell'economia nazionale degli Stati Uniti negli ultimi novant'anni, è in effetti DAVVERO una rappresentazione accurata dello stato dell'economia nazionale degli Stati Uniti negli ultimi novant'anni - più accurata persino di quella basata su unità fisiche d'oro - allora qual era il dannato scopo di questa serie?
Beh, sì - più o meno - una rappresentazione più accurata di cosa? "Cosa?" era il dannato scopo di questa serie. Lasciatemi spiegare.
Questo primo grafico è una rappresentazione abbastanza accurata del prodotto interno lordo dell'economia nazionale degli Stati Uniti - notate il termine, economia nazionale - negli ultimi novant'anni circa. E questo secondo grafico, credo, è una rappresentazione abbastanza accurata del prodotto interno lordo della capitale nazionale degli Stati Uniti - di nuovo, notate il termine, capitale nazionale - negli ultimi novant'anni circa.
Molti scrittori, anche, in modo imbarazzante, molti scrittori marxisti, confondono un'economia nazionale con un capitale nazionale, ma un'economia nazionale può essere e sarà popolata da molti più attori dei soli capitali.
Nel Manifesto Comunista, per esempio, Marx ed Engels menzionano un buon assortimento di attori che esistevano ai loro tempi: signori feudali, vassalli, maestri di corporazione, garzoni, apprendisti, servi della gleba, piccoli produttori, negozianti, artigiani, contadini, commercianti, proprietari terrieri, banchi di pegno e lumpenproletariat - che esistevano tutti a fianco dei capitalisti. Uno di questi attori, con una presenza sempre più massiccia durante il ventesimo secolo, è stato lo Stato nazionale. Anche lo Stato non è di certo un capitale, e nemmeno un produttore di merci. In mancanza di un termine migliore, può anche essere pensato (almeno provvisoriamente) come un anti-produttore, nel senso che non solo non produce merci da vendere sul mercato, ma consuma improduttivamente le merci che altri nella società hanno prodotto. Inoltre, opto per il termine anti-produttore invece del termine consumatore per l'ovvia ragione che quest'ultimo termine non ci dice nulla. Ogni membro della società che è produttore è anche consumatore. Questo significa, per esempio, che ogni capitale è un consumatore, un consumatore produttivo. La produzione stessa, come ha spiegato Marx, è anche un atto di consumo. Lo stato differisce da questi consumatori in quanto è l'unico nella società a consumare mentre non produce nulla.
(NOTA: Ci possono essere, naturalmente, eccezioni a questa regola, ma, per gli scopi di questo post, assumo che sia il caso generale).
Ma la composizione di ciò che chiamiamo economia è cambiata molto dai tempi del Manifesto Comunista. Da un lato, con quanti signori feudali, vassalli, maestri di corporazione, apprendisti, servi della gleba, piccoli produttori, negozianti, artigiani, contadini, commercianti, proprietari terrieri, banchi di pegno e proletari lumpen scambiate merci nel corso di una tipica giornata? Personalmente, non pranzo con un signore feudale o con uno dei suoi vassalli da... una vita, e la cosa più vicina a un lumpen che conosco è il tizio che può o non può spacciare droga all'angolo in fondo alla strada - dipende da quanto bene ti conosco.
Lo Stato, d'altra parte - quello che Marx chiamava quell'«orribile corpo parassitario, che avvolge il corpo della società francese come una rete e ne soffoca tutti i pori» - nell'economia ai tempi di Marx potrebbe essere stato poco più di un piccolo attore, ma non molto di più. Negli Stati Uniti, che a quel tempo godevano delle condizioni più libere e favorevoli - nel senso che non avevano ereditato una macchina feudale parassitaria gonfiata - i governi federali, statali e locali insieme probabilmente rappresentavano meno del cinque per cento della produzione interna lorda. Come mostra il grafico qui sopra, quello stesso Stato ora rappresenta circa il trentacinque per cento della produzione interna lorda durante il tempo di pace - forse tre volte la dimensione dello Stato rispetto all'intera economia durante il culmine di una guerra civile in piena regola combattuta per la sua stessa esistenza su tutta la larghezza del suo territorio!
Ho aggiunto i soliti marcatori per orientarvi sulla linea temporale, che, in questo grafico, va più indietro nella storia di qualsiasi altro grafico prodotto finora per questa serie - 1860, appena prima dello scoppio della guerra civile. L'ho fatto per fornire una prospettiva a lungo termine sulla dimensione reale della macchina statale degli Stati Uniti rispetto al resto della cosiddetta economia nazionale. Guardiamo questa linea temporale, ma concentriamoci solo sulle spese del tempo di pace, ok?
- 1860: Prima della guerra civile, lo Stato assorbiva meno del cinque per cento del PIL.
- 1866-1917: Dopo la guerra civile, lo Stato è aumentato in modo significativo fino a circa il sette per cento del PIL.
- 1920-1929: Dopo la prima guerra mondiale, ma prima della Grande Depressione, la quota statale del PIL aumentò ancora, questa volta a circa il dodici per cento del PIL.
- 1930-1941: Con l'inizio della Grande Depressione, il PIL è sceso drammaticamente, naturalmente, ma, sorprendentemente, nonostante questa caduta, la quota statale del PIL è quasi raddoppiata a quasi il venti per cento.
- 1947-2020: Ancora una volta, saltando la seconda guerra mondiale, troviamo che, nel periodo post-bellico, la pretesa dello stato su una quota del PIL degli Stati Uniti è gradualmente e costantemente cresciuta dal 23% nel 1947 al 44% nel 2020 - con una media di circa il 32% nell'intero periodo.
C'è stato un costante aumento della quota di PIL assorbita dallo stato anche quando si astrae dai massicci conflitti militari combattuti nel periodo di 160 anni dalla guerra civile. Infatti, ogni guerra sembra solo accelerare la crescita costante della quota del PIL aggregato assorbita dallo stato. Ora, perché questo potrebbe essere significativo?
È importante capire che, come ho detto prima, sto assumendo che tutta questa spesa federale, statale e locale consiste in un consumo improduttivo, vale a dire che lo Stato non produce merci proprie; è un parassita della società in generale. Secondo Marx ed Engels, l'attore economico in questione deve ottenere denaro vendendo una merce. Le spese dello Stato, per quanto alcune possano considerarle necessarie, ricadono nella stessa categoria di trasferimenti come il grano da trapasso e il grano da decima che il contadino produceva per il signore feudale e il parroco. Come chiarisce Engels, «Per diventare una merce un prodotto deve essere trasferito ad un altro, a cui servirà come valore d'uso, per mezzo di uno scambio». Chiaramente, le tasse e altre entrate statali simili non rientrano in questa categoria.
Sulla base di tutto questo, ho concluso che le entrate e le spese statali non dovrebbero essere trattate allo stesso modo di altri elementi del prodotto interno lordo degli Stati Uniti.
Permettetemi di fare un ulteriore passo avanti, e suggerire che tutte le spese del governo federale, statale e locale sono superflue e comportano la spesa di tempo di lavoro superfluo, come mostrato dal grafico
Questo significa che ora abbiamo un vero problema teorico con i dati storici. I dati su cui ci siamo basati presuppongono che le spese statali debbano essere aggiunte alla produzione aggregata dell'economia nazionale. Tuttavia, sappiamo che, nella teoria del valore del lavoro di Marx, il lavoro superfluo «non conta come lavoro, e quindi non crea valore». Il che significa che le spese del governo federale, statale e locale non aggiungono al valore del prodotto interno lordo degli Stati Uniti, ma in realtà sottraggono al prodotto interno lordo degli Stati Uniti. Questo perché, non solo lo Stato non aggiunge alcun nuovo valore alla circolazione, ma consuma improduttivamente una certa parte del valore esistente già in circolazione. Ma è qui che diventa un po' complicato, perché, come abbiamo visto in precedenza, a partire dal 1933, il programma fascista AAA di Roosevelt, fondamentalmente cominciò a pagare ai nostri poveri agricoltori, storicamente condannati dal tempo di lavoro che non produceva alcun valore, proprio quel tempo di lavoro superfluo, come mezzo per uscire dalla Grande Depressione.
Viene naturale chiedersi se questo bizzarro cambiamento di comportamento da parte di Washington abbia avuto qualche effetto sul modo in cui viene calcolato il PIL degli Stati Uniti secondo la teoria del valore del lavoro di Marx. Non c'è da stupirsi, scopriamo che effettivamente ha un effetto su come vengono calcolate le spese federali statali e locali, come è mostrato nel grafico qui sopra. Stavo guardando i dati storici sul PIL degli Stati Uniti e mi è venuto in mente che tutti i dati prima del 1933 sono sospetti, forse anche prima del 1971. Il problema è il modo in cui si tiene conto delle spese statali in quei numeri. La teoria del valore del lavoro di Marx conterebbe queste spese come distruzione di valore, ma il Bureau of Economic Analysis, che compila le cifre del prodotto interno lordo degli Stati Uniti, conta le spese del governo come valore aggiuntivo. Questo significa essenzialmente che la teoria del lavoro differisce dai sempliciotti borghesi in quanto prima del 1933 le spese statali contano come un freno alla produzione dell'economia nazionale, poiché queste spese non aggiungono nulla alla produzione nazionale e consumano solo improduttivamente il capitale reale. Prima della rottura della produzione basata sul valore di scambio, questa distruzione semplicemente non appariva come qualcosa di diverso da una perdita di PIL potenziale, nello stesso modo in cui qualsiasi tempo di lavoro improduttivo non sarebbe stato contato in uno scambio di mercato. Cadrebbe, a tutti gli effetti, sotto la voce di tempo di lavoro superfluo, come una porzione di tempo di lavoro che non ha creato valore.
Ma che dire di dopo il 1933 - dopo che FDR ha emesso l'ordine esecutivo 6102?
Dopo la ripartizione della produzione basata sul valore di scambio, le spese del governo federale, statale e locale vengono immediatamente catturate come una porzione di tempo di lavoro superfluo il quale, mentre è ancora superfluo e non crea alcun valore, tuttavia ha un prezzo denominato in moneta di Stato svalutata e senza valore. In altre parole, questo tempo di lavoro apparirebbe come una parte componente del PIL sotto la stessa voce dei raccolti in eccesso non commerciabili dei nostri poveri, storicamente condannati in quanto sporchi agricoltori che non avevano un prezzo di mercato prima della AAA, ma che hanno acquisito un prezzo denominato nello stesso debito svalutato sotto il programma AAA di FDR.
Nonostante il fatto che il tempo di lavoro speso dagli impiegati pubblici e dai venditori nel settore statale non crei alcun valore, questa spesa sembrerebbe avere un prezzo denominato in valuta ed essere conteggiata come una parte aliquota del prodotto interno lordo degli Stati Uniti, proprio come l'eccesso di produzione degli sporchi agricoltori.
Così, otteniamo questa inversione davvero bizzarra nel nostro grafico dove, per esempio, la Prima Guerra Mondiale, situata verso il centro del grafico, appare come una diminuzione piuttosto netta del prodotto interno lordo degli Stati Uniti a causa del volume delle spese militari, mentre la Seconda Guerra Mondiale appare sul nostro grafico come un aumento ancora più netto del prodotto interno lordo, a causa del volume molto maggiore delle spese militari appena due decenni dopo.
In entrambi i casi, le spese non hanno valore e consumano improduttivamente il valore esistente, ma nel secondo caso, il macabro affare della guerra appare per la prima volta nella storia umana come un'attività "produttiva", produttiva di profitto nella misura in cui una massa sempre crescente di capitale in eccesso e una sempre crescente popolazione in eccesso di lavoratori salariati può essere messa in moto dalle spese statali.
Continuiamo a guardare l'ultimo bizzarro grafico: appare cime una rappresentazione visiva dell'impatto della spesa statale sulla produzione interna lorda dell'economia nazionale degli Stati Uniti dal 1860 al 2020. Sembra essere diviso in due periodi. Nel primo periodo, le spese statali appaiono come valori negativi, cioè appaiono come un freno alla produzione interna lorda. Nel secondo periodo, le spese statali appaiono come valori positivi, cioè sembrano contribuire al prodotto interno lordo. In entrambi i periodi, tuttavia, le spese statali sono del tutto superflue per la produzione di valore e di plusvalore. Lo stato non produce nulla, semplicemente espropria ciò che richiede alla società sotto la voce imposte e altre entrate. Questa espropriazione si traduce direttamente in una perdita materiale della capacità produttiva della società. Gli scribacchini borghesi possono dare a questo esproprio ogni sorta di giustificazioni a posteriori, ma noi non ci lasciamo distrarre da queste giustificazioni. Lo Stato è un vile parassita della società che la dissangua spietatamente della sua sostanza e che di conseguenza si gonfia fino a proporzioni immense. Ma, basta con questo meschino moralismo, perché sto cominciando a sembrare un inutile libertario o addirittura - Dio non voglia - un terribile anarchico senza istruzione! Quello che ci interessa davvero sapere è come lo Stato ha attuato la transizione che lo ha portato dall'essere irrimediabilmente improduttivo, parassita e trascinatore dell'economia nazionale a diventare effettivamente una sorta di «cittadino produttivo», capace di contribuire a, e persino stimolare, la produzione interna lorda. La transizione avviene durante la Grande Depressione del 1930 e perciò dobbiamo concentrarci su quel periodo.
Ricordate, questo era il primo grafico. Esso mostra cosa accadde quando FDRoosvelt emise l'ordine esecutivo 6102, espropriò l'oro di proprietà privata, svalutò il gold price standard del 70% e cominciò a "pagare" i nostri poveri, sporchi agricoltori storicamente condannati sotto la AAA, con dei dollari contraffatti, per i raccolti che non potevano vendere sul mercato. Come potete vedere, nonostante l'ordine di FDR, nel 1933 il PIL denominato in oro continua a diminuire e non recupera mai il livello del 1932, nemmeno nel 1939. Tuttavia, il PIL nominale, denominato in dollari di carta senza valore, arresta immediatamente il suo declino, scendendo solo in modo trascurabile nel 1933; nel 1934, è in crescita ben al di sopra del suo minimo del 1932.
Scommetto che avete pensato: «Ragazzi, questo è un enorme salto nella produzione interna lorda nominale e solo grazie all'acquisto di poche centinaia di migliaia di tonnellate di mais».
Sì, anche io ho pensato la stessa cosa, così ho guardato quanta differenza c'era tra il PIL denominato in oro e quello denominato in dollari nel 1933.
Nel 1933 il PIL denominato in oro ha continuato a crollare, mentre il PIL nominale, denominato in dollari, è sceso solo leggermente. Alla fine del 1933, la differenza tra le due misure del PIL ammontava a circa 23,4 miliardi di dollari - una somma veramente enorme in un'economia che, nominalmente, era solo di circa 60 miliardi di dollari all'epoca. Ho pensato che probabilmente qui c'è qualcosa di più rispetto allo Stato che "paga" i nostri poveri agricoltori, storicamente condannati sotto la AAA, con dollari falsi, per i raccolti che non potevano vendere sul mercato. Poi, mi è venuto in mente che dopo l'Ordine Esecutivo 6102, lo stato potrebbe "pagare" non solo i nostri poveri, storicamente condannati agricoltori sporchi, ma tutti quelli da cui normalmente "comprava" le materie prime con gli stessi dollari falsi, compresi i suoi attuali dipendenti e venditori, e finanziare tutti i suoi programmi sociali (che esistevano all'epoca) per qualsiasi scopo.
Così, ho creato questo secondo grafico con - una sovrapposizione aggiuntiva per le spese del settore statale - per vedere se la mia intuizione era giusta. Voglio sapere se il divario tra il PIL nominale denominato in dollari e quello denominato in oro potrebbe essere spiegato da uno spostamento che ha avuto luogo quando FDR ha emesso l'ordine esecutivo 6102. L'ordine esecutivo di FDR ha spostato l'intero settore statale, dall'essere un freno al PIL nominale degli Stati Uniti, ad agire come se fosse un'aggiunta netta al PIL degli Stati Uniti. Ora, naturalmente, non c'è modo di vedere questo spostamento in quelli che sono i dati storici grezzi forniti dal BEA. Ma dovrei vedere qualcosa di meglio: la dimensione del mio presunto spostamento, nell'impatto della spesa statale sul PIL tra il 1932 e il 1933, dovrebbe approssimare la differenza tra ciò che la teoria del lavoro dice che avrebbe dovuto essere il prodotto interno lordo nel 1933, e ciò che i dati BEA dicono che il PIL era effettivamente nel 1933.
E cosa vediamo? Che le due somme sembrano corrispondere vagamente. La differenza tra il PIL nominale nel 1933, secondo il BEA, e quello che il PIL avrebbe dovuto essere secondo la teoria del valore del lavoro, è di circa 23,4 miliardi di dollari. E secondo il mio calcolo - quando il settore statale passa dall'essere un freno di -12,4 miliardi di dollari sul PIL nominale nel 1932 e arriva ad aggiungere 12,6 miliardi di dollari al PIL nominale nel 1933 - il cambiamento netto è di circa 25 miliardi di dollari nel PIL nominale.
La discrepanza tra il mio calcolo e i dati reali è di circa 1,5 miliardi di dollari - quindi le cifre non sono esatte e questo va spiegato, naturalmente, ma la mia argomentazione è sostanzialmente coerente con i dati. Come si spiega questo?
Per capire come funziona, basta chiedere alle persone che descrivono come funziona il denaro moderno (moneta emessa dallo Stato svalutata), e come lo Stato si finanzia realmente. Vi diranno che lo Stato, oltre l'ordine esecutivo iniziale 6102, non avrebbe avuto bisogno di alcun programma speciale per dare inizio a questo salvataggio in stile AAA dell'intera economia, dal momento che l'ordine esecutivo stesso ha di fatto liberato lo Stato da qualsiasi vincolo fiscale interno. Lo Stato poteva emettere moneta come più e meglio credeva per finanziare le proprie operazioni, per coprire i "costi" dell'assunzione di forza lavoro, per fare "acquisti" di materie prime dai venditori, e per "finanziare" quei programmi sociali che esistevano allora in modo da stabilizzare temporaneamente non solo gli sporchi agricoltori, ma tutta l'intera economia. Come risultato, il settore statale era passato dall'essere un freno economico al prodotto interno lordo nel 1932, ad aumentare il prodotto interno lordo nominale nel 1933. E la teoria del valore del lavoro aggiungerebbe che lo Stato fece questo senza produrre alcuna merce o alcun valore d'uso, nessun valore o plusvalore, e lo fece solo consumando improduttivamente il capitale in eccesso che si trovava già in circolazione!
Il che significa che il New Deal era solo una distrazione; dopo l'O.E. 6102, le spese dell'intero settore statale erano fondamentalmente l'AAA sotto steroidi: un programma per pagare un sacco di gente per eseguire lavoro superfluo e non necessario che non creava alcun valore, ma consumava comunque molto capitale in eccesso, e che aveva già portato il modo di produzione basato sul valore di scambio al collasso.
Ecco, pertanto, alla fine di questo percorso, la mia opinione sul concetto di svuotamento della società lavorativa, di Postone.
Supponiamo che la società del lavoro, secondo il modo in cui Postone usa questo termine, significhi una società di produzione capitalista di merci, in opposizione alla semplice produzione di merci. (E qui la distinzione è molto importante, nonostante la scuola della forma-valore.) Questa produzione capitalista di merci, tuttavia, continua a basarsi sul lavoro che produce valore - secondo il modo in cui il termine viene impiegato da Marx nel Capitale, Volume uno Capitolo 1 - ma viene però usato per estrarre plusvalore, non solo valore di scambio. L'espressione «svuotamento della società lavorativa» significa che il lavoro produttore di valore viene progressivamente derubato della sua capacità di produrre valore, dallo sviluppo delle forze di produzione sociale create dalla stessa accumulazione capitalista.
Come viene spiegato da Marx nei Grundrisse, il meccanismo di tutto questo è che, nella produzione di valori d'uso materiali, il lavoro che produce valore viene progressivamente sostituito dalle macchine:
«la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta — questa loro powerfull effectiveness — non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione. (Lo sviluppo di questa scienza, in particolare della scienza della natura, e con essa di tutte le altre, è a sua volta di nuovo in rapporto allo sviluppo della produzione materiale).»
Secondo Marx questo sviluppo dovrebbe alla fine portare alla rottura della produzione basata sul valore di scambio e all'emergere di una società comunista dove:
«il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro».
Non così in fretta, dice Postone. Il comunismo non emerge necessariamente. È un risultato contingente. L'altro risultato è che il lavoro viene progressivamente svuotato, reso superfluo rispetto alla produzione di ricchezza materiale, ma il comunismo non emerge mai:
«Con la produzione industriale capitalista avanzata, il potenziale produttivo sviluppato diventa talmente enorme da fare emerge una nuova categoria storica di tempo "extra" per i molti, permettendo così una drastica riduzione di entrambi gli aspetti del tempo di lavoro socialmente necessario, e una trasformazione della struttura del lavoro e della relazione tra il lavoro e altri aspetti della vita sociale. Ma questo tempo in più emerge solo come potenziale: come strutturato dalla dialettica di trasformazione e ricostituzione, esiste sotto forma di tempo di lavoro "superfluo"».
Postone basa questa valutazione sull'opinione che la necessità storica su cui si basa Marx non può, di per sé, creare la libertà che prevede. È interessante notare come si riferisca a Marx, in quanto autorità per questa posizione:
«La mia analisi della dialettica della trasformazione e della ricostituzione, ha dimostrato che, secondo Marx, la necessità storica non può, di per sé, dare origine alla libertà. La natura dello sviluppo capitalistico, tuttavia, è tale che può dare luogo - e lo fa - al suo immediato opposto: la non-necessità storica, la quale, a sua volta, permette la negazione storica determinata del capitalismo. Questa possibilità può essere realizzata, secondo Marx, solo se gli uomini si appropriano di ciò che si è costituito storicamente come capitale».
Ora, questo ci lascia con il peggior risultato possibile: se la base fondamentale dell'accumulazione capitalista, il valore di scambio basato sulla produzione, è ora una non-necessità storica - ma la gente (quale gente?) non vuole o non può appropriarsi di ciò che è stato costituito storicamente come capitale - qui Postone sostiene che questo non può che risultare come una massa sempre più crescente di tempo di lavoro superfluo, di lavoro che non produce nulla, di lavoro vuoto che serve per il bene dell'accumulazione fittizia.
Questo è lo scenario da incubo che Rosa Luxemburg chiamava Barbarie.
- Jehu - 2020/2021 - Fonte: Real Movement -
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